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La morte di Nicola Mancinelli lascia un vuoto profondo in chi ha avuto la fortuna di essergli amico. La sua è stata un'esistenza fuori dall'ordinario e dalla norma e merita di essere ricordata
Nicola Mancinelli era una bella persona. Mi piaceva andare a trovarlo, quando mi trattenevo qualche giorno a Tito. I nostri incontri erano dei veri e propri riti che allestivamo con grande cura. Ci vedevamo nel suo piccolo appezzamento di terra, tra il Borgo e la Spinosa, dove mi faceva assaggiare i suoi prodotti. Ma ultimamente a casa, per via della sua salute malferma. Egli metteva sul tavolo lettere, ritagli di giornali, riviste, libri, oggetti vari che aveva conservato per le nostre interminabili discussioni. Io facevo altrettanto. Nicola esponeva in modo concitato e torrentizio le sue idee, come un tribuno; e, come nei poemi epici, raccontava con enfasi le storie di cui era stato protagonista. Si divertiva nel raccontare e nel discutere. A tratti rideva per alleggerire la tensione, ma soprattutto perché ci prendeva gusto a vivere intensamente quei momenti di convivialità. Oppure si ammutoliva per ascoltare, prestare attenzione. Voleva capire il pensiero del suo interlocutore. E se non riuscivo ad esprimerlo in modo chiaro ed esauriente, mi guardava sornione e scoppiava in una risata. Ed io ripetevo con altre parole quello che avevo già detto, come si fa a scuola quando l’insegnante fa segno di non aver capito. Non si arrabbiava perché non eri d’accordo con lui, ma perché non dialogavi fino in fondo, esprimendo interamente il tuo punto di vista. Odiava le ipocrisie, le posizioni ambigue, buone a barcamenarsi e a non prendere partito. S’infuriava per questo. Poi, all’improvviso, si scioglieva in un sorriso e si passava ad argomenti leggeri. Gli volevo bene anche per questo suo modo istrionesco di porsi.
Ho incominciato a conoscerlo a fondo nel 1973. Avevo appena concluso gli studi liceali e, in piena estate, con una delegazione della Federazione giovanile comunista, a cui mi ero iscritto, partecipai alla manifestazione conclusiva del congresso della gioventù comunista mondiale che si svolse quell’anno a Berlino Est, all’epoca capitale della Repubblica democratica tedesca. Con Pasquale Lucente partimmo in treno diretti a Berlino Ovest, dove Nicola era emigrato molti anni prima per trovare lavoro. Eravamo tutt’e tre legati da rapporti di parentela. Ma quando d’estate veniva dalla Germania a trovare i familiari, non ci frequentavamo. Durante il viaggio, seppi che con Pasquale invece si vedevano per parlare di politica.
Per me fu, dunque, una felice sorpresa apprendere che questo nostro parente, mai impegnato in politica a Tito, vivendo all’estero fosse diventato comunista. Non frequentava il partito della Germania Occidentale, né il sindacato o altre associazioni di quel paese. Ma nei weekend – che egli era solito trascorrere dall’altra parte del Muro – aveva instaurato rapporti d’amicizia con persone che gli parlavano di politica. I contenuti di quei dialoghi riguardavano per lo più la politica internazionale e le vicende che caratterizzavano la “guerra fredda”. La sua scelta di campo Nicola la fece, dunque, guardando allo scacchiere mondiale. E non esitò a schierarsi coi paesi che stavano dall’altra parte della cortina di ferro, maturando così una posizione fortemente critica e antagonista nei confronti dei poteri politici ed economici occidentali. Egli ha sempre sospettato che alcuni di questi suoi interlocutori fossero in realtà agenti dei servizi segreti che tentavano di ingaggiarlo nelle loro attività. Fatto sta che la sua adesione alle idealità comuniste maturò in tale percorso e non nel vivo di movimenti sociali e politici, nei luoghi di lavoro e di vita. Il Muro che attraversava il sabato e la domenica, sottoponendosi ai controlli di frontiera, aveva per lui il valore simbolico di una netta demarcazione che investiva completamente il suo essere. Per lui la vera patria era oltre cortina. Studiava e si documentava per lo più su testi apologetici e materiali di propaganda. E difendeva con grande vigore e nettezza l’operato dei governi dell’Unione sovietica e dei paesi satelliti. Il bene stava dall’altra parte; il male da quest’altra.
I lavori del congresso si conclusero con la grande manifestazione ad Alexanderplatz, a cui partecipammo con entusiasmo. Pasquale ripartì, mentre io decisi di fermarmi qualche mese, approfittando dell’ospitalità di Nicola. Frequentai una scuola per stranieri dove imparai un po’ di tedesco e feci un’esperienza lavorativa in una fabbrica di cioccolate. Toccai con mano la condizione operaia e, vivendo in una baracca, mi resi conto di persona del dramma delle migrazioni. Il soggiorno a Berlino rappresentò per me un periodo importante di apprendistato trasversale e, in questo, Nicola, che aveva vent’anni più di me, si rivelò un esemplare maestro di vita.
