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Nelle democrazie il pluralismo funziona con classi dirigenti dotate di un di più di capacità progettuale, visione d’insieme e concretezza realizzativa
Nel 2020 ricorreva il cinquantenario della istituzione delle regioni a statuto ordinario. Ma un bilancio di questa esperienza non è stato fatto. C’è una sorta di tabù che si fa fatica ad abbattere. Esso forse nasce dalla circostanza di trovarci a petto di una vicenda suscitatrice di due sentimenti contrastanti. Se si guarda ai risultati, non si può fare a meno di giudicarli deludenti. E allora abbassiamo gli occhi e diciamo sottovoce: “Lasciamo perdere”. Se si tiene conto delle idealità, come i principi di autonomia e autogoverno, non si può che essere comprensivi. E allora diventiamo eccessivamente cauti nell’esprimere una valutazione. Il giurista Giandomenico Falcon, nell’introduzione al volume Lo Stato autonomista da lui stesso curato (Il Mulino, 1998), scrive candidamente: “Il moto verso il decentramento e le autonomie non è tanto il frutto di una riflessione sui risultati finora raggiunti, quanto semmai di una riflessione su come la società italiana (o una sua parte percepita come la maggiore o la più significativa) voglia e possa essere organizzata ai fini dell’amministrazione”.
Ma i problemi, quando insorgono, si possono affrontare se si ha il coraggio di superare i tabù e di considerare, con laicità, ogni cosa suscettibile di essere discussa ed esaminata criticamente. Tra i pochissimi studiosi che hanno avuto il coraggio di parlare delle regioni in occasione dell’anniversario della loro nascita, va annoverato il giurista Sabino Cassese. In un articolo sul Sole 24 Ore del 10 maggio 2020, egli individua fondamentalmente tre limiti nell’esperienza regionale.
Il primo limite riguarda la partecipazione alle elezioni dei consigli regionali. In occasione delle prime elezioni regionali nel 1970 partecipa il 90 per cento degli aventi diritto al voto. Dopo trent’anni la partecipazione scende di 20 punti. Nelle votazioni degli anni più recenti, la partecipazione dell’elettorato oscilla, a seconda delle regioni, tra un terzo e due terzi, con una generale tendenza a poco più della metà dell’elettorato. La partecipazione elettorale nazionale è superiore. E questo vuol dire che i poteri pubblici che dovrebbero esser più vicini ai cittadini (le regioni) – inizialmente addirittura considerati all’origine della salvezza dello stesso Stato – sono in realtà percepiti dalla cittadinanza più lontani.
In secondo luogo, l’istituzione delle regioni induce la speranza di una riaggregazione delle forze politiche su base regionale, differenziandosi dal livello nazionale. Insomma, nutre il sogno che finalmente il rivendicazionismo proprio della vecchia esperienza degli enti locali potesse essere abbandonato. E che nuove forme di partecipazione al potere pubblico, in senso aggregativo e cooperativo, anziché conflittuale, fossero sperimentate. In realtà, nelle regioni si ripetono e si amplificano le discrepanze della politica nazionale. I presidenti di questi enti si distinguono nel competere con lo Stato centrale, come tanti “shogun” in concorrenza con l’imperatore. E le varie conferenze Stato-regioni sono assise deludenti perché nei suoi partecipanti non si avverte alcuno spirito coesivo.
Infine, la presenza delle regioni accentua il divario Nord-Sud, diventando così fattore di disunione. Ogni regione si comporta, infatti, come un potentato locale. Si dimentica che l’articolo 5 della Costituzione, prima di riconoscere e promuovere le autonomie, dispone che la Repubblica è “una e indivisibile”. La cooperazione nel riequilibrio dei divari, che ci si aspetta inizialmente, non si verifica. Le regioni si comportano come parti di una confederazione rissosa, non come componenti di un organismo unitario, quello che la Costituzione chiama “Repubblica”.
Per comprendere le ragioni di questo impietoso bilancio è necessario ripercorrere alcuni passaggi essenziali del processo di regionalizzazione. Ne viene fuori una storia di aspettative e di promesse che vengono sistematicamente tradite. È, infatti, da sempre mancata nelle classi dirigenti una capacità progettuale, una visione d’insieme e, nello stesso tempo, una concretezza realizzativa. Si verificano abusi e inappropriatezze finanche nel lessico. Termini come “regionalismo”, “federalismo”, “governatore” non hanno nulla a che vedere con l’ordinamento regionale dello Stato italiano. Eppure si usano abitualmente, senza alcuna cautela, quasi fossero congruenti e rispondenti alla effettiva realtà delle cose.
Una regionalizzazione ambigua e lenta
Le regioni sono istituite ventidue anni dopo la previsione costituzionale dello Stato regionale. Inizialmente i costituenti avevano pensato che le regioni dovessero essere non più di 12. Poi nella Costituzione erano diventate 14 più 5, quelle a statuto speciale. La quindicesima regione a statuto ordinario, il Molise, era stata istituita nel 1963.
La Costituzione aveva previsto le regioni come un modo per integrare la democrazia attraverso il pluralismo. C’era stato poi quello che il costituzionalista Leopoldo Elia aveva chiamato “un eccesso di continuismo”. Si era voluto continuare con lo Stato centralizzato. E solo a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta era cominciato il disgelo costituzionale. Erano gli anni degli interventi settoriali nel campo dell’edilizia economica, popolare ed ospedaliera, della riforma agraria e delle pianificazioni per le ferrovie, gli acquedotti, le opere portuali ed a sostegno dell’occupazione; su questi piani si era innestato lo “Schema Vanoni” per il periodo 1955-1964, prima esperienza programmatoria nel campo dello sviluppo del reddito, dell’occupazione e della riduzione dello squilibrio tra l’economia meridionale e le zone centro-settentrionali del Paese. Era seguita nel 1962 la “Nota aggiuntiva” che accanto agli squilibri tra Nord e Sud del Paese e tra agricoltura e industria, aveva rilevato anche quello tra consumi privati e impieghi sociali del reddito. Si era tentato di ricondurre ad unità gli interventi e le programmazioni di settore. Ma ben presto ci si era accorti che un piano nazionale e la legislazione di settore difficilmente avrebbero potuto promuovere uno sviluppo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Era cominciato così a crescere il consenso attorno alla pianificazione regionale, intesa come specificativa della pianificazione nazionale sul terreno locale, e nella capacità delle forze locali di rimuovere gli ostacoli di struttura che impedivano lo sviluppo economico equilibrato. Erano nati i primi piani regionali (Sardegna, Calabria, Sicilia, Umbria, Trentino Alto Adige), senza una comune metodologia, non coordinati coi piani dello Stato e suscettibili di produrre interferenze con la programmazione di livello nazionale. A cui corrispondevano, come strumenti di elaborazione e controllo dal basso, i Comitati regionali per la programmazione economica.
