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Un comunista controcorrente

Intervento alla presentazione del libro di Angelo Raffaele Ziccardi "La politica come impegno collettivo" edito da Giuseppe Barile. Roma 30 marzo 2017

Ziccardi_foto

 

Angelo Ziccardi non ha scritto semplicemente un libro di memorie. È un bilancio severo del proprio percorso di dirigente politico e sindacale e di uomo delle istituzioni. Del tutto privo di narcisismi, nostalgie, acrimonia, pentimenti. Un bilancio tracciato con affetto e ironia. E, soprattutto, con l’orgoglio di aver compiuto fino in fondo il proprio dovere. Partecipando in modo consapevole e da protagonista ad una vicenda collettiva che ha contribuito a fare degli italiani quelli che oggi sono. Una vicenda che ha avuto un suo epilogo come le analoghe vicende che hanno riguardato le altre due grandi formazioni politiche del novecento. Esse restano radici culturali profonde che appartengono all’insieme del paese. Radici che vanno custodite attraverso la memoria e la ricerca storica per poter diventare tradizioni da curare e trasmettere alle generazioni future. Radici da non confondere con le identità politiche nuove che stiamo faticosamente costruendo oggi. Scambiare identità e radici è un errore gravissimo perché blocca l’innovazione: le radici culturali spesso si allungano verso insediamenti sociali non più coincidenti con quelli delle nuove identità politiche, così come le identità alimentari di una popolazione – come insegna lo storico dell’alimentazione, Massimo Montanari – hanno radici che si diramano in luoghi molto lontani.

Quella di Angelo è una testimonianza di grande valore perché mette a disposizione elementi importanti per ricostruire il filo che lega movimenti e politiche dalla bonifica allo sviluppo rurale, conquiste e sconfitte, ma anche le convergenze, i conflitti, le discontinuità e le trasformazioni di un paese che diventa finalmente industriale solo quando il fordismo termina il suo percorso e, con la globalizzazione e le tecnologie digitali, le antiche antinomie (città e campagne, centro e periferie, metropoli e aree interne, ecc.) si dissolvono.

Nel libro è presente in modo esplicito un intento educativo che riguarda il senso da dare alla politica. Innanzitutto, come recita il titolo, la politica è intesa come impegno collettivo e come iniziativa dal basso che interagisce con le istituzioni in modo dialettico.  Scrive l’autore: “La politica serve a risolvere i problemi, grandi e piccoli. I diritti si conquistano con la partecipazione delle masse alla vita politica e sindacale, con le iniziative e con le lotte. Senza di queste anche i governi nazionali e locali di orientamento riformista non riescono a risolvere i problemi”.

Oggi si tende a contrapporre politica e comunità: la prima appannaggio di un “ceto” che opera nelle istituzioni in un rapporto sempre più asfittico coi militanti di base e con gli elettori; la seconda come ambito di impegno civico. Questa antinomia tra politica e comunità – che si è incominciata ad affacciare dagli anni settanta in poi – è forse anche una reazione al lungo periodo in cui i partiti, per poter organizzare intorno ad essi un consenso di massa, occuparono spazi propri della comunità. Ma oggi occorre reinventare l’idea che politica e comunità sono due facce della stessa medaglia: l’una e l’altra sfera – sebbene distinte ed autonome nelle loro dinamiche – costituiscono lo spazio entro cui il cittadino, in modo consapevole e responsabile, esercita, con gli altri, il suo diritto all’autogoverno; esprime, con gli altri, la sua capacità di realizzare l’interesse generale.

Nel libro la politica non appare mai come un fine, ma come uno strumento. Anche il progresso tecnico, il reddito medio pro capite, il prodotto interno lordo sono visti come valori strumentali. Per nulla disprezzabili, ma strumenti. Se la crescita quantitativa e il progresso tecnico si tramutano in fini, assoggettando alla stessa logica anche la politica, nel giro di qualche generazione, avremo una società scientificamente e tecnicamente molto progredita, ma spiritualmente imbarbarita. I fini di una società che vuole progredire devono restare le esigenze di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di accettazione dell’altro. E gli strumenti (dalla politica all’autorganizzazione sociale, dal benessere economico alla tecnica) vanno subordinati a questi fini. Angelo, nelle prime pagine, si chiede cosa abbia determinato la sua decisione verso l’impegno politico. E risponde: “La situazione economica e sociale di estrema precarietà che si viveva allora”. Il fine è quello di abolire la miseria che egli vede intorno a sé, agendo per accorciare le diseguaglianze e ampliare le libertà per il maggior numero possibile di persone. E questa idea orienta tutta la sua attività politica e sindacale. E la ripropone, alla fine del suo racconto, quando denuncia l’alta percentuale di giovani inoccupati (42 %) che sale al 60 – 70 % nelle città meridionali. Per affrontare questo gravissimo problema di giustizia che caratterizza la società contemporanea, Angelo indica lo strumento principale che il cittadino ha a sua disposizione: l’impegno politico e la capacità di autorganizzarsi.

