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Nulla è come prima. Percorsi inediti per ri-edificare la comunità. È conveniente integrare gli immigrati
Nei giorni scorsi sono stato a Tito, il paese lucano dove sono nato. L’impressione che ne ho tratto è che nulla è più come prima. E dico subito che il suo volto cambiato mi piace. Un volto che conserva integri i tratti del passato. Ma sono segni, quelli antichi, ancora vitali e che non appesantiscono la nuova immagine. Soprattutto, non ne condizionano la possibilità di guardare al futuro con ragionevoli speranze.
Il volto di Tito mutò in modo significativo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Incominciò allora, un po’ alla volta, a perdere i caratteri della ruralità tradizionale, segnata dalla miseria e dalle malattie, per assumere nel tempo i caratteri di una ruralità nuova: quella all’insegna di un relativo benessere.
Una storia millenaria
Il primo insediamento di persone a Tito risale al 1000 avanti Cristo. E non sorse dov’è attualmente il centro abitato ma a ridosso del Monte Carmine che guarda verso la stazione ferroviaria. Lì sono stati trovati i ruderi dell’antico centro abitato. Per questo, la località si chiama Tito Vecchio. Si ergeva sull’ultima cima di un gruppo di colline per consentire alla comunità di difendersi meglio.
Dopo alcuni secoli, la popolazione abbandonò quel luogo. Era troppo esposto ai venti e al freddo intenso ed era privo di sorgenti abbondanti. E la gente scese a valle per insediarsi su un piccolo colle lambito dal fiume Noce. Sorse così l’attuale centro abitato.
Tra il 1200 e il 1300 dopo Cristo arrivarono dal Monferrato numerosi gruppi di persone che si insediarono in diversi centri della Basilicata e dell’Italia meridionale. A Tito se ne fermarono parecchi. Non si sa come avvenne quell’innesto di nuovi abitanti. Il caro amico Tonino Cuccaro ha ricostruito la vicenda in un bel volume (Inedito galloitalico. Dialetto, parlanti e civiltà contadina in Basilicata, Grafiche Zaccara, Lagonegro 2013), ma è dovuto ricorrere all’immaginazione per colmare i vuoti lasciati intatti dalla ricerca storica. È certo però che da un centinaio di fuochi si arrivò ad oltre 300. E che l’impronta galloitalica a quel punto sostituì l’antica parlata che non doveva essere così diversa dagli altri dialetti meridionali.
Nel 1430 ci fu una nuova ondata di arrivi. Questa volta dalla vicina città di Satriano, incendiata e distrutta per volontà della regina Giovanna II. Ma poi la popolazione fu falcidiata da pestilenze e terremoti che si rincorsero fino ai nostri giorni.
I terremoti
Il paesaggio titese porta i segni di una fragilità ambientale millenaria. Uno dei primi eventi tellurici di cui si hanno notizie è il terremoto del 1560. Come segnala don Nicola Laurenzana, in una delle sue belle pubblicazioni sulla nostra comunità (Tito. Storia, vicende, personaggi, usi e costumi, fede, Editore Moro, Cassola 1989), la data di quel sisma appare su una pietra istoriata sita sulla porta d’ingresso della sagrestia attigua alla chiesetta della congrega della Madonna del Carmine. Un antico edificio sacro raso al suolo dal terremoto del 1980.
Nel 1560 ci furono 100 morti e il paese andò quasi completamente distrutto. Poi si verificò un altro sisma nel 1694 con la perdita di 70 persone e la rovina della maggior parte delle case. Un terremoto di cui fu epicentro Tito è quello del 1826. Si ebbero meno perdite ma precedettero il sisma fenomeni singolari, come i repentini cambiamenti del clima, i movimenti franosi e l’inaridimento improvviso delle sorgenti di acqua solfurea. Altro disastroso terremoto si verificò nel 1857. Morirono 260 persone. E gli ingenti danni alle abitazioni e alle attività arrecarono un colpo mortale all’economia locale.
Anche a causa di questo improvviso impoverimento delle condizioni di vita della popolazione, i contadini titesi non si lasciarono coinvolgere nelle iniziative dei “galantuomini” locali favorevoli all’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. I “cafoni” restarono indifferenti al fenomeno del Risorgimento, come racconta, con pennellate suggestive, Carlo Alianello nel romanzo L’Alfiere (Osanna Edizioni, Venosa 2000), in parte ambientato proprio a Tito. I contadini non solo continuarono ad essere vessati dai proprietari terrieri, ma si videro anche sottrarre in parte il godimento collettivo sulle terre demaniali. Alla loro ribellione lo Stato unitario rispose con la repressione più feroce. E così poterono essere domati ma non integrati, come cittadini, nelle istituzioni democratiche.