Nella seconda metà degli anni Settanta, tornò a casa e, dopo un po’, fu assunto in un’azienda industriale di Tito Scalo. Conformemente al suo carattere puntiglioso e preciso, aveva predisposto tutto meticolosamente. Anche il matrimonio con la sua fidanzata che aveva conosciuto nella Germania Est. Fui felice di aiutarlo a sbrigare anche alcune pratiche burocratiche all’ambasciata della DDR a Roma. Ma a nulla valsero quegli sforzi perché le autorità di Berlino Est non approvarono la richiesta di Cornelia di trasferirsi in Italia per sposare Nicola. Avrebbero potuto unirsi solo se lui accettava di andare a risiedere nella DDR. Ma il legame troppo forte con la mamma e, soprattutto, l’amore per il suo fratello disabile psichico, Gerardo, non gli permisero di andarsene a vivere la sua vita oltre cortina, nonostante quella fosse diventata per lui simbolicamente la sua nuova patria.
Quello che gli era capitato costituiva una prova evidente del fallimento di un regime politico che proclamava di ispirarsi agli ideali del comunismo, ma poi impediva ai propri cittadini di vivere dove essi desideravano. Eppure Nicola rimase fermamente legato all’Unione sovietica e la sua fiducia nei paesi del socialismo reale non fu per nulla scalfita dagli effetti dolorosi della sua esperienza personale. Come avviene nei casi di fanatismo religioso, l’episodio che lo aveva visto protagonista accrebbe ancor di più la sua convinzione che l’Unione sovietica dovesse svolgere il ruolo di “Stato guida” del movimento comunista internazionale. E che i paesi satelliti facessero bene a non permettere alla popolazione di andarsene dalla propria terra per non impoverirla.
Rientrato a Tito, Nicola s’iscrisse alla sezione del PCI e prese immediatamente parte alle attività politiche locali. Tentai di approfondire con lui l’iniziativa di Berlinguer nel prendere con maggiore determinazione le distanze da Mosca e, più in generale, discutevamo spesso sui caratteri specifici del comunismo italiano e di quello che allora si definiva “eurocomunismo”. Ma lui s’era fatta l’idea che i dirigenti del PCI, d’intesa con Mosca, fingessero di essere autonomi per poter avere maggiore agibilità politica e un consenso più ampio tra gli elettori. Comprese che le cose non stavano così solo quando, nel 1981, si aprì apertamente il conflitto tra Cossutta e Berlinguer, il quale, a seguito dei fatti polacchi, aveva dichiarato che la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre si era esaurita”. Nicola ne rimase scosso e, da allora, scelse come suo riferimento Cossutta, seguendolo, dopo la caduta del Muro e la consequenziale conclusione dell’esperienza del Pci in Rifondazione comunista.
Le sue rigidità ideologiche e caratteriali si manifestarono ben presto; e insorsero contrasti tra lui e Michele Tucci, segretario del partito. Anche Michele aveva un carattere forte e reagiva vivacemente agli attacchi di Nicola. Tra i due c’erano differenze culturali e sociali, ma predominavano quelle politiche. Michele, e con lui molti di noi, eravamo affascinati da come Berlinguer esponeva la sua idea di “compromesso storico” e ci ritrovavamo pienamente nelle scelte concrete dei governi di solidarietà nazionale, a cui i comunisti contribuivano con le proprie proposte ed iniziative. Nicola era, invece, influenzato dalle posizioni che circolavano negli ambienti del sindacato ed era schierato con coloro che nel partito esprimevano una critica aperta alle scelte di governo. E riteneva indispensabile un’azione del partito più incisiva per coinvolgere la base nelle decisioni politiche. Egli coglieva un punto debole che nessuno poteva non vedere: la scarsa partecipazione degli iscritti e degli elettori alle decisioni che il partito assumeva, sia sul piano nazionale che regionale, ora che garantiva il sostegno esterno a governi di grande coalizione. Favorimmo un accordo che risultò efficace. Convincemmo Michele ad accogliere l’invito della Federazione provinciale del partito di dedicarsi alla direzione della zona del Melandro e a lasciare il suo incarico ad un operaio, anche per dare un segnale d’attenzione ai lavoratori delle nostre industrie locali, che da tempo mostravano problemi di tenuta di non lieve entità. E così eleggemmo Nicola segretario della sezione per dargli la possibilità di mettere in atto le sue proposte volte a coinvolgere maggiormente la base del partito.