Nel libro la politica è immersione nella vita delle persone per “annusare” e “comprendere” i loro problemi e contribuire a costruire consapevolezza, giudizio critico, volontà di spendersi e partecipare attivamente alla vita collettiva, attitudine a demistificare e dare il giusto valore alle cose, capacità di prendere posizione individualmente e responsabilmente. Le memorie di Angelo sono costellate di testimonianze in cui l’autore prende posizione individualmente, controcorrente. Ma lo fa sempre, non per il gusto di distinguersi e attirare l’attenzione su di sé, ma indotto dall’esigenza di trovare soluzioni concrete ai problemi reali della gente.

Ziccardi

Vorrei soffermarmi su queste azioni collettive che nascono da un senso di responsabilità individuale dell’autore fino ad indurlo ad agire controcorrente: alcune volte da solo, altre volte in modo condiviso con il gruppo dirigente di cui fa parte, ma in difformità con l’orientamento dell’insieme dell’organizzazione o dei suoi livelli superiori.

La prima azione collettiva di questo tipo è sicuramente la conduzione delle occupazioni di terra nel 1948-49 e, successivamente, la fase attuativa della riforma agraria.

Intanto una premessa. Quando si dice “riforma agraria generale” contrapponendola alla “riforma stralcio”, si comprende bene cosa è stato lo stralcio. Ma è molto difficile comprendere cosa si intendesse per riforma generale nel suo concreto contenuto tecnico. Fino all’approvazione della Costituzione, la proposta di riforma agraria da parte dei partiti è alquanto generica e si presta alle interpretazioni più varie. L’art. 44 Cost. è approvato non solo dai grandi partiti, ma anche dai liberali a seguito di un emendamento di Luigi Einaudi, accolto dall’Aula e con cui si sostituisce l’indicazione massimalista “la legge abolisce il latifondo” con l’altra, più ragionevole e gestibile, “la legge promuove la bonifica delle terre e la trasformazione del latifondo”. Dopo il varo dell’emendamento Einaudi, la stessa Confagricoltura passa da una posizione di netta chiusura verso il testo iniziale ad una molto più morbida. Il programma agrario della “Ricostruzione” è, dunque, condiviso da un ampio arco di forze.

Il Pci discute, per la prima volta nella propria Direzione, un progetto organico di riforma agraria solo il 4 febbraio 1947: la proposta prevede l’acquisizione di 4 milioni di ettari di terra, da redistribuire mediante l’enfiteusi. È evidente – guardando solo i numeri – l’intento di intaccare anche la media proprietà terriera. L’ipotesi è esplicitamente sostenuta da Emilio Sereni, in più occasioni pubbliche, riscuotendo ampio consenso tra i contadini senza o con poca terra. Solo Ruggero Grieco si oppone richiamando l’art. 44 Cost. che impone la tutela della piccola e media proprietà. Ma, sulla questione, gli organi di partito non si pronunciano mai in modo chiaro.

Il 18 aprile 1948 la DC ottiene il 48,5% dei voti. Le sinistre subiscono un crollo dappertutto, comprese le regioni rosse. I liberali confermano la loro forza, soprattutto al sud. È evidente che a rafforzare la Dc non sono i grandi agrari (anche perché il loro numero non è più così significativo a seguito del suffragio universale e l’estensione del voto alle donne). Sono invece i contadini (di tutte le dimensioni: piccoli, medi e grandi) che non trovano nella sinistra un riferimento e votano per la Dc.