Nel 1962 la scuola media unica era stato uno dei grandi cambiamenti del secondo dopoguerra. Aveva fatto seguito il movimento del ’68 e si era affermata, sotto la pressione di tutte le forze politiche, l’idea che bisognasse fare le regioni – riprendendo lo slogan di quell’epoca – “per la salvezza dello Stato”. Alla base di quella idea c’era la concezione dell’esercizio dell’autonomia come capacità di farsi carico di una funzione nazionale. Funzione nazionale, infatti, non vuol dire statale: vuol dire svolgere qualcosa che riguarda tutte le regioni insieme che operano come un tutt’uno. Naturalmente con tutte le diversità che ci sono e che non devono essere eliminate.
Tutti i partiti avevano cercato di dare l’impressione di essere stati regionalisti e autonomisti da sempre. In realtà pochi lo erano davvero. La Dc era stata inizialmente la forza politica più aperta alle autonomie assieme ai repubblicani e al Partito d’Azione ma poi, giunta al governo, aveva abbandonato quelle posizioni per non concedere spazio ai comunisti nella gestione del potere in periferia. Viceversa, il Pci, originariamente su posizioni centralistiche in linea con il movimento operaio internazionale, dagli inizi degli anni sessanta in poi aveva incominciato a guardare al regionalismo come ad una opportunità per acquisire nuove postazioni di forza in periferia. I socialisti, invece, dopo aver condiviso coi comunisti l’impostazione centralistica, avevano intravisto nella regione l’elemento cardine della programmazione economica e dei piani di sviluppo in quanto ad essa sarebbero state affidate le leve decisionali.
Un’altra questione che spesso si trascura quando si affronta la storia della regionalità italiana è il fatto che la configurazione delle regioni – il loro ritaglio adottato dalla Costituzione – ricalca i compartimenti statistici disegnati nel 1863 da Pietro Maestri e Cesare Correnti. Si tratta di due grandi personaggi del nostro Risorgimento che avevano posto le basi dell’organizzazione statistica dello Stato italiano. E i compartimenti erano stati identificati prendendo a riferimento le legioni, così come erano previste in base all’ordinamento militare della Roma imperiale. Pertanto, le regioni non erano state disegnate in funzione dei compiti cui venivano chiamate. Ne parla il geografo Lucio Gambi in L’equivoco tra compartimenti statistici e regioni costituzionali (Fratelli Lega, 1963). Le regioni erano state ritagliate come meri aggruppamenti di un certo numero di province vicine, di unità puramente amministrative e non già come territori in grado di riflettere i modelli di vita e di lavoro delle persone.
Eppure il dibattito alla Costituente aveva visto emergere concezioni moderne di regionalità, come quelle di Gaetano Salvemini o di Adriano Olivetti. Il giurista Giovanni Miele, all’interno del Commentario sistematico alla Costituzione italiana, diretto da Piero Calamandrei e Alessandro Levi (Barbera Editore, 1950), dopo aver elencato alcuni studi che avevano alimentato il dibattito sull’ente regionale in Assemblea costituente, ritiene meritevole di “un posto a parte” il libro di Olivetti L’ordine politico delle Comunità (Nuove Edizioni Ivrea, 1945), poiché, “con originalità ed elevatezza di idee, inquadra il problema del decentramento in una visione integrale e coerente della struttura sociale”. Per Olivetti “gli Stati regionali saranno determinati, nella grande maggioranza, secondo criteri storici o economici-geografici e in guisa da costituire unità da tre a cinque milioni di abitanti circa”.
Gambi traccia anche una distinzione tra “regionalizzazione” e “regionalismo”. La prima va intesa come “operazione di cui qualunque Stato in ogni epoca si è servito per dare una certa misura di uniformità istituzionale e di organicità territoriale alle forze umane che lo formano. In tal caso è il vertice dei poteri dello Stato che decide e disegna, secondo suoi criteri e fini, la regionalizzazione che il progredire delle strutture terziarie caratterizzanti lo Stato moderno ha portato poi ad essere via via più complessa e minuta ed embricata[…].Il regionalismo, per l’opposto, è quel genere di regionalità che dà veste istituzionale a corpi etno-culturali ben definiti, o che quanto meno riguarda aree che esistono con una loro ben marcata individualità etno-culturale, prima di essere incorporate in una regionalizzazione […]”. Le scelte della Costituente, in base alla distinzione effettuata da Gambi, s’inquadrano inequivocabilmente in un processo di regionalizzazione.
Abbiamo, dunque, in origine un’impostazione di mera regionalizzazione dei poteri centrali dello Stato, realizzata con un enorme ritardo e una marcata lentezza rispetto alla data di proclamazione della Costituzione. Le regioni, infatti, hanno una dotazione di funzioni molto rallentata: un primo trasferimento di funzioni da parte dello Stato avviene nel 1972 e un secondo nel 1977. Il servizio sanitario nazionale viene riformato nel 1978. Poi ci saranno i decreti legislativi Garavaglia del 1992 e 1993. E un ulteriore trasferimento nel 1998. Con la riforma costituzionale del 2001, si completa la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. Per quanto riguarda le strutture, il cambiamento più significativo avviene nell’ultimo decennio del secolo scorso con la presidenzializzazione delle regioni. Questa doveva essere la sperimentazione di un meccanismo da introdurre poi anche all’interno dello Stato. Dal punto di vista della funzionalità delle regioni, il processo di regionalizzazione si può suddividere in due parti: nel primo trentennio si mettono le basi. Poi c’è un secondo ventennio, quello che si apre col nuovo secolo, in cui le regioni cominciano ad operare al ritmo spedito di regioni presidenziali, dotate di tutte le funzioni.
