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L'Unione politica si può più facilmente realizzare mediante l'integrazione differenziata (Stati membri-Mercato unico e Stati membri-Eurozona) e lo sdoppiamento delle competenze (sovranità dell'Unione e sovranità dello Stato membro). Come sdoppiare la materia agricoltura?
Premessa
«Laboratorio Europa – Eurispes” ha elaborato una proposta per trasformare l’Europa attraverso l’Eurozona. La proposta prende le mosse dalla consapevolezza che il passaggio alla «Unione Politica» diventa sempre più urgente, al fine di salvaguardare e proseguire l’integrazione europea.
L’impianto politico-istituzionale più idoneo di Unione politica è quello basato ed articolato sulla «duplice sovranità»: quella Unionale (lemma accolto nel Vocabolario Zingarelli 2016 e sdoganato dall’Accademia della Crusca dal 2017 per le cose riferite all’Unione Europea) e quella degli Stati nazionali membri. Il percorso verso l’Unione politica potrebbe, pertanto, richiedere una modalità di «Integrazione differenziata».
La «Unione economica e monetaria», già istituita, necessita di completamento e riforma, al fine di salvaguardare la “moneta unica e stabile” (cfr. Preambolo al TUE). La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità (art. 5 del TUE). La trasformazione di questa Unione Europea, partendo dall’Eurozona, necessita della revisione delle “Categorie e settori di competenza dell’Unione” (art. 2-6).
Considerando che “l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati membri” (art. 4, 1. del TFUE) in “agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare” (art. 4.2,d. del TFUE), «Laboratorio Europa» propone lo sdoppiamento delle competenze dell’UE nel settore agricoltura.
In base all’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), l’unione doganale, le regole della concorrenza, la politica commerciale comune e la conclusione di accordi internazionali sono chiaramente individuate come competenze esclusive dell’Unione.
Inoltre, l’art. 6 del TFUE indica la tutela e il miglioramento della salute umana tra gli interventi dell’UE intesi a sostenere, coordinare o completare le azioni degli Stati membri. In materia di sicurezza degli alimenti, gli Stati membri hanno, nel tempo, attribuito all’UE una serie di competenze che rispondono a due obiettivi ben specificati: 1) proteggere la salute umana e gli interessi dei consumatori; 2) favorire il corretto funzionamento del mercato unico europeo. In tale quadro, l’UE provvede affinché siano definite (e rispettate) norme di controllo nei settori dell’igiene dei prodotti alimentari e dei mangimi, della salute animale e vegetale e della prevenzione della contaminazione degli alimenti da sostanze esterne. La materia “alimentazione”, sotto il profilo della sicurezza e della salubrità del cibo, è stata avocata a sé dall’Unione con il regolamento n. 178/2002 sulla sicurezza alimentare. L’UE disciplina altresì l’etichettatura dei generi alimentari e dei mangimi. E con un recente provvedimento approvato solo dal Consiglio sono stati armonizzati i sistemi di etichettatura di diversi Stati membri, introducendo l’obbligo di indicare l’origine della materia prima, quando in etichetta c’è il richiamo a un paese.
A nostro giudizio, le competenze previste dagli articoli 3 e 6 del TFUE è bene che continuino ad essere attribuite al livello istituzionale europeo – Unionale – per l’insieme dei 27 Paesi dell’Unione.
Le competenze concorrenti sono quelle per le quali co-esistono/concorrono due livelli di governo (quello unionale e quello statale) con eguali possibilità di interventi normativi e per le quali vale il principio di sussidiarietà.
Il termine “sussidiarietà” – che evoca “sostegno” e postula un rapporto tra due soggetti, uno dei quali viene “in soccorso” dell’altro in via suppletiva solo e nella misura in cui questi non sia in grado di assolvere alle funzioni che normalmente gli competono – invita il soggetto superiore ad astenersi dall’ingerirsi nell’attività dell’organismo inferiore, ma gli consente di intervenire ogni volta ci sia bisogno del suo aiuto. Nel diritto unionale dovrebbe prevalere il profilo negativo per la preferenza riconosciuta alle azioni degli Stati. Tuttavia, il principio di sussidiarietà è utilizzato ogni volta non siano possibili frazionamenti territoriali del mercato unico e appaia incomprimibile un’esigenza di trattamento unitario.