Ho avuto modo di scrivere in chiave critica sulla politica agraria del Pci nel secondo dopoguerra. Ma le mie sono deduzioni e interpretazioni che meriterebbero una ricerca storica accurata. Gli storici non hanno ancora ricostruito, attingendo alle diverse fonti archivistiche, la formazione delle organizzazioni agricole in età repubblicana e il rapporto tra queste e il nascente sistema politico. Quella vicenda segna in modo evidente i caratteri delle relazioni tra stato, partiti e società almeno per tutta la fase in cui la società italiana è ancora una società prevalentemente rurale. Se si facesse tale ricostruzione, emergerebbe il ritardo con cui nasce l’Alleanza dei contadini (1955) solo parzialmente colmato dalla costituzione dell’associazione coltivatori diretti nel centro nord (dopo le elezioni del 1948) e dell’Associazione dei contadini del Mezzogiorno (1951). L’Alleanza nasce monca. Mancano all’appello la Federmezzadri (che solo nel 1977 sarà disponibile ad unificarsi con altre organizzazioni contadine) e la cooperazione agricola della Lega (che solo nel 1967 sarà disponibile a costituire con l’Alleanza e la Cgil il CENFAC). Questi ritardi sono frutto di differenziazioni politiche, letture diverse dei fenomeni sociali, rigidità ideologiche che non si possono considerare elementi marginali nell’interpretazione delle vicende storiche. Emergerebbe, inoltre, la specificità della Coldiretti nello scenario delle grandi organizzazioni agricole europee di area moderata (Francia e Germania). Una vera e propria anomalia. La sua nascita (ottobre 1944) non è – come la storiografia di sinistra racconta – l’esito di una scissione della grande CGIL unitaria (nata nel giugno 1944 mediante un’aggregazione di forze di cui Paolo Bonomi non ha mai fatto parte) ma di una scissione molto più significativa a danno della Confagricoltura (ricostituita nel luglio 1944 con la partecipazione di Bonomi) per iniziativa diretta di Pio XII, d’intesa con Alcide De Gasperi. Il rapporto perverso della Coldiretti con la Dc e con lo Stato incomincia con l’appropriazione della Federconsorzi (siamo nel 1949 dopo un lungo periodo di commissariamento con il comunista Francesco Spezzano). Solo don Sturzo leva gli scudi nella Dc e, quando nel 1953 nasce l’ENI di Mattei, il vecchio fondatore del Ppi chiede ed ottiene per Mattei e Bonomi (entrambi parlamentari) l’approvazione e l’immediata applicazione di una legge sul conflitto d’interessi.

L’idea massimalista e demagogica (oggi diremmo populista) di riforma agraria propugnata dalla sinistra fa sicuramente presa tra i braccianti senza o con poca terra del Mezzogiorno, ma impaurisce i piccoli e medi proprietari. La Coldiretti civetta con il movimento per la terra perché interessata a consolidare con l’appropriazione i terreni detenuti dagli affittuari. Non a caso i coltivatori affittuari sono contro le occupazioni simboliche perché le vogliono effettive: temono, infatti, che in quei terreni concorrano i braccianti senza terra. A differenza di quanto avviene in altre zone del paese, a Matera, Angelo e gli altri compagni della Cgil provinciale sono molto attenti a tenere unito il fronte e dialogano coi contadini affittuari della Coldiretti che partecipano alle occupazioni di terra.

Sono i tecnici agrari e, in primo luogo, Rossi-Doria a sostenere un’idea “riformista” di riforma agraria, nel senso di “riforma fattibile e capace di suscitare largo consenso”. Resta memorabile la polemica sul “gatto nero”. In un convegno dei Georgofili, lo studioso di Portici suggerisce ai comunisti di disfarsi del “gatto nero” (la proposta di riforma agraria generale). È Grieco a replicare con un articolo dal titolo sarcastico “Il professore ammazzagatti”.

Nel giugno-luglio 1948, il ministro Antonio Segni fa circolare in un gruppo ristretto uno schema di legge, su cui è mantenuto il massimo riserbo. Esso prevede l’appropriazione e la redistribuzione da parte dello Stato di 1.300.000 ettari di terra e l’insediamento stabile di 400.000 famiglie. Ma nello stesso tempo, incarica Rossi-Doria di studiare il comprensorio della Sila per avere gli elementi di conoscenza prima di varare la riforma. E con quello studio, che costituisce una vera e propria ricerca sociologica ed economica, la prima del dopoguerra (ne parla diffusamente il più diretto collaboratore del professore di Portici in quell’impresa, Gilberto Marselli, nel libro di memorie uscito in questi giorni) l’economista agrario si convince ancor più della necessità di restringere l’ambito d’intervento della riforma. Sia per la complessità delle operazioni da gestire, sia per i conflitti che quella particolare tipologia d’intervento veniva a creare. Convince Segni a proporre una riforma più limitata nelle sue dimensioni.

