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Una occasione per interrogarci sullo stato di salute delle democrazie liberali e degli ordinamenti democratici nelle entità sovranazionali
Da settantacinque anni il 25 aprile è festa, la festa della liberazione. Ma quello che la data evoca è un evento grande e terribile; il punto di arrivo di una guerra sanguinosa. Una guerra che non ha precedenti nella storia umana, per caratteri ideologici, estensione geografica, numero di vittime, vastità di distruzioni. In Italia, l’aspetto più drammatico della vicenda è la lotta armata fra gli italiani, una vera e propria guerra civile, fra i resistenti e coloro che hanno accettato di collaborare con il governo fascista di Salò. La lotta si sviluppa in una lunga scia di violenze, di atrocità e di sofferenze. I resistenti non sono soltanto i combattenti che partecipano all’epopea partigiana del Centro-Nord e le popolazioni delle campagne che assicurano il sostegno logistico e i viveri alle formazioni partigiane. Sono anche i combattenti che prendono parte alle quattro giornate di Napoli e all’insurrezione di Matera. Sono anche i tanti soldati meridionali che, privi di guida e vagando “sbandati” per la penisola, vengono catturati dai tedeschi e, dopo aver opposto un netto rifiuto ad arruolarsi nell’esercito della repubblica di Salò, finiscono nei campi di concentramento nazisti. Stiamo parlando di un milione e duecentomila militari che resistono al nazifascismo. E sono per lo più contadini.
Il 25 aprile segna per l’Italia la conclusione di questo dramma con la vittoria degli anglo americani e della Resistenza italiana: è la data simbolo della Resistenza e della fine della guerra in Italia. Una guerra che vede l’Italia dalla parte degli sconfitti.
Per comprendere il senso tragico di questa data è utile ricordare il discorso pronunciato in italiano il 10 agosto 1946 dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, al palazzo del Lussemburgo a Parigi, all’Assemblea generale della Conferenza della Pace. Come al tribunale dei vincitori, in un’atmosfera gelida, il capo del nostro governo è ammesso a quella riunione dopo un’attesa in piedi in anticamera. Parla, pallido in volto, senza pavidità né insolenza, ma con grande dignità. “Prendendo la parola in questo consesso mondiale – dice – sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex-nemico, che mi fa considerare come imputato, e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire…”.
Dinanzi al mondo, De Gasperi si fa interprete di un vissuto collettivo che riguarda tutti gli italiani e non di una parte soltanto. Un vissuto collettivo che si compone di speranza e volontà di liberazione dalla guerra e dalla oppressione e che il 25 aprile unisce tutti gli italiani ben al di là delle singole forme e proposte politiche in cui quella speranza e quella volontà si manifestano. Un vissuto collettivo che la Costituzione repubblicana raccoglie ed esprime al più alto livello. Ed è questo radicamento nell’esperienza globale di tutti i cittadini italiani il fondamento più solido della Costituzione.
Nella Costituzione c’è un elemento poco percepibile e più spesso ignorato: il superamento della idea e della cultura di rivoluzione in favore dell’idea democratica di sviluppo. L’idea di rivoluzione è legata alla pretesa delle ideologie di essere portatrici di una risposta globale ed esaustiva. Un’idea che implica, pur nella varietà delle sue manifestazioni, la costrizione e la forza per realizzare il suo obiettivo. Un’idea che in Italia costituisce l’elemento comune di un filone della cultura democratica prefascista, della cultura fascista e poi di una parte della cultura antifascista che si è andata via via sempre più riducendo.
Il 25 aprile è certamente una rivoluzione come fatto; ma il suo esito è quello del superamento della cultura della rivoluzione. Il suo esito si inserisce, sebbene con una sua specifica fisionomia, nella grande tradizione democratica europea e americana nella quale la democrazia stessa non è strumento per raggiungere un obiettivo predeterminato una volta per tutte, un modello predefinito di ordine sociale; ma un processo aperto per la verifica degli spazi via via possibili di dignità e di liberazione dell’uomo.
Il 25 aprile è oggi l’occasione anche per interrogarci sullo stato di salute delle democrazie liberali e degli ordinamenti democratici negli stati nazionali e nelle entità sovranazionali (Unione Europea, Onu, ecc.). Ordinamenti messi a dura prova da un utilizzo improprio e sregolato delle tecnologie digitali e da orientamenti etici, culturali e politici che considerano le libertà e i diritti individuali inutili cianfrusaglie di cui liberarsi e guardano alla scienza e alla comunità scientifica come ambiti da assoggettare e strumentalizzare. L’emergenza dovuta alla pandemia “covidica” fa letteralmente “emergere” questi gravi rischi e deve stimolare – nella ricorrenza del 25 aprile – riflessioni e confronti volti a elaborare urgentemente riforme istituzionali e azioni dal basso promosse dalla società civile per rispondere ai sovranismi, ai populismi, alle pulsioni pseudoscientifiche e catastrofiste e alle mire egemoniche e oppressive di culture politiche autoritarie e illiberali.
Il significato del 25 aprile è, dunque, aprirci alla cultura della liberazione, all’idea di traguardi più avanzati di dignità e di libertà umana, all’idea di democrazia come bene comune da salvaguardare e spazio di confronto e iniziativa per ricercare sempre più adeguati strumenti istituzionali e partecipativi, all’idea di democrazia da reinventare permanentemente nello stato nazionale e oltre gli stati nazionali, alla prospettiva di una lotta per la liberazione che continua oggi e deve continuare domani.