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Una nuova economia rurale per custodire la terra

Intervento al Seminario di approfondimento promosso da Acli Terra sul tema "Una nuova economia rurale per custodire la terra" svoltosi il 21 marzo 2013 a Caserta, presso la Biblioteca del Palazzo Vescovile

giovani

La società contemporanea è alle prese con quattro problemi molto gravi: 1) l’insicurezza alimentare che è nel contempo causa ed effetto della povertà; 2) i cambiamenti climatici che mettono a serio rischio l’ecosistema; 3) l’erosione dei beni relazionali con un accentuarsi della perdita di senso; 4) la crisi economica e finanziaria che provoca una continua distruzione di imprese e di posti di lavoro e allontana sempre più le possibilità di occupazione per i giovani.

Per poter affrontare l’insieme di queste quattro crisi, occorrerebbero innanzitutto rispetto reciproco, responsabilità, fraternità civile. Ricostruendo i legami comunitari saremmo difatti in grado di valorizzare qualsiasi ente e così custodire la terra.

Quale terra? “Terra” come spazio agrario intorno ad un centro abitato; “terra” come borgo o contrada in cui i contadini scambiavano i propri prodotti e vendevano il proprio lavoro, da dove partivano la mattina per andare in campagna, ma dove rientravano la sera; “terra” come paese (da pagus, villaggio) dove usare e mantenere in vita le opportunità materiali, sociali e interpersonali del territorio; “terra” come spazio del coltivare, del costruire e dell’abitare senza distinguere l’urbano dal rurale; “terra” come nostra dimora per starci bene e il più a lungo possibile; “terra” insomma come comunità che soddisfa i bisogni delle persone mediante le pratiche reciprocamente solidali e la cura dei beni di tutti.

Il contadino che coltivava la terra, la amava ma la sentiva dura. Ne sperimentava la resistenza. Ed è per questo che la storia dell’agricoltura è la storia della manipolazione della terra con la tecnica per renderla abitabile. La lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. “Agricoltura” e ”costruzione” hanno lo stesso termine: Ackerbau; “contadino” ed ”edificatore” hanno un comune modo di dire, Bauer, e l’antica radice Buan significava ”abitare”. Per governare un territorio, non più urbano né rurale, e abitarlo in modo consapevole, dobbiamo ritornare ad unificare tutti questi significati e riconoscerci come comunità di costruttori e manutentori dei paesaggi che abitiamo.

“Custodire la terra” è, dunque, prendere dimora insieme ad altri sulla terra, farsi ospitare dalla terra, fare comunità e, al tempo stesso, realizzare l’individualità. Ma “fare comunità” significa entrare in una rete di obblighi che riguardano le persone e le cose, innanzitutto il dovere di valorizzare le loro capacità.

Cosa significa valorizzare le capacità della terra? Significa valorizzare la sua potenzialità di diventare una dimora adeguata per l’uomo.

Non si tratta, dunque, di custodire la terra in quanto natura. Sappiamo fin da Empedocle e Lucrezio che la natura si trasforma continuamente, genera e distrugge all’infinito. Del resto da chi e da cosa la natura si dovrebbe custodire? Quello che dobbiamo custodire della terra non è, dunque, il suo essere natura, la sua naturalità, ma è il bios, la capacità di una rigenerazione infinita della vita attraverso la vita.

Per custodire la terra non basta vietarne il consumo (un divieto si può sempre togliere all’occorrenza!) ma occorre che le comunità decidano come valorizzare le sue capacità.

Se le aree interne (montagna e collina) non torneranno ad essere abitate ricostituendo le comunità, si accentueranno i fenomeni di dissesto idrogeologico e la montagna e la collina saranno destinate a cadere a valle.

Se le aree agricole urbane e periurbane non saranno pianificate per insediarvi agriturismi, fattorie sociali, fattorie didattiche, insomma tutto quel terziario agricolo che serve mettere al servizio delle aree urbanizzate, esse resteranno aree di riserva che prima o poi (se la popolazione dovesse crescere) saranno cementificate. Per preservarle e custodirle, le campagne urbane vanno riempite di attività, vissute, fruite, presidiate con opere che servino alle comunità locali e che le comunità locali reputino utili per tutti.

Le crisi, com’è noto, non sono necessariamente portatrici di sventure ma possono anche costituire un’occasione per cambiare, generando così prosperità.

Gli antichi Greci esprimevano l’idea funesta di crisi politica, sociale e morale interna alla polis, portatrice di conflitti nel popolo, con il termine stasis, che significa “inattività”, “assenza di cambiamento”.