Quando il Parlamento approva le due leggi (legge Sila e legge stralcio), i comunisti votano contro. Angelo ritiene che il Pci fosse obbligato a votare contro la riforma agraria perché il suo obiettivo era la riforma generale. Ma Di Vittorio, già nella riunione della direzione del Pci del 28 ottobre 1954 riconobbe l’errore: “Sono persuaso che il nostro voto sulla Cassa e la riforma agraria ha reso più difficile la nostra azione. Quando c’è un passo avanti determinato dalla nostra lotta dobbiamo votare a favore con chiare dichiarazioni di voto”.

E, andando controcorrente rispetto agli orientamenti nazionali del partito e del sindacato, solo a Matera la riforma agraria viene immediatamente rivendicata come una conquista del movimento per la terra e si passa ad organizzare gli assegnatari. Non a caso – come ricorda l’autore – i risultati elettorali delle amministrative e, poi, delle politiche in quella provincia sono lusinghieri per il Pci e per il Psi. Non avviene la stessa cosa in altre realtà del Mezzogiorno. In generale, la sinistra non organizza gli assegnatari degli enti di riforma. Essa è convinta che i provvedimenti di riforma non avrebbero granché migliorato le condizioni dei contadini. E  mostra nei confronti dell’attuazione di quelle leggi un atteggiamento di attesa, di smobilitazione, di opposizione negativa e passiva. Solo nel 1954 si svolge a Roma una conferenza nazionale degli assegnatari e viene nominato un comitato nazionale che si trasforma in associazione nel 1956, a seguito di un congresso svoltosi a Grosseto.

Un’altra vicenda importante in cui emerge una chiara posizione controcorrente è la nascita della rivista bimensile Lotte agrarie. L’iniziativa editoriale è assunta dalla Federbraccianti e dalla Federmezzadri. Angelo, che ne è l’ispiratore, ricopre il ruolo di direttore responsabile. Siamo nel 1961. Compito della rivista è quello di contrastare una tesi emersa nella Cgil: l’unificazione capitalistica del paese sarebbe ormai avvenuta, il salario sarebbe ormai una variabile indipendente e ogni conflitto sociale si sarebbe ridotto ad una sola contraddizione costituita dal capitale e dal lavoro. Ma quell’idea fallace non costituiva semplicemente un’astrazione. Aveva un impatto pratico dirompente: la cancellazione delle leghe territoriali, l’abolizione del collocamento agricolo e degli elenchi anagrafici presuntivi. Di qui la reazione dei due sindacati agricoli.

Se si va a vedere attentamente (e ancora gli storici non lo hanno fatto), quella posizione presente nel Pci e nella Cgil era, a ben vedere, figlia di una visione dello sviluppo che era diffusa trasversalmente nei partiti e nei sindacati. Il tutto incomincia quando, ritiratosi De Gasperi dalla vita politica, Pasquale Saraceno lancia la svolta industrialista della Cassa con lo schema Vanoni. La proposta è fatta propria dal governo e condivisa da Pastore (Cisl) e da Di Vittorio (Cgil). Nel 1956 viene istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali. Il 29 luglio 1957 si approva la legge per l’industrializzazione del Mezzogiorno (la n. 634) mediante i consorzi industriali, gli incentivi e le Partecipazioni statali. La proposta Saraceno è dettata dalla volontà di assicurare subito la crescita e non è inserita in una visione strategica dello sviluppo. Essa si fonda sulla certezza cieca che la presenza di grandi impianti industriali di Stato nel Mezzogiorno avrebbe stimolato la diffusione di una prassi e di una cultura imprenditoriale. Non prevede alcun impegno concreto nell’attivare l’iniziativa privata e le risorse locali. Essa si nutre della fiducia taumaturgica nella capacità dei grandi gruppi industriali di creare in pochissimi punti ben delineati i fattori esterni richiesti dall’impianto di un grande stabilimento. E dunque non lascia trasparire alcuna volontà di creare, in modo diffuso, condizioni propizie allo sviluppo economico.