Il Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato di Lisbona, precisa che la Commissione, prima di proporre un atto legislativo, effettua ampie consultazioni “salvo che ricorrano casi di straordinaria urgenza”. Inoltre, è prescritto che nel corso di tali consultazioni deve essere tenuta in conto “la dimensione regionale e locale delle azioni previste” (art. 2). Dunque, quando si riscontri la sussistenza di funzioni che necessitino di un esercizio unitario perché presentano aspetti transnazionali che non possono essere disciplinati in maniera soddisfacente mediante l’azione dei singoli Stati membri, l’UE può avocare a sé, applicando i principi di sussidiarietà e di adeguatezza, la relativa competenza normativa.
Il Trattato di Lisbona non contiene più l’elenco delle “politiche comuni” perché ha abrogato l’art. 3 del Trattato sulla Comunità Europea (TCE). Nel formulare l’attuale art. 38 del TFUE (ex art. 32 del TCE), vi inserisce un nuovo primo comma al paragrafo 1, proclamando che “l’Unione definisce e attua una politica comune dell’agricoltura”. Il suddetto articolo stabilisce anche che il mercato interno comprende l’agricoltura e il commercio dei prodotti agricoli. Il funzionamento e lo sviluppo del mercato interno per i prodotti agricoli devono essere accompagnati dall’instaurazione di una Politica Agricola Comune (PAC). L’art. 39 del TFUE (ex art. 33 del TCE) definisce le finalità della PAC. L’art. 40 del TFUE (ex art. 34 del TCE) prevede la creazione di un’organizzazione comune dei mercati agricoli, le sue forme e le misure per realizzare le finalità della PAC.
La formula del Trattato di Lisbona vuole dare forza e sostanza al principio di sussidiarietà, ridisegnando gli spazi di sovranità legislativa degli Stati membri. Così si comprende il fatto che nella vigente politica delle strutture agricole (cosiddetto “secondo pilastro” della PAC) vengano assegnati agli Stati compiti e poteri sempre più estesi (vedi i nuovi regolamenti sulla PAC del 17 dicembre 2013), con l’effetto indiretto di una “ri-nazionalizzazione” di questa componente della PAC. Con una co-esistenza della perdita di centralità delle istituzioni unionali nel settore e della conferma di una centralità dell’Unione quanto al diritto regolativo.
Si rinforza sempre più l’impressione che il diritto unionale dell’agricoltura inteso lato sensu e, perciò, comprensivo della cosiddetta food law, stia cambiando pelle e stia passando da diritto incentivante a diritto regolativo. In altre parole, il diritto agrario di fonte europea un tempo si caratterizzava soprattutto per il suo aspetto promozionale e per il ruolo di disciplina degli interventi finanziari sui mercati agricoli. Tale ruolo si giustificava anche per via del fatto che le debolezze strutturali del mercato agricolo rendevano indispensabile un minimo di protezionismo per consentire che la libertà di iniziativa si coniugasse con lo sviluppo equilibrato del sistema. Oggi, si sta verificando una progressiva rinuncia da parte delle istituzioni europee ad intervenire direttamente con incentivi finanziari in molti comparti della produzione agricola, sicché l’unità istituzionale dell’Europa che si reggeva fortemente sul piano dell’incentivazione dei processi economici sta progressivamente cedendo spazio alle dimensioni locali di governo e alle scelte nazionali.