La parola “crisi” che noi moderni adoperiamo quando incombono delle perturbazioni deriva invece dal greco krinein, che significa “separare” e in senso figurativo “giudicare”,  “decidere”. Le crisi dovrebbero, dunque, costituire momenti dinamici che separano una maniera di essere o una serie di fenomeni da un’altra differente. Dovrebbero scandire i tempi di svolta, di scelte, di crescita da valutare positivamente o negativamente più dai suoi esiti comportamentali che dall’essere fonte di stress per definizione.

Cosa dovremmo lasciarci alla spalle, da cosa dovremmo separarci?

Innanzitutto da un’idea riduttiva e avvilente della persona umana. Dovremmo abbandonare un’opinione diffusa che vuole gli uomini mossi unicamente da autointeresse miope e non anche dalla simpatia verso gli altri e dall’etica della responsabilità verso ogni ente. Gli esseri umani prima di cercare interessi e guadagni, sono cercatori di stima, di approvazione sociale, di relazioni.

Dovremmo lasciarci alle spalle una concezione secondo la quale hanno dignità di esistere solo le imprese proiettate esclusivamente alla massimizzazione del profitto e sono, comunque, destinate a soccombere nella concorrenza con le prime, tutte quelle che si pongono anche altri obiettivi.

Entrambi questi riduzionismi derivano da un’errata rielaborazione della teoria economica diventata nel tempo senso comune.  Ci siamo dimenticati che Adam Smith non ha scritto solo l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni ma anche la Teoria dei sentimenti morali, che introduce il principio di simpatia o passione per l’altro, e che Antonio Genovesi – contemporaneo di Adam Smith – volle denominare la sua cattedra all’Università di Napoli Istituzioni di Economica Civile, proprio per rimarcare che l’uomo non è mosso solo dalla convenienza e dall’interesse personale,  ma prima di tutto dall’obiettivo del mutuo aiuto.

L’idea che nel mercato sopravvive solo l’impresa che ha come obiettivo principale quello di massimizzare il profitto è stata sconfessata proprio dagli esiti della crisi finanziaria, che hanno gettato sul lastrico le banche che si erano spinte più avanti su questa strada.

Ci sono tanti imprenditori, tante aziende a dimensione familiare, tante imprese sociali del Terzo settore, tante persone impegnate nei gruppi di acquisto solidale, nel commercio equo e solidale, nel commercio elettronico, nell’agricoltura sociale, nei piccoli esercizi commerciali, nella ristorazione di qualità, nelle reti di economia solidale che vivificano un’economia civile e dimostrano concretamente come il mercato siamo noi e che la prossimità, nell’era di internet, può essere vissuta mettendo a contatto aree diverse del pianeta integrando culture alimentari, biodiversità, pratiche solidali.

Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di  un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione in contesti sempre più multietnici, come quelli europei, e un veicolo per diffondere nel mondo l’idea di alimentazione sostenibile e di piacere del cibo come diritto di tutti.

 L’altro luogo comune da sfatare è che il benessere delle persone sia solo materiale. E sfugge che il benessere è anche spirituale.  Nella vita è importante avere più cose o consumare più beni. Ma è altrettanto importante decidere, in libertà, la composizione dell’insieme dei beni da produrre, nonché le modalità di fornitura dei beni stessi.

Si discute se la crescita sia in sé un bene o un male. E’ una discussione che non porta da nessuna parte. La crescita non dev’essere un fine ma un mezzo. E oggi serve per creare più lavoro e meno debito pubblico. Crescere significa fiorire. Non c’è vita senza fioritura. Si vive meglio in un paese che sta crescendo e in fretta anziché in un paese già ricco e ormai in stagnazione.

C’è quindi un nesso più forte tra felicità e crescita che tra felicità e ricchezza. Ci dà più gioia crescere; e questo non significa necessariamente arricchirci, distruggere i beni comuni. Si può benissimo crescere acquisendo consapevolezza critica, responsabilità sociale, sobrietà e, dunque, modelli di produzione e di consumo sostenibili. Crescita non è necessariamente sinonimo di consumismo e di spreco. Crescere è vivere in pienezza la propria vita.

Porre attenzione alla crescita non vuol dire guardare solo l’aumento del Pil pro capite. Ci sono infatti aree che il Pil non considera ma che sono importanti per creare valore economico in modo sostenibile e per un’economia al servizio delle persone. Si tratta di tutte quelle attività economiche invisibili che non passano attraverso le transazioni di mercato: quelle interno alle famiglie e quelle svolte dal volontariato.

Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata all’erosione delle risorse, che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo le risorse naturali ma prima ancora il capitale sociale che è essenziale per custodire la terra e gli altri beni comuni.

Quali novità potremmo avviare, quale realtà dovremmo guardare con nuovi occhiali?