L’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto passa trasversalmente in tutti i partiti che temono, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale, causa di forti disagi sociali e imprevedibili mutamenti politici. La Dc vede nell’insediamento dell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci vede nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni. La Legge n. 634 del 1957 passa con l’astensione del Pci. Lo ricorda Giorgio Napolitano nelle sue memorie. Egli è relatore di minoranza ed è all’inizio della sua funzione di responsabile della Commissione meridionale del partito. Ma, in questo caso, non ci troviamo dinanzi ad un provvedimento che è frutto di un movimento sociale. Anzi, esso rovescia completamente quello che i movimenti sociali esprimono in quel periodo. Ed è sintomatico che Napolitano partecipi a Palermo, già nel novembre 1957, ad un convegno internazionale organizzato da Danilo Dolci sulla piena occupazione, concluso da Carlo Levi, caratterizzato per l’accento su iniziative e proposte di pianificazione locale, di pianificazione dal basso. “Il che – riconosce Napolitano nel 2008 ritornando con il ricordo a quella iniziativa – valeva a correggere un discorso sulla programmazione , come quello che la sinistra allora stava definendo, troppo imperniato sulla responsabilità dello Stato centrale”. Nel 1959 il Pci si batte strenuamente per l’apertura del centro siderurgico di Taranto. Le voci che si levano contro quella impostazione, tra cui Olivetti, Rossi-Doria, Ceriani-Sebregondi, Ardigò, Danilo Dolci e Carlo Levi sono messe a tacere. E nel momento in cui la proposta diviene la grande scelta strategica per il Sud, si delegittima e progressivamente marginalizza un’intera cultura economica, sociale e politica – affermatasi in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento con Carlo Cattaneo – che considera lo sviluppo inevitabilmente “autoctono”, cioè fondato sulla migliore combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio e capace di tener conto dei condizionamenti sociali, politici e istituzionali. Viene, in sostanza, scartata l’idea di articolare l’intervento nel Mezzogiorno per contesti e per aree di sperimentazione, attraverso una maturazione guidata dalla ricerca e dalla crescita dei processi educativi e formativi, mediante il costante coinvolgimento della società civile. Rossi-Doria, Sebregondi, Olivetti, Levi, Dolci e Ardigò sono strenui assertori dello sviluppo autoctono e auto-propulsivo e rifuggono dalle visioni economicistiche e dalle analisi esclusivamente quantitative, mostrando invece attenzione alle componenti immateriali dello sviluppo. Bisognerà aspettare la politica di sviluppo rurale e le politiche di coesione europee per dotarci di metodologie di intervento già disponibili a metà anni cinquanta. Lo ha ricordato Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma. Napolitano nel 2008 scrive a proposito delle scelte industrialiste del Pci, del Psi e della Dc, fatte proprie dai sindacati: “Col senno di poi si possono rilevare tutti gli aspetti negativi e distorsivi di quell’indirizzo pur largamente condiviso”.

Un’altra vicenda che vede Ziccardi agire controcorrente riguarda il suo primo impegno assunto al Senato nel 1973 tra lo scetticismo dei suoi compagni: la proposta di legge sull’occupazione giovanile approvata nel 1977. Si tratta di un provvedimento a termine. I risultati sono notevoli. Ma non si prosegue su quella strada. L’autore attribuisce quell’arresto al cambio di clima politico che si verifica nel 1979. Nelle conclusioni, Angelo ritorna su quella vicenda e ricorda il grande movimento di giovani che quella iniziativa legislativa aveva suscitato. E dice che qualcosa di analogo, ovviamente tenendo conto dell’attuale scenario completamente diverso da quello di allora, andrebbe costruito per affrontare il problema della disoccupazione giovanile.

Ma anche su questa vicenda occorrerebbe un’indagine storica accurata. Quest’anno ricorre il quarantennale della “Tre giorni di Taccone”. Di che si tratta? Duemila giovani provenienti da tutte le principali città universitarie italiane si ritrovano a discutere su “occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura” in un borgo abbandonato della riforma agraria. Il libro di Angelo può costituire uno stimolo per tornare a riflettere su quella vicenda che ancora oggi suscita reazioni controverse. La legge permette a gruppi di giovani di sperimentare una modalità per “creare lavoro” in diversi settori, dall’agricoltura all’artigianato, dai servizi sociali e sanitari a quelli connessi con aspetti culturali, ambientali e per il tempo libero, fino ai servizi alle imprese nel campo della progettazione, dell’informatica e dell’assistenza tecnica. Quel movimento nasce da spinte diverse. Nelle campagne sicuramente prevale una pressione indotta dalla sensibilità ecologica e dal bisogno di legami comunitari da parte, soprattutto, di giovani laureati e diplomati disoccupati, professionisti, studenti, i quali guardano all’agricoltura non già con gli occhi dei padri e dei nonni che erano scappati via per le condizioni di miseria, ma incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un contesto di relativo benessere, il settore presenta in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di sperimentazione di nuovi servizi di accoglienza. Anche i figli dei contadini che tornavano dalle università portavano con sé quel bisogno di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori, alle prese coi processi di modernizzazione dell’agricoltura fondati esclusivamente sulla produttività e l’efficienza. E questi nuovi agricoltori istruiti dialogavano coi giovani di provenienza urbana.