Una regionalizzazione inefficiente
Dal punto di vista dell’efficienza, si possono fare tre considerazioni. La prima si lega ad un discorso del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi all’Assemblea costituente il 29 gennaio del 1948. Siamo in uno degli ultimi giorni dei lavori e si discute dello statuto della regione Trentino-Alto Adige. De Gasperi dice le seguenti parole: “Le regioni si salveranno, dureranno, resisteranno, solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale. Migliori soprattutto per quanto riguarda le spese”. Si tratta di una affermazione fatta in termini generali, una parentesi, fuori dal contesto specifico, perché si riferisce a tutte le regioni. Se prendiamo a riferimento l’obiettivo individuato da De Gasperi per valutare l’operato delle regioni, si può con tranquillità affermare che quel risultato non è stato conseguito. Le regioni non ce l’hanno fatta ad essere migliori della burocrazia statale, specialmente per quanto riguarda l’efficienza della spesa.
La seconda considerazione riguarda l’espletamento delle funzioni. Le regioni sono state pensate come corpi legislativi e non come corpi amministrativi. L’art. 118, ultimo comma, della Costituzione promulgata nel 1947 dispone: “La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”. Dietro a questa norma, c’è l’idea che non si dovesse costituire una quarta burocrazia. Avevamo una burocrazia dello Stato, quella del parastato, quella locale. E non si voleva costituire una burocrazia regionale. Anche per quanto riguarda questo obiettivo, le regioni non ce l’hanno fatta. Esse oggi sono principalmente dei grandi corpi amministrativi. E con la riforma costituzionale del 2001 è addirittura scomparso ogni riferimento alla delega delle funzioni amministrative agli enti subregionali.
La terza considerazione è riferita all’idea di regionalizzazione come strumento di coesione nazionale. Nella Costituzione del 1947 il Mezzogiorno e le Isole venivano menzionati all’articolo 119, terzo comma: “Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”. Si pensava, infatti, che l’unità politica del Paese non fosse stata accompagnata da un’unità economica, e che si dovesse superare il divario. Con la riforma costituzionale del 2001, la menzione stessa del Mezzogiorno scompare, convinti che le regioni fossero di per sé un fattore di unione dello Stato. Invece lo Stato è ancora disunito e c’è ancora un forte divario tra le regioni del Centro-Nord e le regioni del Sud. Con il ciclo di globalizzazione avviatosi dopo la caduta del Muro di Berlino e, successivamente, con l’allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’est, la comparsa imperiosa delle economie emergenti nel commercio internazionale, le grandi innovazioni a matrice digitale, le regioni italiane più fragili si sono ulteriormente indebolite. Ne parla in modo approfondito l’economista Gianfranco Viesti in Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Editori Laterza, 2021). La pandemia da Covid-19 ha messo crudamente in risalto le disparità, le contraddizioni e i conflitti territoriali all’interno del Paese. Scrive Viesti a questo proposito: “Dal punto di vista dei processi decisionali, i provvedimenti di limitazione agli spostamenti e di sospensione di alcune attività economiche hanno interessato in una prima fase l’Intera Italia, benché la circolazione virale fosse nettamente più estesa nelle aree più forti; solo quando l’epidemia ha interessato tutte le regioni si è deciso di procedere con modalità differenziate”. E in una nota a piè di pagina aggiunge: “Anche considerando la straordinaria difficoltà nel processo decisionale per l’incremento repentino dei contagi, e l’opportuno indirizzo di privilegiare considerazioni di natura sanitaria e interventi precauzionali, resterà per sempre il dubbio di che cosa sarebbe stato deciso se la prima fase dell’epidemia fosse invece stata concentrata nel Centro-Sud”. Dunque, anche riguardo all’aspettativa di un riequilibrio territoriale, le regioni non ce l’hanno fatta a raggiungere l’obiettivo di rendere il Paese più coeso.
L’autonomia regionale e il disavanzo dei conti pubblici
Nel 1970 si creano le regioni e già a partire dal primo shock petrolifero, quello del 1973-74, il dissesto dei conti pubblici diventa “l’emergenza” per il nostro Paese. La crisi economica degli anni settanta determina un rallentamento della crescita del reddito nazionale, a fronte di un volume di spesa pubblica crescente e difficilmente controllabile per dinamica e composizione qualitativa.
Si pone, quindi, all’attenzione dei Paesi industrializzati il problema del “disavanzo” nel sistema dei conti pubblici, oltre quello strettamente connesso delle politiche di bilancio e delle decisioni sull’allocazione delle risorse e dei meccanismi di scelta della spesa pubblica.
Le aspettative coltivate negli anni Sessanta nell’assegnare alle regioni un ruolo fondamentale nella programmazione della spesa pubblica a fini di sviluppo nel medio periodo sono ben presto frustrate dal conflitto che insorge tra approccio programmatico e utilizzo della spesa pubblica a fini di manovra anticongiunturale di breve periodo. Come scrive Nicola Parmentola in Origine e crisi della programmazione di bilancio (F. Angeli, 1988): “Già in partenza, le esigenze di programmazione sembravano costituire un problema di secondaria importanza”.
Le leggi n. 468 del 1978 e n. 362 del 1988 inseriscono nella procedura programmatoria le regioni e gli enti locali, così rispettando quell’autonomia che la Costituzione garantisce a questi enti. “È però vero – come sostiene Franco Gaboardi in Regioni. Dalla storia alla governance europea (Giuffrè, 2018) – che sul piano pratico i risultati non sono all’altezza delle aspettative. […] Il metodo della programmazione non coordina gli interventi dell’azione regionale e i programmi di sviluppo incontrano grosse difficoltà fin dall’inizio, innestandosi nell’ambito nazionale della programmazione di settore”. Le regioni, inoltre, non assumono il ruolo di indirizzo e coordinamento nei confronti degli enti locali, adottando vincoli di destinazione e controlli analoghi a quelli dello Stato, incompatibili con l’ordinamento istituzionale ispirato all’autonomia e al decentramento. La “gestione per materie” ostacola la flessibilità nell’attribuzione delle competenze, che è richiesta quando gli uffici sono chiamati a sviluppare complessi programmi e progetti di attività. La stessa formazione ed estrazione dei funzionari privilegia sempre una “cultura giuridica” che incide molto sull’impiego dell’analisi economica (e matematica) nei processi decisionali.