Il diritto unionale in agricoltura si sta, pertanto, trasformando in un diritto regolativo, che non solo individua, di volta in volta, la cornice disciplinare all’interno della quale a livello periferico esso viene attuato, ma determina, in modo preciso, la disciplina a cui tutti si è obbligati, dettando definizioni e stabilendo regole di comportamento. In tal modo l’utilizzazione centralizzata degli strumenti regolativi consente di mantenere salda l’unità istituzionale dell’Europa.
Tale evoluzione dell’intervento unionale in agricoltura è ben visibile nel Regolamento n. 178/2002 sulla sicurezza alimentare, cioè nel regolamento centrale dell’European food law. Senz’alcun dubbio, tale normativa può essere ascritta alla tendenza di utilizzare e valorizzare gli strumenti della centralizzazione regolativa per garantire l’unità istituzionale dell’Europa sul piano del diritto, all’interno ed all’esterno dei suoi confini. Il fine di detto regolamento è, infatti, quello di porre le basi di un diritto alimentare europeo, attraverso, appunto, la disciplina giuridica del mercato alimentare mediante l’adozione di principi di sicurezza ispirati alla ricerca di un elevato livello di tutela della salute umana e a un approccio integrato lungo l’intera filiera del prodotto agricolo che viene tracciato dal campo alla tavola. È noto che nel Trattato di Lisbona non è menzionata la materia dell’alimentazione. Tuttavia, per lo stretto rapporto dell’alimentazione con la sanità pubblica e con la tutela dei consumatori – entrambe menzionate dall’art. 4 del TFUE fra le materie concorrenti – anch’essa finisce con l’essere una materia concorrente: d’altronde gli artt. 168 e 169 affermano rispettivamente che l’azione dell’Unione completa le politiche nazionali della sanità pubblica in tutte le politiche ed attività unionali e contribuisce a tutelare la salute mediante misure di sostegno delle politiche svolte dagli Stati. Orbene, la stessa suindicata “invasione” che l’UE ha compiuto nella materia dell’agricoltura si ripete in quella della sicurezza alimentare, mediante la costruzione di una estesa disciplina giuridica riguardante l’ordinamento alimentare.
Dal 1° luglio 2015 è depositata presso le istituzioni dell’UE la «Relazione informativa» del Comitato Economico Sociale Europeo (CESE) intitolata: “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti”.
Per comprendere l’importanza di questa tipologia d’intervento (“Pagamenti diretti” o “aiuti diretti al reddito”) vanno considerati alcuni dati: il bilancio della PAC per il periodo 2014-2020 rappresenta il 38% circa del bilancio generale dell’UE; l’importo totale della spesa PAC per il periodo di 7 anni è pari a 408,31 miliardi di euro; il primo pilastro , pari a 313 miliardi, rappresenta il 77% della spesa totale PAC; i pagamenti diretti, pari a 294 miliardi, rappresentano il 94% del primo pilastro. Questa tipologia di intervento pubblico rappresenta la più importante (in termini finanziari) politica comune dell’UE. Se questa non funziona, non fallisce solo una politica ma è l’insieme dell’idea di Europa che è messa in discussione e perde di credibilità. E nelle campagne europee c’è molta insofferenza per l’inefficacia e l’iniquità di tale intervento.
La relazione del CESE è molto articolata perché esamina le decisioni prese dagli Stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli Stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il regolamento – approvato in co-decisone dal P.E. e dal Consiglio (frutto della singolare negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione, detto “trilogo”) accresce di altre cinquanta le aree di un discrezionale ed autonomo intervento degli Stati membri, nella politica «comune» per l’agricoltura (reddito agricolo).
Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è stato possibile al CESE individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli Stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non hanno fatto altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che ha accresciuto a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico («comune»).