Incominciò da allora un incessante flusso migratorio verso le Americhe. Coi proventi dell’emigrazione, alcune famiglie pagarono i debiti che avevano contratto, si costruirono una nuova abitazione o trasformarono il tugurio in cui vivevano in una moderna dimora più ampia e confortevole. Non mancarono acquisti di terra coronando così il sogno di una vita. Ma furono pochi coloro che fecero ritorno. Per la maggior parte dei casi si trattò di un’emigrazione definitiva.
L’antica ruralità
Una volta, le campagne di Tito erano un collage di minuscoli fondi. Gli ordinamenti si riducevano a quelli essenziali: cereali, pascoli, boschi. Terra nuda, senza investimenti, destinata a colture estensive, sulla quale lavoravano i contadini con rapporti precari su distaccati spezzoni concessi in affitto o in compartecipazione, o sulla quale insistevano embrionali aziende estensive del tipo della masseria.
Il sistema agricolo titese, come del resto in tutto il Mezzogiorno interno, si reggeva sul contadino. Il quale viveva in paese e, da quella postazione centrale, poteva più facilmente raggiungere, volta per volta, i dispersi piccoli appezzamenti di terra in proprietà, in affitto o in compartecipazione, scendere agli orti lungo il fiume Noce o salire al demanio civico per acquisire legna ed erbaggi per gli animali e ricomporre così la sua complessa e segmentata impresa. La quale non gli assicurava che la mera sopravvivenza.
Ogni elemento del sistema era inseparabile da tutto il resto. E il meccanismo dei rapporti sociali perpetuava e riproduceva continuamente gli stessi ordinamenti.
Tale immobilità non era l’esito di fattori naturali che rendessero quel territorio refrattario al progresso e all’intensificazione delle colture: terre più misere e difficili di quelle erano state trasformate altrove dalla mano dell’uomo, dai capitali, dalla tecnica dell’agricoltura progredita.
Ma era quel sistema di rapporti che rendeva non conveniente qualsiasi investimento, qualsiasi trasformazione.
La difficoltà delle condizioni naturali riduceva, certo, i limiti di convenienza della trasformazione, ma chi li annullava del tutto e costringeva all’immobilità, era il fatto che la proprietà fondiaria, con quel sistema di rapporti, era in grado di ricavare rendite superiori a quelle che si sarebbero ottenute con qualsiasi altro sistema di conduzione dei terreni.
La modernizzazione
Sconfitto il fascismo e avviatasi la democrazia repubblicana, agli inizi degli anni Cinquanta furono varati provvedimenti legislativi che agirono come un “colpo d’ariete” sui vecchi sistemi agricoli. Anche a Tito, decine di affittuari e mezzadri acquistarono le masserie coi benefici fiscali e creditizi della piccola proprietà contadina.
Si avviava così la modernizzazione dell’agricoltura. Un processo che portava già scritto in sé lo svuotamento delle campagne. E sarebbe stato illusorio pensare di scansare quell’evento doloroso. L’arrivo dei trattori, dei fitofarmaci e dei fertilizzanti faceva cadere la domanda di manodopera. E i piccoli fazzoletti di terra venivano ineludibilmente abbandonati. Ma senza una riduzione degli addetti non sarebbe stato possibile ottenere una crescita della produttività in agricoltura e un innalzamento dei redditi agricoli.
Anche le piccole attività artigianali tradizionali subirono un colpo. E incominciò l’emigrazione verso il Nord dove l’industria meccanica e chimica si espandeva e creava nuovi posti di lavoro. Un’emigrazione non governata che si svolgeva nelle stesse forme di quella che era avvenuta subito dopo l’Unità d’Italia: come soluzione individuale del proprio destino.
Con le rimesse degli emigranti e le pensioni più alte rispetto al passato, molte abitazioni furono adeguate ai nuovi standard civili.
Coi fondi stanziati dallo Stato, si costruirono strade, acquedotti, scuole, strutture per servizi sociali. Il raccordo della Basentana con la Salerno-Reggio Calabria rese più facili i collegamenti con la vicina Campania.
L’industrializzazione forzata dall’alto
Mentre si delineava, tra incertezze e contraddizioni, un percorso di ammodernamento, prendeva piede l’idea dell’industrializzazione forzata dall’alto come panacea dei mali del Sud. Una scelta che vedeva la nostra comunità direttamente coinvolta per gli investimenti che a breve si sarebbero fatti, dapprima nell’area industriale di Potenza e poi in quella di Tito.