Infine, lo sviluppo delle autonomie regionali risente di un sistema politico ancora fortemente accentrato. Questo stesso sistema, guidato dai partiti politici nazionali dotati di forti organizzazioni di tipo centralistico, impedisce sotto il profilo regionale e locale, l’emergere di classi politiche autonome o soltanto qualitativamente diverse da quelle di altre regioni. E così il sistema politico regionale è un sottoprodotto di quello nazionale, di cui accentua – se possibile – i difetti. Ne parlano con dovizia di argomenti, tra gli altri, Luigi Mariucci in Per una repubblica delle regioni. Disegno strategico della riforma istituzionale e riforme a breve termine (in Regione e governo locale, 1994, n. 4) e Franco Bassanini in La repubblica delle autonomie: rilancio o declino (in Democrazia e diritto, 1985, n. 1).
La politica agricola come terreno di conflitto tra Stato e regioni
La politica agricola costituisce, fin dall’inizio del processo di regionalizzazione, l’ambito in cui si manifestano le maggiori discrepanze e criticità nel rapporto tra le regioni e lo Stato. Nell’esaminare succintamente questi aspetti, vanno tenute in conto alcune peculiarità settoriali. In primo luogo, le amministrazioni regionali dell’agricoltura sono investite, fin dall’insediamento delle regioni, di compiti di programmazione e di gestione. Ma tali compiti, in assenza di risorse proprie e di un coordinamento effettivo di livello nazionale, risultano immediatamente di difficile attuazione. Si sguarniscono, infatti, le amministrazioni centrali delle professionalità più qualificate proprio nel momento in cui i dirigenti più preparati avrebbero dovuto svolgere un efficace coordinamento del trasferimento delle competenze dallo Stato alle regioni. Ad esempio, ai dirigenti dello Stato vengono riconosciuti sette anni di “abbuono” ai fini del prepensionamento. E molti di loro vanno in quiescenza anticipatamente. Nello stesso periodo, le regioni prevedono per i loro dirigenti stipendi molto elevati, incentivando così il passaggio degli statali nei ranghi regionali senza alcun disegno preordinato.
L’altra specificità agricola è che i responsabili politici e, ancor più, i dirigenti amministrativi regionali entrano ben presto in contatto con l’impostazione, le regole e gli strumenti della politica agricola comune e si coordinano tra loro per acquisire competenze e informazioni ed elaborare documenti di riflessione e di critica alle indicazioni nazionali e comunitarie.
Eppure, a ricoprire tra il 1974 e il 1980 il ruolo di ministro dell’Agricoltura è Giovanni Marcora, unanimemente considerato la personalità politica che più di altre si sia impegnato nel costruire una politica agricola nazionale. La sua concretezza e, nel contempo, capacità di visione si notano immediatamente nei primi atti di governo in cui vengono posti al centro l’Europa e il protagonismo italiano nell’arena comunitaria. Lo storico Emanuele Bernardi ricostruisce le varie fasi dell’impegno del politico democristiano nel saggio Marcora ministro dell’Agricoltura. Politiche agricole e ambientali tra Italia ed Europa nell’ambito del volume Giovanni Marcora. Milano, l’Italia e l’Europa, curato dallo stesso Bernardi (Rubbettino, 2010).
Nel secondo semestre del 1976, Marcora svolge con grande dinamismo e accortezza la funzione di presidente di turno dei ministri agricoli della Comunità europea. Come scrive Bernardi, “le istituzioni europee che [il ministro] impara a conoscere a Bruxelles sono l’espressione di un’Europa che sta diventando potenza agricola sullo scenario internazionale, e che si sta interrogando, allo stesso tempo, sui limiti dello sviluppo economico”. Con gli anni Settanta si apre in effetti una terza fase dello sviluppo agricolo contemporaneo, caratterizzata dall’attenuarsi dell’egemonia americana e dall’inizio di una “multipolarità dello sviluppo nel settore primario”. Questa espressione è utilizzata dall’economista agrario Guido Fabiani nel saggio Un ciclo comune nell’evoluzione dei sistemi agricoli, nell’ambito del volume Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione”, curato da Pier Paolo D’Attorre e Alberto De Bernardi (Feltrinelli, 1994).
La costituzione di un sistema agricolo europeo comunitario, contraddistinto da un’intensa crescita degli scambi, pur differenziata al proprio interno, crea per la prima volta un grande blocco, capace – per dimensioni del mercato, investimenti e livello tecnologico – di interagire su basi paritarie con quello statunitense. Un forte flusso di innovazioni tecnologiche, una crescente integrazione settoriale e significativi incrementi di produttività caratterizzano questo processo di consolidamento europeo, non accompagnato tuttavia da una crescita equivalente del reddito agricolo e causa di un eccesso di offerta per molti importanti prodotti agricoli. Al superamento di questi limiti è rivolta l’azione di Marcora, convinto che il processo di costruzione di un’”Europa verde” abbia perso la spinta e la forza iniziali. Egli scrive nell’opuscolo Un dossier per il domani. L’agricoltura nel processo di crescita dell’economia italiana (Grafiche Palombi, 1976): “La PAC è diventata più una politica di tutela degli interessi che d’innovazione, più un tentativo di salvaguardare quello che sinora si è realizzato che un’azione di miglioramento degli strumenti operativi utilizzati”. E tuttavia proprio la crisi economica, che l’Italia sta vivendo in quel periodo, lo spinge a non lasciarsi incantare dall’idea di un impossibile ritorno all’autarchia e a confermare, invece, la scelta strategica dell’integrazione europea da realizzare con equità. Presta particolare attenzione alle politiche strutturali che si stanno predisponendo e cerca di costruire convergenze soprattutto con la Gran Bretagna, con la speranza di sviluppare una politica regionale europea a favore delle regioni meno sviluppate e di imporre un taglio diverso alla PAC.