Collocare l’iniziativa in un borgo abbandonato della riforma agraria del 1950 non aveva il significato di stabilire una sorta di connessione o parallelismo tra assalto al latifondo (per frazionarlo in poderi da assegnare a contadini senza terra) e occupazione di terre pubbliche (per darle in gestione a cooperative giovanili non solo produttive ma soprattutto di servizi alle persone e alle comunità). L’intento era, invece, quello di far risaltare un aspetto critico della riforma agraria nelle aree collinari; aspetto che ne aveva decretato il parziale fallimento: a differenza di quanto era avvenuto nelle aree di pianura soprattutto a seguito delle opere infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno nei primi dieci anni di vita, nelle aree collinari non si erano costituite nuove comunità e, dunque, in collina la riforma non aveva realizzato i suoi obiettivi. Il richiamo alla riforma agraria, collocando l’iniziativa a Borgo Taccone, avrebbe dovuto dirci che la coesione sociale e i legami comunitari precedono lo sviluppo e non sono l’esito dello sviluppo. E tale messaggio resta ancora valido oggi.

Nel movimento degli anni Settanta convergevano anche le iniziative per conquistare i diritti civili, rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare in modo nuovo la tossicodipendenza e la condizione carceraria. Le diverse spinte culturali s’incrociavano e davano vita a cooperative agricole che vedevano la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti, anticipando il fenomeno che avremmo poi inquadrato come “agricoltura sociale”.

Naturalmente convivevano ispirazioni ideali e politiche diverse. E anche forti preoccupazioni da parte di quei settori politici che non sapevano (o non volevano) distinguere i movimenti anti-sistema dai movimenti civili che si battevano per un riconoscimento di esperienze innovative in ambiti diversi, dall’agricoltura ai servizi socio-sanitari, dalla cultura all’organizzazione del tempo libero. Si temevano derive movimentiste che avrebbero potuto alimentare indirettamente il terrorismo. Tali timori erano presenti anche nel gruppo dirigente nazionale della Costituente contadina e si erano accresciuti nell’estate del 1977, dopo i fatti di violenza che si erano verificati nelle principali università italiane. Ma, in realtà, siffatte paure nascondevano, forse, ben più radicati limiti nel comprendere i caratteri del fenomeno che avevamo dinanzi. All’interno delle forze politiche e sociali erano in pochi ad avvertire l’importanza di queste novità. Gerardo Chiaromonte, nel ricostruire le vicende politiche del triennio 1976-1979, ha ricordato un convegno dell’Istituto Gramsci organizzato nel 1977 in collaborazione con la Federazione giovanile comunista sul tema “La crisi della società italiana e le giovani generazioni”, di cui egli era stato relatore. In tale occasione, egli aveva fornito indicazioni politiche concrete, tra cui l’impegno per applicare la legge 285 sull’occupazione giovanile. Ma tranne in alcune realtà, come la Basilicata e il Lazio, quasi dappertutto i movimenti giovanili dei partiti di sinistra non s’impegnarono su questi nuovi sentieri d’iniziativa e di lotta proposti da Chiaromonte.

