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La mozione del segretario uscente chiarisce bene il contesto entro cui si colloca la proposta politica e delinea con precisione la visione strategica e la forma partito che una forza come il PD deve avere nell’attuale scenario globale. Centrale è la selezione e formazione dei dirigenti
La mozione “Avanti, insieme” a sostegno della riconferma di Matteo Renzi a segretario del PD mi ha convinto per una serie di motivi che provo a spiegare.
È innanzitutto chiara l’analisi del contesto entro cui si colloca la proposta politica ed è precisata bene la visione strategica che una forza come il PD deve avere nell’attuale scenario globale.
Siamo in presenza di una drammatica crisi di fiducia dei cittadini verso la politica. Tale crisi si manifesta con una crescente sensazione tra le persone che – in un mondo che cambia vertiginosamente – la politica democratica non sia in grado di offrire strumenti adeguati per influire nel corso delle cose. A questo malessere dei cittadini i populisti e la destra rispondono con la chiusura, l’innalzamento di muri, l’abolizione dei trattati di libero scambio, il protezionismo. La risposta del PD non può limitarsi a contrapporre alla chiusura l’idea della “società aperta” in modo ideologico e astratto. Deve, invece, essere in grado di dimostrare coi fatti e coi comportamenti che quella risposta non ci rende affatto meno passivi e meno vulnerabili a decisioni che si prendono altrove. Per essere convincenti non bastano buone ragioni, ottimi libri, lucidi articoli di giornale, post fulminanti su facebook. Ci vuole la prova che l’apertura funzioni. E la prova la possono dare una pratica di governo capace di tenere insieme libertà e protezioni, opportunità e fragilità, e, nello stesso tempo, una pratica politica che riconosca il valore delle comunità come forme prepolitiche di autogoverno, il senso di appartenenza di tali comunità ad un territorio, la volontà e la capacità dei cittadini di cooperare per auto-realizzare obiettivi di interesse generale.
Occorre, in sostanza, riattivare l’investimento simbolico della politica. Oggi sono in tanti a possedere capacità e voglia di guardare al futuro. Ma lo immaginano commettendo un errore gravissimo che consiste nello scambiare i valori strumentali coi valori finali. I valori strumentali non sono affatto da disprezzare: il progresso tecnico, il reddito medio pro capite, il prodotto interno lordo. Ma se si tramutano in fini, nel giro di qualche generazione, avremo una società scientificamente e tecnicamente molto progredita, ma spiritualmente imbarbarita. I fini di una società che vuole progredire devono restare le esigenze di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di accettazione dell’altro. E gli strumenti (dal benessere economico alla tecnica) vanno subordinati a questi fini.
Per uscire da una pratica immaginifica del futuro spinta su due poli, grandi meraviglie o immani catastrofi, bisogna, dunque, restituire alla politica democratica il compito di organizzare lo sforzo collettivo per compiere il salto dal passato al futuro con l’intenzione dichiarata di perseguire la promozione della persona. Si tratta di investire nella capacità della politica – incarnata nell’azione stabile dei partiti – di riconoscere e sostenere l’autonoma capacità dei cittadini di ricostituire le comunità, riattivare i movimenti sociali e utilizzare pienamente le varie forme di democrazia diretta. E, al tempo stesso, di investire nella funzione propria dei partiti come strumenti della partecipazione dei cittadini alla vita politica nelle forme della democrazia rappresentativa: mettersi in sintonia con le comunità e i corpi intermedi per ascoltarne le domande e i bisogni; formare e selezionare nuovi gruppi dirigenti; permettere ai cittadini di partecipare alla formulazione dei programmi elettorali, monitorarne l’attuazione e candidarsi alle elezioni dopo una fase di adeguata preparazione.
La seconda ragione che mi ha convinto a sostenere la mozione Renzi – Martina riguarda i caratteri del “partito nuovo” da costruire.
Un partito che abbia una ordinata e piena vita democratica, intesa non come benevola e paternalistica concessione di élite illuminate, ma come espressione del diritto primario del cittadino all’autogoverno.
Un partito che s’immerga nella vita delle persone e operi per contribuire a costruire consapevolezza, giudizio critico, volontà di spendersi e partecipare attivamente alla vita collettiva, attitudine a demistificare e dare il giusto valore alle cose, capacità di prendere posizione individualmente e responsabilmente.
Un partito che dinanzi ai problemi non vada subito alla ricerca del colpevole ma tenti di trovare le soluzioni concrete, realizzabili e semplici, mettendo insieme competenze multidisciplinari come condizione irrinunciabile per poter “sentire”, “annusare”, “comprendere” dal basso i fenomeni e i bisogni sociali.