Marcora è consapevole che una ristrutturazione dell’agricoltura italiana passa attraverso una riorganizzazione dell’amministrazione. E così quando si passa all’attuazione della legge delega del 22 luglio 1975, n. 382, “Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione”, egli propone una nuova impostazione dei rapporti tra governo centrale e regioni. Il giurista Carlo Desideri in L’amministrazione dell’agricoltura (1910-1980) (Officina edizioni 1981) sintetizza la proposta marcoriana “nella tendenza del ministero a riappropriarsi di larga parte del potere decisionale in materia agraria e a divenire il vertice reale di un sistema procedurale di programmazione tra centro e periferia dello Stato”. Per tentare di realizzarla, il ministro deve convincere innanzitutto ampi settori del suo stesso partito, come si evince dal discorso che pronuncia al XIII Congresso della Dc il 21 marzo 1976. “Siamo il Parlamento che sforna più leggi del mondo – ammonisce – facendo aumentare solo le entrate dei consulenti che le stesse leggi devono interpretare. Più tasse, più serietà contro l’evasione ma altrettanta serietà nel sistema dello Stato, perché, quando le leggi sono fatte, vengano attuate. […] La cosa più umiliante per me a Bruxelles è stata quella di ascoltare dai nostri partners la frase: «Diventa monotono, signor Ministro, non insista; tanto il suo Paese non sa spendere i soldi che la Comunità gli mette a disposizione». […] Occorre la collaborazione di tutto l’apparato dello Stato, dove ho potuto verificare che esistono uomini validi, capaci, onesti. Occorre che tutti si rendano conto che disfacendo lo Stato, bloccando le pratiche, si distrugge il reddito e, alla lunga, essi stessi ne pagano le conseguenze. […] Se vogliano conservare la democrazia, bisogna tornare all’esaltazione del lavoro, alla selezione delle capacità, occorre provvedere a salvaguardare coloro che, per condizioni oggettive, hanno bisogno del sostegno, della solidarietà di tutti”. Il 1° ottobre 1976 Marcora si rivolge al Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, con una lunga lettera. “Caro Presidente – esordisce – debbo esprimerti la mia profonda perplessità ed insoddisfazione per i modi secondo i quali si va svolgendo l’azione del Governo per quanto riguarda i problemi dell’agricoltura e dell’alimentazione affidati alla mia responsabilità, tenuto conto che ho ormai messo a punto adeguate ed organiche proposte in linea con il contesto agricolo del programma di Governo”. L’insoddisfazione del ministro dell’Agricoltura trae origine dall’esito della discussione governativa sui primi due provvedimenti presentati fino a quel momento al Consiglio dei Ministri, ovvero la riforma dell’Aima e il rifinanziamento del Fondo di solidarietà nazionale. “Per la riforma dell’Aima, inserita nei programmi di governo fin dal 1968 e mai attuata – scrive Marcora – mi vedo costretto a prendere atto che lo schema legislativo presentato dal mio Ministero, e quindi la nuova Aima, sono stati praticamente ed irrazionalmente svuotati di logica e di contenuti, visto che sarebbero stati sottratti poteri al ministero dell’Agricoltura in favore del Comitato interministeriale per la politica agricola e Alimentare (Cipaa), con conseguenti difficoltà per il primo di svolgere i compiti propri nel campo della politica agricola ed alimentare di cui deve restare il principale responsabile nel quadro della politica governativa. Svuotando l’Aima e il ministero di poteri di intervento sui costi di produzione in agricoltura, non è possibile dunque raggiungere l’obiettivo della riforma, ossia creare un organismo in grado di incidere profondamente sulla attuale realtà dando luogo ad una vera e propria svolta in questo campo”. L’ultimo punto, non meno importante, della lettera è la questione dei rapporti tra i poteri centrali e le regioni. “Sono il primo a riconoscere – scrive il ministro – la funzione primaria, legislativa ed operativa, e la conseguente responsabilità delle Regioni in campo agricolo. Tuttavia, così come quei rapporti si sono venuti definendo non si può andare avanti. Non si può, cioè, consentire che ogni Regione si muova autonomamente e per suo conto, disapplicando o ritardando determinate impostazioni comunitarie o nazionali e dando luogo a provvedimenti al di fuori o addirittura in contrasto con quei criteri generali. Occorre trovare la maniera per stabilire un accordo tra i diversi livelli di Governo, non tanto per comprimere l’iniziativa regionale ma per chiamarla a contribuire, anche attraverso i necessari coordinamenti, alla iniziativa generale”. Infine, la missiva si chiude così: “Sono profondamente rammaricato, caro Presidente, del fatto che mi sia visto costretto ad inviarti questa lettera, peraltro giustificata dalla importanza dei temi. Ti prego di riflettere attentamente su quanto ti ho segnalato e di farmi avere il tuo pensiero in proposito perché anch’io possa a ragion veduta assumere le mie responsabilità. Ti prego, intanto, di gradire i più cordiali saluti”.
Alla fine del 1976, Andreotti dedica, coi ministri interessati, alcune riunioni ai temi dell’agricoltura. E il 17 dicembre, ammettendo una sottovalutazione di fondo delle potenzialità del settore, annota nel suo diario: “Forse non riflettiamo sempre all’importanza di questo settore primario. Marcora vorrebbe maggiori fondi ma le difficoltà sono quelle che sono. D’altra parte vorrei esser sicuro che gli stanziamenti saranno effettivamente spesi nei tempi fissati”.
Nel 1977 Marcora avvia il primo tentativo serio di programmazione nel settore agricolo, proponendo e facendo approvare dal Parlamento la legge Quadrifoglio. Tale provvedimento prevede l’approntamento del Piano agricolo nazionale e, in coerenza con esso, l’approntamento da parte delle regioni dei piani di settore. E dopo aver costruito una solida intesa con il governo francese e con l’insieme delle organizzazioni agricole italiane, porta a casa il Pacchetto Mediterraneo, nonché alcune misure per il rimboschimento delle regioni aride del Mezzogiorno e i servizi di assistenza tecnica per le imprese agricole. Questi provvedimenti, unitamente alla manovra sui prezzi agricoli basata sulla svalutazione della “lira verde”, contribuiscono a mutare a favore dell’Italia le ragioni di scambio della produzione agricola e consolidano la posizione dell’Italia in Europa.