Le voci che si levarono contro quella visione dello sviluppo restarono isolate e furono messe a tacere. Tra gli oppositori si distingueva, per acume politico e chiarezza comunicativa, Adriano Olivetti, che aveva promosso il Movimento Comunità. Un’iniziativa politica che si sviluppò anche a Tito, dove si costituì un circolo olivettiano intorno ad un nucleo di attivisti molto impegnato sui temi sociali. Nel 1956, essi avevano abbandonato il PCI che non si era dissociato dall’azione repressiva posta in atto dall’esercito sovietico nei confronti della primavera ungherese.
In occasione delle elezioni politiche del 1958, il Movimento si presentò insieme ad altre piccole formazioni politiche nel cartello “Comunità della Cultura, degli Operai e dei Contadini d’Italia”. Ma quell’iniziativa politica fallì in tutto il Paese. E così venne scartata l’idea di articolare l’intervento pubblico attraverso una maturazione delle popolazioni locali guidata dalla ricerca sociologica sul campo e dai processi educativi e formativi.
Non si trattava di fermare l’industrializzazione. Ma di legarla alla cultura e all’economia locale.
Per non fare questa scelta, tante attività industriali si sono insediate e poi si sono chiuse. E iniziò dunque la lunga fase dei sussidi sociali che, combinandosi con il benessere raggiunto, ha dato vita ai fenomeni estesi di rifiuto e chiusura ad ogni cambiamento.
Tito nelle strategie di sviluppo
Fin dagli anni Sessanta Tito condivide con Potenza e con gli altri Comuni che circondano il capoluogo un medesimo destino: far parte di una potenziale area urbana di tipo metropolitano. Ma, in questi decenni, i gruppi dirigenti che si avvicendano nella gestione della cosa pubblica, a livello locale e regionale, non si preoccupano di cogliere questa opportunità.
Il dibattito parte con l’elaborazione dei primi schemi di programmazione regionale, quando appare chiaro che la Basilicata avrebbe potuto aspirare ad una identità regionale a condizione che il suo sviluppo fosse disegnato sul fulcro di una “metropoli”, come avviene in Campania e in Puglia. Ma quando si istituisce la Regione Basilicata, nel 1970, si accantona il problema e si preferisce dar corpo ad una politica basata sulle cosiddette “direttrici di sviluppo” di fondovalle.
Sicché le comunità montane sono disegnate separando Tito e Picerno dagli altri comuni della cintura potentina. E tale scelta impedisce l’approfondimento del tema in un unico programma territoriale di sviluppo.
Pertanto, la crescita di Potenza è avvenuta in modo spontaneo, più come effetto della costruzione della Basentana, che come esito di una scelta più generale che cogliesse il nodo della “questione urbana”.
L’insediamento residenziale del capoluogo ha interessato quasi tutto il territorio cittadino e poi quello dei Comuni contermini con processi di espansione per infittimento dei nuclei esistenti.
Se guardiamo ai servizi e alle infrastrutture sociali, si può notare che a Potenza si sono concentrati sia i servizi alle imprese, dal credito alla consulenza, dalla comunicazione all’informatica; sia i servizi alle famiglie, dal commercio al dettaglio alle strutture ricettive, dalla ristorazione all’istruzione, dalla sanità ai servizi alla persona.
Mentre Tito è stato dotato prevalentemente di strutture commerciali e bancarie e per giunta quasi tutte concentrate allo Scalo, a ridosso di un’area industriale attrezzata non appena quella di Potenza era diventata satura. Il territorio di Tito Scalo ha così subìto tutti gli effetti perversi di questa carenza pianificatoria. E al centro di Tito è stata tacitamente sottratta qualsiasi funzione.
Neanche a seguito del disastroso terremoto del 1980 (Tito subisce danni ingenti ma per fortuna senza vittime), i fermenti pianificatori per orientare le ingenti risorse nazionali, messe a disposizione della Regione, verso una ricostruzione che portasse sviluppo, aggiustano il tiro. Anche in quell’occasione, alcune scelte per localizzare interventi abitativi a Tito Scalo sono fatte in modo estemporaneo sotto la spinta di interessi particolaristici.
Bisognerà attendere la fine del 2004 per avere il Piano Strategico Metropolitano di Potenza e del suo hinterland che comprende Tito. In esso sarà finalmente indicato con chiarezza l’obiettivo di creare una polarità, al fine di garantire, da un lato, alla nuova organizzazione urbana una reale prospettiva di crescita e di sviluppo, e, dall’altro, un assetto territoriale regionale più equilibrato e sostenibile.