È giunto il tempo di guardare con attenzione al fenomeno della nuova ruralità, comparso in Europa tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ma che in genere siamo portati ad ignorare.

Nella discussione sulla nuova Politica Agricola Comune (PAC) per il periodo di programmazione 2014-2020, tutti si preoccupano del cosiddetto “primo pilastro”, quello degli aiuti diretti, dei pagamenti agli agricoltori, singolarmente e senza la predisposizione di un progetto. È la forma di intervento in agricoltura più cospicua. Se la PAC è il 40 per cento del bilancio comunitario, gli aiuti diretti costituiscono l’80 per cento della PAC. La diatriba di questi giorni tra le organizzazioni ambientaliste e quelle agricole è tra chi vorrebbe gli aiuti diretti un po’ più verdi (con qualche vincolo in più) e chi meno, ma nessuno lamenta l’esiguità delle risorse e la farraginosità delle procedure del “secondo pilastro”, quello dello sviluppo rurale.

Una delle cause fondamentali della crisi della rappresentanza sociale in agricoltura è proprio il venir meno del ruolo di propulsione del capitale sociale da parte delle organizzazioni. E tale crisi si è avviata quando esse hanno accettato e difeso politiche pubbliche che anziché alimentare il capitale sociale lo erodono (come ad esempio il sistema comunitario degli aiuti diretti agli agricoltori che favoriscono i comportamenti individualistici e disincentivano le pratiche collaborative e i comportamenti responsabili).

Eppure, la nuova ruralità esprime il riemergere di bisogni ancestrali legati alle relazioni uomo-terra e uomo-cibo che si erano determinate nell’ambito di assetti comunitari e di forme collettive di utilizzazione delle risorse naturali, considerate da tempi immemorabili come beni comuni.

Tale fenomeno si manifesta in modo differenziato a seconda delle tradizioni della ruralità. Nelle regioni continentali la nuova ruralità è prevalentemente conservazionistica e ricreativa perché fa leva su di una tradizione rurale di tipo naturalistica e agraria. Nelle regioni mediterranee si pone, invece, in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagna, nonché per una diffusa presenza della pluriattività e dell’economia informale. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, appena sufficiente ad alimentarle.

La nuova ruralità mediterranea non si manifesta come “nostalgia del mondo rurale” ma come rinnovata combinazione di attività in più settori e di soggetti sociali di diversa estrazione e provenienza, legati tra loro da relazioni di tipo collaborativo. Affonda, inoltre, le sue radici in un rapporto molto intenso con il mare che è per l’area mediterranea una fonte alimentare importante, benché parca e mai esaustiva. E’ dunque una ruralità che vede, lungo la costa, una presenza di pescatori-artigiani, i quali sono anche agricoltori intenti a coltivare il proprio campo.

La nuova ruralità può essere sostenuta perché diventi economia civile solo se si promuovono percorsi partecipativi dal basso con il coinvolgimento delle comunità locali, uscendo dalle logiche settoriali e degli interventi “a pioggia”.

La nuova ruralità è oggi l’ambito in cui si sperimentano nuovi modelli di welfare in cui produzione di ricchezza ed erogazione di servizi alla persona coincidono, come nel caso dell’agricoltura sociale.

 L’agricoltura sociale

L’agricoltura sociale è l’insieme di pratiche che generano benessere alle persone e alle comunità locali mediante processi produttivi e beni relazionali propri dell’agricoltura e delle tradizioni rurali. E’ un’innovazione sociale perché introduce forme di produzione, di scambio e di consumo, capaci di rispondere a nuovi bisogni sociali, mediante un cambiamento delle relazioni tra le persone.

 L’agricoltura sociale cambia la società civile poiché induce le persone coinvolte alla relazionalità responsabile e alla cittadinanza attiva. Essa introduce la co-opetition come nuovo modello di sostenibilità economica. La cultura prevalente riconosce un unico modello competitivo, quello di tipo posizionale. C’è chi vince e c’è chi perde come in una gara sportiva o in una guerra. Insomma, una competizione a somma zero. Ma non esiste solo questo modello: c’è anche quello che  si fonda sul mutuo vantaggio dei soggetti che partecipano allo scambio di mercato. Tali soggetti agiscono come un team per raggiungere obiettivi comuni in grado di avvantaggiare tutti i partecipanti dello scambio economico, compresi i consumatori responsabili, organizzati in gruppi di acquisto solidali o altre forme più incisive.

Il mercato non è mai un gioco a somma zero, come il poker o la guerra, cioè interazioni sociali dove le vincite alla fine del gioco debbono essere uguali alle perdite. Il mercato è vita, non solo è mutuo vantaggio e reciprocità ma è mutua assistenza.

Se il mercato è fondato sul mutuo aiuto, allora sì che è possibile leggerlo come un brano di vita in comune, come un momento della società civile.