Nonostante le critiche e l’opposizione di Marcora, con il decreto del Presidente della Repubblica del 24 luglio 1977, n. 616, sono affidate alle regioni diverse competenze in materia ambientale, ricerca scientifica, trasporti, e il ministero dell’Agricoltura è privato di una parte dei poteri di ispezione sull’alimentazione. Il ministro minaccia le dimissioni ma non riesce a bloccare il processo che porta, nel giro di un anno, a una “destabilizzazione” della struttura amministrativa dello Stato, ritenuta più grave di quella provocata dalle Br. “L’Italia è stata presa dalla libidine di distruggere” recita il titolo di un articolo apparso sul Giornale il 10 giugno 1978 che affronta l’argomento.
Andreotti e i vertici democristiani non perdonano a Marcora il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti della devoluzione dei poteri statali alle regioni. Ed è per questo motivo che, quando nel 1980 viene varato il governo Forlani, l’esclusione di Marcora non appare affatto una sorpresa. Le reazioni più critiche alla sua sostituzione al ministero dell’Agricoltura non vengono solo dai comunisti, ma anche dall’Europa. Il vice presidente della Commissione europea, Francois-Xavier Ortoli, così commenta il ricambio: “Solo l’Italia, credo, sa offrirsi il lusso di lasciar fuori dalla direzione del Paese un uomo di quella competenza”.
La contrapposizione tra le regioni e lo Stato sulle competenze in materia di “agricoltura” divampa ancor più senza Marcora. Il conflitto si esprime con numerosi ricorsi alla Corte costituzionale in ordine a diverse tematiche e raggiunge l’apice nel 1992 con la richiesta di un referendum popolare per deliberare l’abrogazione degli atti legislativi, emanati nel 1929, istitutivi del ministero dell’Agricoltura.
L’iniziativa referendaria, avanzata da cinque regioni ed a cui successivamente aderiscono altre undici, ha un risultato largamente favorevole per i proponenti. Tale esito, tuttavia, non provoca una riforma dell’assetto istituzionale dell’agricoltura. La legge di riordino delle competenze, che di lì a poco viene emanata per colmare il vuoto legislativo si limita a cambiare il nome del dicastero in ministero delle Politiche agricole e forestali e ad assegnare maggiori risorse alle regioni. Un’occasione mancata per rafforzare i supporti alle funzioni nazionali di indirizzo e coordinamento e di presidio delle sedi dove vengono definite le politiche unionali e stipulati gli accordi internazionali.
La crisi della rappresentanza agricola
La conflittualità tra le regioni e l’amministrazione centrale dell’agricoltura è il segnale di una crisi epocale della rappresentanza che investe non solo a livello nazionale, ma anche a quello globale, sia le istituzioni che le organizzazioni dell’agricoltura. Il primario non è più un mero settore produttivo ma il crocevia di problemi complessi e globali che vedono al centro i cittadini e le popolazioni in quanto tali. Si amplifica la questione demografica. Scrive il demografo Massimo Livi Bacci in Il pianeta stretto (Il Mulino, 2015): “Il pianeta stretto: mille volte più affollato, mille volte più stretto. Ancora sul pendolo della paura, tra sovrapopolazione e spopolamento. In questo scenario si collocano questioni e problemi di natura demografica che pregiudicano lo sviluppo e la sua sostenibilità, l’ordine politico, i rapporti tra paesi”. Nei fenomeni demografici s’inseriscono, infatti, quelli migratori che creano nuove opportunità e, nel contempo, mettono alla prova la tenuta delle democrazie. In tale quadro, si accentuano gli squilibri tra risorse e popolazione che si possono, tuttavia, colmare solo con il progresso scientifico e tecnologico e, contestualmente, un nuovo multilateralismo internazionale, da costruire sulle ceneri del vecchio ordine crollato con il Muro di Berlino.
Un sistema è multilaterale quando tutti gli attori che lo costituiscono accettano di operare all’interno di regole condivise, sapendo che l’esito delle loro negoziazioni terrà in considerazione i legittimi interessi di ognuno. Nel periodo della Guerra Fredda, gli Usa avevano promosso un sistema multilaterale nella loro area di influenza mentre, con la potenza rivale (l’Unione sovietica), il rapporto era stato invece avversariale (e comunque bilaterale). Peraltro, l’esistenza del nemico esterno (nell’altra area di influenza) risultava utile per consolidare il multilateralismo (nella propria area di influenza). Con la fine della Guerra Fredda, l’America può estendere il sistema multilaterale sul piano globale, con la partecipazione attiva degli eredi della vecchia Unione Sovietica (Russia) e della nuova potenza in ascesa (Cina). Prospettiva che non si realizzerà perché sia l’America, che la Cina e la Russia si consolideranno come grandi potenze. La logica della grande potenza si basa sul seguente assunto. Se è possibile soddisfare i miei interessi all’interno del sistema multilaterale, bene. Altrimenti, li soddisfo operando al di fuori di esso. Ed è ciò che faranno l’America, la Cina e la Russia nei decenni successivi alla fine della Guerra Fredda. In tale schema, i problemi agricoli e alimentari, per loro natura globali, non saranno mai affrontati nella loro complessità, ma volta per volta strumentalizzati dai vari attori secondo la logica della grande potenza. E per l’Unione europea costituirà un fattore di debolezza la scelta compiuta con il Trattato di Maastricht di rinunciare all’unione politica, dando vita solo a quella economica e monetaria. Un’Europa senza testa politica potrà svolgere solo il ruolo di potenza normativa e civile e si affiderà alla potenza militare dell’America. In tale condizione, non sarà in grado di tutelare adeguatamente la propria agricoltura nello scenario globale.