Per procedere ad una lettura d’insieme di tali decisioni il CESE ha adottato una metodologia di analisi articolata in tre passaggi: a) individuazione delle decisioni veramente cruciali; b) individuazione di un sistema di misurazione per esprimere una visione complessiva delle scelte effettuate nell’insieme del territorio dell’Unione, di tipo quali-quantitativo (su una scala da 1 a 5); c) applicazione dell’analisi fattoriale, come tecnica di analisi finalizzata a sintetizzare la complessità delle relazioni tra le variabili trattate. Il sistema di misurazione è basato sulla rilevazione delle scelte adottate, collocate tra i due estremi della scala. Ne vien fuori un’articolazione molto ampia di modalità che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello unionale e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.
L’impressione generale che se ne ricava è quella di un grande e confuso scambio clientelare che ha visto protagonisti, da una parte, i governi nazionali e i parlamentari europei disponibili a soddisfare qualsiasi richiesta, e, dall’altra, le organizzazioni agricole che hanno rivendicato cose anche contraddittorie tra loro, pur di mettere in bella mostra un ruolo di rappresentanza che di fatto da tempo hanno dismesso.
La relazione informativa del CESE rileva che già l’ultima “riforma” della PAC in sé contiene elementi fortemente discutibili. Il primo elemento risiede nella stessa scelta di conservare una PAC basata su due pilastri, e soprattutto di assegnare, nell’ambito del primo, un ruolo prevalente ai pagamenti diretti. La formula dei pagamenti diretti presenta il difetto di una vaga e poco definita relazione tra obiettivi della politica agraria e strumenti adottati per perseguirli, con il rischio di un’inefficiente distribuzione delle risorse. D’altra parte, il loro frazionamento in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, giovani, ecc.) ha aggiunto complessità all’intervento.
Il secondo elemento si lega alla scelta di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra gli agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale.
Il terzo elemento risiede nella duplicazione e sovrapposizione delle misure tra primo e secondo pilastro. Segnatamente nei due pilastri sono contemporaneamente comprese misure per la sostenibilità ambientale, i giovani e le aree con vincoli naturali. A parte quest’ultima opzione, che è stata attivata soltanto (e in misura modesta) dalla Danimarca, le altre due, e soprattutto l’inverdimento, pongono non pochi problemi di compatibilità tra obiettivi e strumenti.
In aggiunta alle suddette criticità insite a monte della stessa “riforma” della PAC, il CESE ha individuato un altro elemento problematico legato al sistema decisionale che prevede una laboriosa ed estenuante negoziazione tra le tre istituzioni. Tale sistema contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di ri-nazionalizzazione di una politica che il TFUE definisce “comune”.
La ripartizione degli aiuti diretti tra gli agricoltori ha alimentato una profonda avversione delle aree rurali nei confronti dell’UE perché tale tipologia di intervento si caratterizza per l’elevato grado di concentrazione. È quanto si evince dai rapporti pubblicati annualmente dalla Commissione Europea, dai quali risulta che l’80% dei pagamenti diretti va a beneficio di appena il 20% degli agricoltori.
Nell’anno finanziario 2014 (che si riferisce ai pagamenti del 2013) a 7,52 milioni di beneficiari sono stati complessivamente erogati 41,7 miliardi di euro. Ma di tale somma solo 647 milioni sono stati percepiti dai 2,5 milioni di agricoltori che hanno ricevuto pagamenti diretti di importo inferiore ai 500 euro ciascuno. Gli altri 5 milioni di agricoltori si sono divisi oltre 41 miliardi.
L’economista esperto di PAC Alan Matthews, attraverso la rielaborazione di dati della Dg- Agri (Direzione generale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale della Commissione Europea), è riuscito a calcolare che circa il 55% dei pagamenti diretti è riservato ai 750mila agricoltori con il reddito più alto. Il risultato, oltre a mostrare l’elevata disuguaglianza della distribuzione dei pagamenti rispetto al reddito, conferma quanto si poteva intuitivamente supporre: agli agricoltori con il più elevato reddito agricolo vanno i pagamenti diretti di importo maggiore.