Egli era convinto che il coinvolgimento dei cittadini dovesse avvenire intensificando i comizi in piazza. Ma era consapevole di non possedere spiccate doti oratorie e trovò un modo per leggere i discorsi che accuratamente preparava, lasciandosi libere le mani per gesticolare a piacimento. Da ragazzo era stato a bottega da mastu Ruzzillu per imparare il mestiere di falegname. Una passione che ha coltivato per tutta la vita, adibendo a laboratorio il piano terra della casa di famiglia. Decise così di costruire con le sue mani un grande leggìo che sembrava un piccolo letto a baldacchino. Lo dipinse di rosso. E praticò nel centro del legno un foro per farvi passare l’asta del microfono. Eravamo contenti di questa sua iniziativa perché, in tal modo, non avevamo più bisogno di montare il palco in piazza per fare un comizio. Ogni volta che lo ritenevamo necessario, bastava che portassimo fuori la pedana e vi montassimo il baldacchino per parlare ai compaesani.
Nicola stava sveglio notti intere per scrivere i discorsi. E poi li declamava aiutandosi con il tono della voce e il movimento delle braccia. I compagni anziani lo ascoltavano attenti con la riverenza che si riserva a chi compie un atto al di sopra delle sue forze mosso da un dovere morale. E anche noi giovani seguivamo con rispetto i suoi comizi, forse meno convinti che quelle fossero davvero le forme più idonee per coinvolgere la gente nelle scelte del partito. Il baldacchino di Nicola diventò il simbolo del nostro impegno politico in quel periodo. Lo utilizzammo nella fortunata campagna elettorale per le consultazioni amministrative e provinciali del 1980 e, successivamente, quando venne a Tito Berlinguer, in una fredda serata invernale, in piena emergenza post terremoto. In una sala gremita di cittadini, al ristorante “Cargallo”, il segretario del Pci tenne un discorso molto impegnato e, a tratti, drammatico. Prendendo spunto dalle inefficienze del governo, che si erano vergognosamente manifestate nei giorni successivi al sisma, egli enunciò, per la prima volta in pubblico, la nuova linea della “diversità comunista” che sostituiva quella del “compromesso storico”, di ben più ampio respiro strategico. In quel comizio giustamente polemico, ma privo di sbocchi politici, si celava anche l’inesorabile compimento della crisi del Pci.
Nella prima metà degli anni Ottanta, i comunisti erano tornati ad amministrare Tito dopo trent’anni. Era sindaco Michele Laurino e nella giunta c’era anche Nicola che non volle per sé una delega specifica. Ottenne di occuparsi trasversalmente dei problemi concreti che i cittadini gli ponevano direttamente. Una sorta di sportello ambulante con cui ben presto si fece catalizzatore di ogni minuta o grande emergenza da affrontare. Le discussioni con il sindaco erano interminabili perché le soluzioni che egli proponeva spesso non tenevano conto dei vincoli burocratici e amministrativi. E tentavamo di mediare le divergenze che insorgevano, nelle riunioni di Consiglio o in sezione. Nicola non si risparmiava in questo suo ruolo che svolgeva come una missione. Con grande generosità e puntiglio, com’era nel suo stile. Tanti lo fermavano per strada, soprattutto le persone più povere. Ed egli dava retta a tutti, ascoltava con pazienza, cercava di spiegare le difficoltà incontrate, negoziava e s’impegnava di ritentare se vedeva che il suo interlocutore rimaneva insoddisfatto. Questo per lui era il senso della politica: l’arte, per eccellenza, del vivere insieme; la tecnica, raffinata, per convivere bene nelle nostre società. In questo senso egli fu un artigiano della politica e viveva intensamente tale funzione. Era arrivato a quella modalità attraverso un complicato percorso ideologico che era partito da una ferrea scelta di campo internazionalista per sfociare, paradossalmente, in un esemplare e laico approccio alla concretezza disinteressata e al servizio quotidiano degli ultimi.
Non riuscimmo a valorizzare siffatte abilità e competenze, che un amministratore pubblico deve necessariamente avere per relazionarsi bene coi cittadini. Non ci lasciammo contagiare da quell’ardore militante. E questo fu uno di quei limiti che l’impegno, pur notevole, nel ricostruire il tessuto connettivo di una comunità profondamente segnata dal terremoto, non valse a compensare. Sicché, nel 1985, alla giunta comunista, che aveva suscitato entusiasmo e attesa soprattutto tra i protagonisti delle vicende locali degli anni Quaranta e Cinquanta – nei confronti dei quali Nicola mostrava sempre una spiccata attenzione – subentrò di nuovo un’amministrazione a guida democristiana.
Ho voluto tratteggiare alcuni aspetti della vita di Nicola e della sua complessa personalità perché ritengo giusto che soprattutto i giovani conservino di lui un ricordo non superficiale. Egli è stato un comunista speciale perché fuori dall’ordinario e dalla norma si è snodata l’intera sua esistenza.
Grazie, Nicola. E riposa in pace.
Nella foto, da sinistra, Nicola Mancinelli, Alfonso Pascale, Donato Scavone, Sabatino Lucente e Nuccio Coronato a Napoli nel 1994