Sul piano interno, la crisi di rappresentanza del mondo agricolo è aggravata dalla crisi del sistema politico travolto da Tangentopoli e, prima ancora, dal fallimento della Federconsorzi. Vicenda scandalosa, ancora non chiarita sul piano giudiziario, e che fa venir meno un patrimonio imponente di strumenti economici, la cui mancanza negli anni decisivi della progressiva apertura dei mercati priva l’agricoltura italiana di una parte rilevante delle strutture organizzative necessarie per competere, con minori rischi e più opportunità, con altri paesi meglio attrezzati del nostro. In tale clima, prevale nelle organizzazioni la preoccupazione di adattarsi nel modo meno arrischiato al nuovo scenario politico che si va delineando. E l’eccessiva prudenza le porta perfino al disimpegno nel referendum per l’abolizione del ministero dell’Agricoltura.
Colte di sorpresa dall’esito del voto, saranno poi le prime a sostenere per il nuovo ministero la soluzione gattopardesca del “tutto cambi perché nulla cambi”. In un mondo vertiginosamente in moto, tutte si spendono non già per adeguare i propri indirizzi programmatici e organizzativi e accompagnare da protagoniste le novità, ma solo per conservare rendite di posizione e privilegi. Sicché, le campagne e gli agricoltori vengono abbandonati sempre più a sé stessi.
Le ragioni del fallimento della politica agricola nazionale e regionale
Le considerazioni più acute sui forti limiti della politica agricola nei primi vent’anni del processo di regionalizzazione sono formulate dall’economista agrario Alessandro Bartola, scomparso nel 1993 e molto attento nelle sue ricerche al nesso tra trasformazioni sociali e riforme istituzionali. Ne parlano l’economista agrario Franco Sotte in Sviluppo economico, agricoltura e politica agraria. L’attualità del pensiero di Alessandro Bartola (in La Questione Agraria, 1996, n. 62, e, poi, con lo stesso titolo, in Agriregionieuropa, Settembre 2013, n. 34) e lo storico Simone Misiani in Alessandro Bartola e la scuola di Ancona di economia agraria (in Agriregionieuropa, Dicembre 2018, n. 55).
Nella relazione al Convegno Programmare lo sviluppo: una nuova politica agricola comune per una nuova Europa (Ancona, 25-26 novembre 1983), Bartola dice: “La nuova Pac potrà pure spostare il baricentro in favore della politica delle strutture, magari articolata regionalmente e verso una politica dei prezzi più equa e quindi più favorevole alle produzioni mediterranee, ma a poco varrà per la riconversione produttiva se le regioni non sapranno dotarsi di istituti e di personale altamente qualificati per regolare attivamente il cambiamento e curare l’elasticità di risposta delle strutture produttive. Fin quando si disporrà di strutture burocratiche capaci solo di accompagnare le tendenze spontanee, l’esito del processo competitivo è del tutto scontato: quote elevate di ‘agricoltura’ continueranno a procedere verso l’emarginazione e l’unico effetto ‘positivo’ sarà di aver ripartito con altri il costo finanziario dell’emarginazione”. Lo studioso critica la mancanza di un “controllo direzionale” nel processo di razionalizzazione dell’azione amministrativa e di una “pianificazione strategica”, sostituita dall’amministrazione statale e dalle regioni con voluminosi studi (i cosiddetti “libri dei sogni”) spesso poco attenti alla implementazione delle proposte formulate. Egli suggerisce di concentrare lo sforzo nell’attività di “monitoraggio continuo dello stato del sistema” al fine di scegliere tempestivamente la “prima mossa” per poi procedere iterativamente con successive “correzioni di rotta” secondo un processo di “regolazione-attivazione”. Secondo l’economista agrario l’amministrazione pubblica dovrebbe applicare diversi modelli di programmazione a seconda delle situazioni concrete dei territori e dei sistemi imprenditoriali, ma ciò cozzerebbe con una serie di “difficoltà operative perché […] gli apparati politici e burocratici formatisi professionalmente e culturalmente sulla gestione delle incentivazioni finanziarie generalizzate sarebbero chiamati ad un mutamento profondo di mentalità; [e difficoltà politiche perché] le trasformazioni richieste si traducono in consistenti trasferimenti di ‘potere concreto’ tanto politico quanto amministrativo dal centro alla periferia ed in sensibili riduzioni degli attuali margini di discrezionalità nelle applicazioni delle disposizioni amministrative e legislative”.
A queste difficoltà Bartola fa riferimento anche in altre occasioni. Nella relazione La programmazione zonale nell’esperienza delle Regioni italiane, presentata al convegno su La pianificazione zonale agricolo-forestale (Pisa, 20-21 giugno 1985), egli dice: “L’ostacolo più rilevante che si frappone alla realizzazione di una svolta decisiva nel metodo di gestione dell’operatore pubblico è costituito dall’attuale assetto organizzativo ed istituzionale [per cui] il processo di adeguamento non sarà indolore e, siccome dovrà avvenire in tempi non lunghissimi, potrà essere affrontato solo da una classe dirigente (politica ed amministrativa) che, oltre a credere profondamente nel valore gestionale e politico della programmazione, possegga le necessarie capacità manageriali”.
Bartola rileva la mancanza di adeguate basi informative nei sistemi decisionali della pubblica amministrazione. Nella relazione I sistemi informativi di politica economica e di politica agraria, svolta nell’ambito del Convegno su Informatica in agricoltura (Verona, 23 gennaio e 27 novembre 1987), egli dice: “La mancanza di conoscenze porta inevitabilmente all’allungamento dei periodi di attesa, a scelte generiche, miopi, spesso contraddittorie e quindi dannose. Una decisione di politica economica presa al di fuori di un sistema informativo adeguato rischia non solo di essere inefficace, ma di peggiorare il male che intende curare. Il nostro futuro sarà sempre più caratterizzato da un considerevole aumento nella complessità di funzionamento di tutti i sistemi (dall’impresa all’economia nel suo insieme). L’aumento di complessità porterà con sé un aumento di incertezza: l’errore decisionale sarà sempre più probabile”.