Un altro economista esperto di PAC Franco Sotte ha rilevato una incongruenza tra l’importanza che l’UE annette all’obiettivo relativo al ricambio generazionale nelle imprese agricole (con specifiche misure sia nel primo che nel secondo pilastro) e l’impostazione dei pagamenti diretti che spingono in alto le rendite connesse all’uso e alla proprietà della terra. Tenendo conto delle proporzioni finanziarie tra i due obiettivi (ingresso dei giovani e sostegno al reddito) si può ben dire che la PAC ostacola anziché favorire il turnover nelle campagne, così come l’ampliamento delle dimensioni delle aziende.
I rilievi critici del CESE e degli esperti non hanno trovato alcuno spazio nel Libro bianco del Presidente della Commissione Juncker, nel documento “Il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura” con il quale il Commissario Hogan ha avanzato le sue proposte per la PAC post 2020. In quest’ultimo testo si confermano i pagamenti diretti legati alla superficie e i due pilastri con un ruolo ancora secondario del secondo (nonostante gli impegni assunti nella conferenza di Cork 2.0) rispetto al primo. A proposito di budget, il documento Hogan apre alla possibilità di introdurre il cofinanziamento nazionale anche per i pagamenti diretti. A questo riguardo è interessante notare che, osteggiato dal Copa-Cogeca (rappresentanze agricole europee) e da molti Stati membri, il cofinanziamento era stato perentoriamente escluso nella prima versione dello stesso documento. Segno evidente che nella Commissione si scontrano opinioni differenti. Eppure i pagamenti diretti sono l’unico caso di settore d’intervento gestito in collaborazione con gli Stati membri che non ha cofinanziamento. Ma a fronte dell’iniziativa della Commissione, il Parlamento Europeo ha ultimamente approvato a larga maggioranza la relazione Dorfmann con la quale si respinge la proposta di cofinanziamento dei pagamenti diretti.
La principale innovazione proposta per la futura PAC consiste nel maggiore coinvolgimento e nella maggiore responsabilizzazione degli Stati membri. Nella PAC che Hogan propone per il dopo 2020 l’Unione fisserebbe i parametri di base (obiettivi, tipologie d’intervento, requisiti) mentre gli Stati membri, attraverso un “Piano strategico nazionale della PAC” relativo sia al primo che al secondo pilastro, sarebbero incaricati di precisare gli interventi, controllarne l’applicazione e comminare le sanzioni. Questa soluzione mira in primo luogo ad affrontare il problema della palese inefficacia delle misure one size fits all applicate in modo indifferenziato in tutti gli Stati membri e si collega alla decisione di delegare agli Stati membri oltre cinquanta decisioni in materia di applicazione del Regolamento 1307/2013 sui pagamenti diretti. Il documento del commissario all’agricoltura intende riconoscere ulteriori e più rilevanti spazi all’esercizio della competenza concorrente degli Stati membri, sia all’interno delle scelte definitorie (in diritto), che all’interno delle scelte distributive (di politica economica).
Tale orientamento era apparso evidente con la modifica della definizione di “attività agricola” apportata dal Regolamento 1307/2013 sui pagamenti diretti. In base ai Regolamenti 1782 del 2003 e 73 del 2009, l’attività agricola riguardava “la produzione, l’allevamento o la coltivazione di prodotti agricoli, comprese la raccolta, la mungitura, l’allevamento e la custodia degli animali per fini agricoli, nonché il mantenimento della terra in buone condizioni agronomiche e ambientali”. La nuova definizione non considera più sufficiente il semplice “mantenimento della terra in buone condizioni agronomiche e ambientali”, ma richiede “il mantenimento della superficie agricola in uno stato che la renda idonea al pascolo o alla coltivazione senza particolari interventi preparatori” e soprattutto aggiunge: “o lo svolgimento di un’attività minima, che gli Stati membri definiscono, sulle superfici agricole mantenute naturalmente in uno stato idoneo al pascolo o alla coltivazione”. La novità definitoria è stata rilevante ed ha inciso sui contenuti stessi assegnati all’attività agricola.