 Cosa impedisce di attivare progetti commerciali che vedano la partecipazione di produttori e operatori italiani e di altri paesi europei, del Mediterraneo o del mondo, accomunati dalla volontà di aggiungere allo scambio economico anche un ulteriore livello di negoziazione, fondato sulla dimensione civile? L’obiettivo dovrebbe essere quello di riconoscere una quota di valore ai produttori, specie quelli dei paesi più poveri del nostro, che sia remunerativa e di assicurare risorse per investimenti che permettano una loro maggiore inclusione nei mercati, affrontando gli aspetti igienico-sanitari, ambientali e di sicurezza del lavoro relativi alla produzione.

Progetti innovativi di questo tipo riscuoterebbero senz’altro l’interesse dei cittadini, che potrebbero così farsi parte attiva e responsabile nella realizzazione dell’obiettivo, diventando acquirenti consapevoli di prodotti garantiti innanzitutto dalla qualità delle relazioni tra tutti i partecipanti allo scambio economico: produttori, trasformatori, distributori e consumatori che collaborano indipendentemente dal paese in cui si trovano.

È in tal modo che si potrebbe creare valore economico in forme sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale. E si allargherebbe all’interno del sistema l’economia civile, l’economia che si pone al servizio delle persone, l’economia responsabile.

L’entusiasmo della consapevolezza

 Noi abbiamo un’idea troppo giuridica di responsabilità. Questa non è semplicemente “imputabilità”: rendere conto di quel che si fa a qualcun altro. Deriva dal latino responsare, forma intensiva del verbo respondere. La responsabilità è, dunque, soprattutto l’obbligo di rispondere alle richieste dell’altro in quanto altro. Infatti, ogni uomo è per l’altro sempre una domanda. Per dare risposta a questa domanda è necessario prestare attenzione alla voce dell’altro.

L’attenzione, però, non basta: è necessario prendere le parole dell’altro sul serio, fino al punto da farle valere “come legge” per sé. Ma prendere sul serio non vuol dire affatto essere d’accordo. Dagli altri si può sempre dissentire, ma non li si può né li si deve mai sottovalutare. E’ invece condotta diffusa lasciare dire e “fregarsene”.

Come fare per affermare l’idea di responsabilità come disponibilità ad ascoltarsi reciprocamente e a farsi carico dei problemi sottesi alle domande dell’altro? Una strada potrebbe essere quella di far assurgere questa attitudine comportamentale a qualificazione di uno status; considerarla fattore irrinunciabile della reputazione  di chiunque detenga una quota di potere. Oggi la società è pervasa dalla paura per la condizione sempre più accentuata di incertezza in cui ci troviamo a vivere. Ed è questa la causa principale del disagio che porta al senso di sfiducia, alla rissa, al rinchiudersi in sé stessi.

Chiunque abbia una quota di potere nelle istituzioni e nella società civile dovrebbe coltivare il dovere di esercitarlo mostrando consapevolezza  che la paura si può vincere cambiando e non conservando i vecchi equilibri, i privilegi e le rendite di posizione.  Chiunque abbia una quota di potere dovrebbe mostrarsi capace di farsi carico della paura degli altri e di rispondere concretamente alle domande di coloro che sono impauriti.

Si tratta di ricostruire su questa base finalmente una classe dirigente in grado di porsi in ascolto di tutti quei cittadini che invece sono oggi sfiduciati e delusi per il semplice motivo che non sono consapevoli della necessità di cambiare e temono di non farcela ad uscire dalle difficoltà. Essi sono indignati nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni e degli altri membri della società civile, compresi quelli che mostrano forza e coraggio e non cedono alla paura.

Il cambiamento oggi è possibile se nasce una classe dirigente con queste caratteristiche. Una classe dirigente che incominci ad esercitare il potere con responsabilità. E che sia in grado, nella relazione responsabile con l’altro, di effondere intorno a sé l’entusiasmo della consapevolezza – rubo questa bella espressione a Franco Paolinelli – del tempo che stiamo vivendo, dell’opportunità che abbiamo di cambiare, di accrescere la libertà di tutti e di ridurre le ingiustizie.

Non è facile, ma solo a questa condizione potrà riaccendersi la fiducia in grado di liberare le energie vitali, oggi compresse, per costruire il futuro possibile.

Senza l’emozione lungimirante e luminosa dell’entusiasmo della consapevolezza, la sola razionalità non ce la può fare a rimettere in moto il cambiamento. E’ necessario trasmettere la gioia di essere artefici del cambiamento e nutrire un forte sentimento di fraternità civile per poter aiutare chi ha paura a superare ogni timore e camminare tutti insieme.

 

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