Ma tale strategia, non colta quando era il suo tempo, oggi ha perso mordente.
Percorsi inediti per ri-edificare la comunità
I processi accelerati di deindustrializzazione e l’indagine giudiziaria per disastro ambientale nell’area industriale di Tito hanno posto sotto i riflettori gli effetti inquietanti dell’inquinamento e l’urgenza della bonifica che, dopo vent’anni di denunce pubbliche, ancora tarda a venire.
Ma hanno anche messo in discussione la stessa visione metropolitana dello sviluppo di Potenza e del suo hinterland. E ora si fa fatica a liberarsi culturalmente del paradigma metropoli / industria, che ormai appartiene al secolo scorso.
La sfida culturale è sostituire il vecchio paradigma con l’approccio del “paesaggio metropolitano”. Un approccio che ovviamente non deve avere sciocche pretenziosità. Ma deve declinare in chiave di sviluppo sostenibile una specificità territoriale che si è spontaneamente consolidata da cinquant’anni.
In tale paradigma, l’agricoltura può riscoprire la sua antica funzione generatrice di comunità. Si tratta, infatti, di promuovere pratiche innovative finalizzate a ri-vitalizzare la comunità locale mediante due strumenti che devono agire contestualmente. Il primo è l’utilizzo delle risorse agricole materiali e immateriali. L’altro strumento è la creazione di ambienti di vita capaci di far crescere le persone e la popolazione.
Sia chiaro! Non si tratta di tornare all’agricoltura di una volta. L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per accorciare i tempi nell’individuare patogeni, come la xylella, e salvaguardare così la biodiversità. Le tecnologie TEA e l’editing del genoma ci potranno essere utili per produrre cibo anche in una condizione climatica di aridità. L’agricoltura del futuro è un’agricoltura che non si difende, intimorita, dal mondo che cambia continuamente, ma che sa trovare il suo posto nel mondo con tutti gli strumenti utili per capirlo.
È una sfida culturale che Tito deve saper cogliere per poter ri-edificare la comunità e i suoi valori positivi in chiave moderna, agendo simultaneamente su più fronti.
Innanzitutto, costruendo un’autocoscienza storica per comprendere da dove si viene.
In secondo luogo, investendo – così come l’Amministrazione comunale sta lodevolmente facendo negli ultimi anni – in percorsi educativi e formativi e promuovendo la collaborazione tra scuola, centri di ricerca e realtà produttive aperte all’innovazione tecnologica.
Infine, fondando le prospettive future sull’intergenerazionalità e sull’integrazione delle persone che arrivano dall’Est e dal Sud del mondo.
È conveniente integrare gli immigrati
Nel 1991 gli abitanti di Tito sono diventati 5.722 e nel 2011 hanno raggiunto il tetto di 7.172. Nel frattempo, ci sono stati nuovi arrivi da paesi dell’Europa orientale (soprattutto di rumeni e ucraini) e dall’Africa. Alla fine del 2022, il numero degli immigrati regolari ha raggiunto la soglia di 325 mentre il totale della popolazione scende a 7.148 abitanti.
Negli ultimi anni, dunque, il trend demografico si avvia ad essere come quello nazionale. Il tasso di nascita si sta abbassando e l’età media s’innalza. Un equilibrio si potrà, dunque, raggiungere solo con nuovi arrivi di immigrati. Così come, del resto, è avvenuto nei secoli passati.
Per gestire consapevolmente questo processo ci vogliono, tuttavia, delle condizioni di base.
La prima è una condizione culturale: prendere atto che i movimenti migratori sono un fenomeno strutturale da governare nazionalmente e a livello europeo, mediante ingressi selettivi.
La seconda è una condizione politica e operativa: occorre integrare in profondità gli immigrati, trattando i loro figli come i nostri, attraverso l’educazione, l’istruzione, il lavoro.
Dovremo trasferire i giacimenti della nostra storia civile e culturale, il nostro paesaggio, la nostra lingua, che abbiamo ereditato dalle generazioni che ci hanno preceduto, non solo ai nostri figli ma anche ai figli di chi arriva da altre parti del mondo.
Non basta semplicemente accogliere gli immigrati. Serve anche la coscienza della nostra storia, fatta di arrivi e partenze, di conflitti virulenti e percorsi di integrazione. E la consapevolezza della sfida da affrontare nei prossimi anni. Centrale dovrà essere lo scambio intergenerazionale da progettare e realizzare nelle forme che il contesto nuovo permetterà. In una comunità che rifiorisce, si potranno finalmente creare le condizioni perché i nostri giovani diplomati e laureati – che continuano ad andare via – possano tornare.