Si è infatti accentuato il versante produttivo, e non soltanto di semplice mantenimento: l’agrarietà dell’attività svolta si misura in ragione della sua idoneità rispetto alle attività produttive di allevamento (il pascolo) o di coltivazione, che costituiscono il compito assegnato all’attività agricola in senso proprio. Di più: la formula proposta ha coinvolto gli Stati membri già nella conformazione produttiva dell’attività, anche in ciò segnando una novità rilevante rispetto alla precedente definizione, che rinviava agli Stati membri soltanto sotto il profilo del mantenimento delle minime buone condizioni agronomiche ed ambientali precisandone analiticamente obiettivi e norme, laddove nel Regolamento del 2013 il rinvio alla competenza regolatrice degli Stati membri è stato ben più ampio, facendo riferimento ad un’attività ulteriore rispetto a quella del mantenimento della terra in idonee condizioni di capacità produttiva. Il ruolo conformativo riconosciuto agli Stati membri è apparso del resto non occasionale, ma assegnato pour cause, siccome logicamente connesso all’attenzione verso attività propriamente produttive, perché 28 Stati implicano 28 agricolture molto diverse, anzi – pensando alle “tante agricolture italiane” e analogamente di altri Paesi – ben più di “28 agricolture”.
Dunque, già in quest’ultima programmazione, la pluralità delle agricolture europee, le tante agricolture, ciascuna espressione del proprio territorio e delle caratteristiche di questo (storiche, culturali, ed umane, oltre che naturali), hanno trovato finalmente, con la rinnovata definizione di attività agricola e con gli spazi definitori assegnati agli Stati membri, formulazione giuridica esplicita e di portata generale. Su quella scia si propone adesso di consolidare ulteriormente una legislazione multilivello, nella quale diversi soggetti istituzionali cooperano nel processo normativo, in una relazione che alla tradizionale dimensione gerarchica accompagna decisivi profili di competenza, declinati nell’ambito del canone di sussidiarietà.
Allora a questo punto la domanda è: “È sensato proseguire in tale sovrapposizione di competenze, quando il processo vuole esplicitamente evolvere verso la ‘ri-nazionalizzazione’? Non conviene trovare soluzioni più ragionevoli che portino ad una effettiva e piena responsabilizzazione di quei soggetti istituzionali che assumono le decisioni, rendendo trasparenti le modalità con cui si adottano?”.
Alla luce delle considerazioni critiche sviluppate fin qui nei confronti della tipologia dei pagamenti diretti e delle scelte già compiute nella precedente programmazione e che si intendono compiere in quella che sarà implementata prossimamente, proponiamo di procedere verso uno sdoppiamento delle competenze in materia di “agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza dell’UE e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.
Più precisamente, andrebbero estrapolate dall’attuale PAC quelle competenze che si legano effettivamente ad obiettivi raggiungibili esclusivamente mediante una politica comune. Tutte le altre competenze andrebbero attribuite esplicitamente agli Stati nazionali membri, per il semplice motivo che solo questi possono effettivamente governare la convivenza virtuosa e non conflittuale della pluralità delle agricolture dentro il perimetro delle rispettive sovranità.
La Politica europea nel settore agricolo andrebbe, pertanto, semplificata e razionalizzata – sia al livello della normativa, sia al livello delle risorse finanziarie e di bilancio – secondo il principio delle due Sovranità:
A fronte di una configurazione della integrazione europea del tipo «Integrazione differenziata» (allo stato: Stati nazionali membri – Eurozona e Stati nazionali membri – Mercato Unico), si ritiene utile sollevare l’attenzione (e continuare la relativa riflessione) sulla opportunità/necessità di introdurre sistemi e forme di cross-compliance, in capo alle Istituzioni unionali (segnatamente più Parlamento Europeo che Commissione) di verifica dell’osservanza degli obblighi e dei valori dello Stato di diritto (art. 2 del TUE) e della Democrazia rappresentativa (art 10).