Un partito che abbia una chiara vocazione maggioritaria, cioè una predisposizione a costruire le proprie alleanze direttamente con gli elettori, in modo da unire le quattro grandi fratture che ancora attraversano la società italiana (sociale, territoriale, generazionale e di genere) in un programma elettorale in cui si possa riconoscere la maggioranza degli italiani. Questo non significa che non si debbano fare coalizioni che nascano da accordi pre-elettorali. Ma essi devono scaturire da un confronto chiaro e trasparente tra programmi distinti e da una convergenza programmatica seria. Ogni sforzo va compiuto per introdurre correttivi maggioritari alla legge elettorale, combattendo ogni rigurgito proporzionalista funzionale ai partiti consociativi, identitari, personali e privatistici. Per fare in modo che il PD porti avanti con coerenza tale impostazione, è necessario saper distinguere nettamente le culture politiche che hanno esaurito il loro corso e, ormai, appartengono alla storia d’Italia, dalla nuova cultura politica democratica, da elaborare e praticare oggi. Il PD non potrà mai nascere dall’amalgama di culture politiche che si sono ormai estinte e che costituiscono soltanto radici culturali appartenenti all’intero Paese, senza uno sforzo comune nel radicare una nuova cultura politica all’altezza delle sfide del tempo in cui viviamo. Per tali ragioni non ha alcun senso rinunciare all’idea che la leadership che si propone per il governo del Paese debba essere la stessa che guida il partito.
Un partito che impari a praticare costantemente – mediante la crescita della responsabilità individuale e l’elaborazione di regole condivise – la laicità come condizione per riconoscere, confrontare e far convivere la diversità. Se fino al Novecento esistevano in Occidente essenzialmente tre concezioni del mondo (cristiana, liberale e socialista) che si sono combattute aspramente dando vita a forti partiti identitari, adesso viviamo in società multiculturali e multideali complesse. Le appartenenze e le identità sono diventate molteplici e di natura diversa: territoriali, sociali, generazionali, sessuali, professionali, scientifiche, etniche, religiose, ideali, culturali. Attengono non solo a visioni del mondo ma anche, semplicemente, a specifici stili di vita e a modi distinti di relazionarsi, produrre e consumare. E tali antiche e nuove identità e appartenenze si sovrappongono nello stesso individuo e negli stessi gruppi, costituendo identità e appartenenze plurime. La laicità oggi serve ad orientare le appartenenze e le identità verso il superamento delle proprie chiusure e intransigenze e ad aprirle alla comprensione reciproca e alla cooperazione universale. La laicità oggi serve ad abbattere i pregiudizi, gli stereotipi, i privilegi e le rendite di posizione, economiche e finanziarie, e ad affermare le pari opportunità e le eguaglianze sostanziali. La laicità oggi serve a smascherare il conformismo e la menzogna e a fare emergere la libertà e la sincerità. La laicità oggi serve a contenere le paure, l’incertezza e il disagio e a stimolare il coraggio, l’intraprendenza, il saper fare e l’operosità. La laicità non si contrappone all’identità ma la incivilisce e la fa evolvere nel cambiamento continuo globale. È per questo che “sinistra” e “destra” sono in futuro destinate a differenziarsi anche per il diverso grado di laicità della propria azione. La laicità è sinonimo di dinamismo, cambiamento e solidarietà. L’identità che resiste all’azione incivilente della laicità è sinonimo di conservazione, stagnazione ed egoismo. Più le pratiche laiche si affermeranno e più cresceranno l’apertura al diverso, l’inclusione sociale, l’interazione culturale, la vitalità sociale ed economica delle persone e delle comunità, le pari opportunità, e meglio potranno essere soddisfatti i nuovi bisogni. Meno le pratiche laiche si espanderanno e più si ergeranno i muri, si emargineranno gli ultimi, diventeranno esplosive le diseguaglianze. Naturalmente, l’approccio alla laicità non va confuso con le pratiche volte ad affermare il relativismo culturale e la soggettivizzazione della verità; derive che si devono evitare riconoscendo alla comunità la funzione di proporsi come base del consenso a una verità intersoggettivamente vincolante.
Un partito di popolo radicato nei territori:
La terza ragione che mi ha spinto a sostenere la mozione “Avanti, insieme” è la consapevolezza dell’importanza della selezione e formazione della classe dirigente.
Con Mario Campli ed altri che vorranno aderire all’iniziativa, presenteremo i lineamenti di un vero e proprio progetto sulla formazione politica che riguardi il metodo e i contenuti. Si tratta di dar vita nel PD e nel Partito del Socialismo Europeo ad una vera e propria rete della formazione politica che confronti e fertilizzi le diverse esperienze.
Il metodo di formazione continua va costruito mediante la condivisione :
I contenuti della formazione continua non possono prescindere da questi argomenti:
Siamo, tutti, di fronte all’emergere di un oggetto nuovo: il mondo in quanto tale. Questo essere presi dal mondo ci rende soggetti-oggetti di una contemporaneità e di una circolarità di causa/effetti pressoché permanenti. La conseguenza “pratica” dovrà essere sia la continua consapevolezza della contiguità dei vicini e dei lontani, sia l’impegno continuo nell’informazione, nella formazione e nella educazione alla “mondialità” del nostro vivere “locale”. Si tratta di comprendere come si sono modificati i significati di antiche endiadi: urbanità e ruralità, centro e periferia, metropoli e aree interne. E come esse ora descrivono nuove entità policentriche e multi-identitarie. Le quali si presentano in modo molto differenziato, ma a segnarne la distinzione sono il capitale sociale, i beni relazionali, le reti di interconnessione e i legami che si stabiliscono spontaneamente nelle comunità-territori. Educare alla “mondialità” del nostro vivere “locale” significa essere consapevoli che oggi, dappertutto, anche nelle metropoli, sono comunità-territori i potenziali protagonisti dello sviluppo locale autopropulsivo, nello scenario della dinamica tra flussi globali e lunghe derive delle culture locali.