Nonostante le resistenze culturali e politiche, a ottobre si decise di tenere comunque l’iniziativa di Taccone. Vennero giovani da tutte le regioni. Anche gruppi che avevano partecipato ad iniziative violente nelle università e nelle grandi città furono presenti alla manifestazione, ma in modo pacifico e rispettoso. Assistettero gli inviati dei maggiori organi di stampa e della televisione. Alla fine venne distribuita una rassegna stampa di oltre 500 pagine. Un successo dal punto di vista della partecipazione e della comunicazione. Ma dell’organizzazione agricola che l’aveva promossa vi presero parte solo alcuni dirigenti nazionali di secondo piano, come Paolo Giordano, che fu l’ispiratore dell’iniziativa, e Federico Genitoni. Non vennero né Attilio Esposto, né Afro Rossi, né Renato Ognibene. Dei dirigenti politici nazionali partecipò ad un dibattito solo il socialista Giacomo Mancini, mentre Giuseppe Avolio, che era responsabile della sezione agraria del PSI, e Pio La Torre, che dirigeva la sezione agraria del PCI, non si fecero vivi. Quando due mesi dopo, si svolse il congresso di fondazione della Confcoltivatori, nessuno evocò l’iniziativa di Taccone che venne rimossa. Sono rimasti solo gli articoli pubblicati da “Nuova Agricoltura” e dai quotidiani.

Se si vanno a guardare i titoli delle iniziative che si svolsero a Taccone e i nomi delle personalità della cultura che furono coinvolte, si può facilmente notare che, in quella occasione, gli organizzatori fecero un tentativo di collegare le esperienze di comunità degli anni Cinquanta con le ricerche antropologiche e sociologiche di Ernesto De Martino e di altri studiosi nel Sud, nonché con quelle che Nuto Revelli svolse tra i contadini delle Langhe. Si trattò di un tentativo originale di costruire un pensiero sui temi ambientali e sui rapporti tra agricoltura e cultura con approcci completamente diversi da quelli d’importazione anglosassone e che si collegavano alle metodologie sperimentate prima del boom economico. Tentativi d’intervento sociale combattuti o lasciati ai margini da quelle forze trasversali che sposarono l’idea di Saraceno di promuovere lo sviluppo del Sud con un processo di industrializzazione forzata dall’alto. Anche Rossi-Doria, che non partecipò alla “Tre giorni di Taccone”, perseguiva comunque lo stesso filone di impegno in casa socialista: egli fu il primo, in quegli anni, a creare una posizione critica al nucleare nell’area socialista e dialogava molto con Nuto Revelli.

Sono convinto che Taccone abbia a che vedere con inedite sensibilità culturali che incominciavano a manifestarsi in quel periodo. Sensibilità capaci di percepire che qualcosa di nuovo stesse avvenendo o sarebbe avvenuto a breve nelle campagne. Ma ci fu da parte nostra un’enorme difficoltà a cogliere questa novità e a dare ad essa uno sviluppo in termini di elaborazione politico-sindacale e di strutturazione organizzativa. In sostanza, non riuscimmo a vedere per tempo una cosa importante: un po’ dappertutto gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si erano ridimensionati e quelli che restavano si sovrapponevano e creavano nuove differenziazioni. Tali diversità non avevano nulla in comune con quelle precedenti e riguardavano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso, uso e consumo dei beni, modelli alimentari, modelli di welfare, scelte etiche e multidealità relative alle motivazioni degli imprenditori. Dal versante più propriamente produttivo, le antiche distinzioni tra imprese agricole, industriali e di servizi si erano diradate e, in diverse situazioni, erano state sostituite da imprese a rete nel comparto alimentare e imprese di servizi sociali, culturali, educativi, ricreativi, ambientali, paesaggistici, in cui il connotato agricolo veniva fornito da elementi non tanto materiali quanto immateriali. La novità che non vedevamo era la lenta ma determinata espansione di un’agricoltura di servizi, nel quadro di un’innovazione sociale che ricostituiva l’osmosi originaria tra saperi esperienziali e conoscenza tecnico-scientifica. La vicenda ci fa capire perché l’agricoltura italiana e, specificatamente, quella meridionale è quella che è: un settore incapace di cogliere le grandi opportunità della globalizzazione e di fronteggiare i rischi che essa determina, mediante un’innovazione continua.

Altri episodi in cui Angelo va controcorrente sono l’opposizione alla fabbrica di bioproteine nel Metapontino, il ripristino della legge sui Sassi di Matera improvvisamente abrogata e l’impegno per rivitalizzare i piccoli comuni nell’ambito dello sviluppo rurale. Ma ormai siamo già negli anni novanta e la sinistra, caduto il Muro di Berlino, era del tutto priva di una capacità di navigare nel nuovo mare geopolitico, socio-antropologico e tecnologico. Un mare migliore di quello precedente, più ampio e più variegato, che dovremmo affrontare senza nostalgie e con ragionevoli speranze, riflettendo sull’idea di politica per reinventarla nel nuovo scenario.

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