Un grande economista e filosofo vivente, il premio Nobel Amartya Sen ci insegna e ci invita a considerare la “liberta individuale come impegno sociale”. Non consideriamo, dunque, l’eredità e l’acquisizione delle libertà come un possesso, ma come un seme di cambiamento personale e sociale.
Essere correlati e sentirsi anelli di una stessa collana; rami di uno stesso albero. “L’indebolimento di questa percezione conduce al l’indebolimento della responsabilità, in quanto ciascuno tende ad essere responsabile solo del suo compito specializzato, nonché all’indebolimento ella solidarietà, in quanto ciascuno non sente più il legame con i concittadini”(Edgar Morin). Oggi siamo permanentemente oppressi dall’emergenza-economia. La correlazione comporta “il superamento della contraddizione secca tra cooperare e competere; l’energia della cooperazione sociale è oggi imprigionata nella morsa tra le due forme archetipe dell’organizzazione sociale consegnataci dalla rivoluzione capitalistica: quella dello Stato, vissuto distante e imperscrutabile, e quella del Mercato, vissuto vicino e minaccioso” (Giorgio Ruffolo). Bisogna liberare questa energia di cooperazione: ecco un compito per la nostra generazione. Ecco una sfida per le nostre intelligenze.
Si tratta di quella domanda di senso necessaria ad un “umanesimo democratico”. Il compito della nostra generazione è ricercare e lavorare per una solida base di senso e per una finalizzazione umana ed umanizzante della costruzione storica e sociale contemporanea, coltivando insieme spiritualità e laicità. Spiritualità è una espressione pienamente umana, un sentire e un percepire la storia – comprensiva del mio personale esistere – come un percorso ed un flusso che non mi appartiene totalmente, che mi precede e mi seguirà. Mi sfugge, persino. Proprio perché la posta in gioco appare, ogni giorno di più, decisiva e radicale, tutti dovremmo contribuire a dare dinamismo alle diverse articolazioni delle comunità, dei corpi intermedi e del sistema politico, spinti dall’entusiasmo che la portata del compito può suscitare. Conformare il nostro agire all’idea di ”umanesimo democratico” significa essere consapevoli e credere che la motivazione del nostro impegno a tutti i livelli deve maturare dentro di noi e tra noi. Dicendoci, ogni giorno: se non noi, chi?
Qualunque forma di economia e di società è opera di abitanti di “una” terra. Una terra sola, una terra comune, una terra indivisibile che appartiene a tutti! Questo senso del limite ricorda a tutti – nelle città e nelle campagne del mondo – i confini entro i quali si svolgono i rispettivi mestieri. I “confini” ricordano a tutti noi la finitezza dell’ambiente nel quale operiamo. Un grande europeo, Immanuel Kant, sosteneva che “la finitezza geografica della nostra terra impone ai suoi abitanti un principio di ospitalità universale, che riconosca all’altro il diritto di non essere trattato come nemico”. Dobbiamo consapevolmente “progettare il limite”, come esigenza fondamentale per rispondere, costruttivamente e con equilibrio, alle sconfitte frequentemente registrate – specie in questi ultimi tempi – sul versante della pretesa razionalità dei meccanismi di mercato.
Un’educazione alla laicità e una sua pratica costante potranno permettere il confronto tra le diverse appartenenze e identità, il loro riconoscimento e la loro convivenza. Solo la laicità può costituire un antidoto alle identità “armate” in ogni campo dell’agire umano perché essa esige, nell’intimo delle nostre coscienze, sincerità e verità.
Allo stesso modo degli artigiani e dei tecnici, il dirigente politico deve acquisire competenze e abilità primarie. Deve innanzitutto conoscere gli elementi essenziali del diritto pubblico e delle materie di cui si occuperà. Deve acquisire capacità di ascolto, mediazione, negoziazione e sintesi. Deve essere portatore di uno spirito federalista e costruttore di legami solidali dal basso. Deve essere in grado di comunicare in tutte le modalità, padroneggiando il web, i suoi strumenti e le sue insidie. Ma c’è una cosa che non deve mai fare per non trovarsi in contraddizione con il suo “essere democratico”: mostrarsi indisponibile al ricambio e scoraggiare le nuove generazioni a scegliere la politica come propria attività prevalente o secondaria. Il dirigente politico deve imparare ad essere umile. L’umiltà è una virtù fraintesa. Essere umile non significa essere disponibile fino ad apparire servile. L’umiltà ha a che fare con la terra, con l’humus. Umile è chi poggia a terra l’orecchio quasi a cogliere il pulsare profondo del sottosuolo dove oscuramente germina la vita.