Il ricercatore marchigiano denuncia, inoltre, lo scollamento tra programmi pubblici e programmi privati a proposito delle contabilità agrarie. Nella relazione L’informatica nella gestione dell’azienda agricola, svolta nell’ambito del convegno su L’impiego dell’informatica nel processo decisionale in agricoltura (Bari, febbraio 1989), Bartola dice: “Quanto è successo nel nostro Paese con la contabilità agricola dovrebbe costituire un severo monito: qualora il riferimento centrale di questo tipo di innovazioni non è costituito dalle necessità dell’impresa e calibrato sulle necessità gestionali dell’imprenditore, anche i più validi strumenti sono votati all’insuccesso”. Il tema viene ripreso nella relazione al convegno su L’assistenza alla gestione nel quadro dei servizi allo sviluppo agricolo (Regione Marche, Ente di Sviluppo, Università di Ancona, Jesi, 14 dicembre 1990). Lo studioso dice: “Se la contabilità non viene proposta e vissuta in funzione gestionale, tutto l’apparato che gira intorno ad essa non serve a nulla se non a sprecare risorse finanziarie e energie umane: non serve agli agricoltori, non serve ai ricercatori, non serve agli Istituti i cui compiti sono appunto la produzione di statistiche né ai policy maker”.
Sintetizzando il pensiero di Bartola, si può dire che l’amministrazione pubblica è venuta meno alla sua funzione perché non ha mai coltivato una visione d’insieme dei problemi e si è raccordata alle imprese con un’ottica assistenziale, spesso permettendo una confusione tra ruoli pubblici e privati. Impedendo così alle imprese agricole di trarre il beneficio e lo stimolo necessari per inserirsi vitalmente nel tessuto economico del Paese.
La riforma del Titolo V parte II della Costituzione
Nei cinquant’anni di vita delle regioni s’incomincia a parlare di federalismo con l’ascesa della Lega Nord nell’Italia settentrionale e, soprattutto, a seguito del suo successo elettorale nelle elezioni regionali del 1991. A più riprese si costituiscono Commissioni bicamerali che accanto al tema della forma di governo affronta anche quello delle regioni. Non si parte mai da un’analisi puntuale e veritiera dell’esperienza regionale, ma esclusivamente dallo scontento delle popolazioni del Nord nei confronti dello Stato centrale.
Come ricorda Antonio Lamantea nel suo pregevole studio antropologico e critico-letterario Risorgimento, Unità, Meridione. Per un’Italia da costruire (Manni, 2012), il fenomeno leghista ha avuto un antefatto, articolato e sostenuto da solida dottrina giuridico-costituzionale, nell’opera e nelle tesi di Gianfranco Miglio. Già a partire dal 1980, lo studioso aveva teorizzato una revisione della Costituzione in chiave federalista come unica soluzione dei problemi della società italiana. I due percorsi fondamentali che egli aveva individuato erano il decisionismo dello Stato sovrano e il pluralismo dei corpi intermedi. E la sua critica al sistema politico della “repubblica dei partiti” era fondata sulla denuncia dei guasti di un modello di sviluppo fondato sull’assistenzialismo e l’”individualismo irresponsabile”.
Nei primi anni Novanta il pensiero politico di Miglio si corrobora di idealizzazioni solidaristiche, nel culto di un’etica civile e nell’attenzione alle politiche sociali. Elementi fatti emergere con forza, nel dibattito pubblico del capoluogo lombardo, per iniziativa del Cardinal Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, il quale, contemporaneamente all’iniziativa culturale svolta dallo studioso, aveva costituito la Commissione “Giustizia e Pace”, con la finalità di potenziare gli aspetti solidali della società, il valore istituzionale dell’associazionismo e la fede del cittadino nello Stato.
Miglio introduce nel suo modello federalistico proprio tali elementi, suscitando così un vivo interesse del mondo cattolico al suo progetto. Non va, peraltro, sottaciuto che l’orientamento federalistico in Italia si era alimentato, fin dal Risorgimento, di apporti notevoli della tradizione cattolica, come quelli di Vincenzo Gioberti e Luigi Sturzo.
Quando Umberto Bossi formalizza nel 1991 il movimento che aveva fondato (la Lega Nord), ha accanto a sé Miglio come curatore del suo programma di riforme istituzionali. Ma il sodalizio tra i due, nel giro di pochi anni, si rompe proprio sugli aspetti solidaristici del modello federalistico. Una rottura che non incrina più di tanto la credibilità del progetto sul piano dell’architettura istituzionale, ma ne fa emergere gli aspetti regressivi, etno-localistici ed egoistici.
L’iniziativa politico-culturale della Lega intende sostituire la “questione meridionale” con la “questione settentrionale”. E, soprattutto, ha la funzione di creare un diffuso sentimento di ostilità verso tutto ciò che vuol “entrare” nel Nord dall’esterno, creando lo spazio di una secessione di fatto nei sentimenti e nelle relazioni umane. Come scrive il filosofo Biagio de Giovanni in A destra tutta. Dove si è persa la sinistra? (Marsilio, 2009), la Lega si colloca dal punto di vista della realtà delle cose, si fa tutt’uno con questa, dando coscienza unitaria a forze disperse e malcontente, d’improvviso riflesse e rappresentate in quella sollevazione primitiva che segna la grande discontinuità (dopo quella di Tangentopoli che aveva intaccato solo la forma politica) con la sostanza storica delle analisi fondamentali della Prima repubblica.
Alla pressione esercitata dalla Lega Nord il centrosinistra risponde con la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata dal Parlamento nel 2001 e confermata con un referendum a cui partecipa solo il 34 per cento degli aventi diritto. Una vera e propria iattura che introduce un modello di rapporto Stato-regioni inefficiente e capace di inceppare il funzionamento delle istituzioni. Si separano, infatti, in modo netto le competenze dello Stato e quelle delle regioni: lo Stato fa poche cose di grande rilievo istituzionale (competenza esclusiva dello Stato), le regioni fanno tutto il resto (competenza residuale delle regioni). Poi vi sono un certo numero di materie in cui si genera una sorta di “condominio”, in cui lo Stato fissa i principi fondamentali con le sue leggi lasciando alle regioni la disciplina di dettaglio.
Ma con la competenza di tipo concorrente, si va dritto all’esasperazione del conflitto d’interessi tra poteri. Inoltre, la parte riformata della Costituzione è caratterizzata dalla mancanza di quegli elementi unificanti e di coordinamento. Emerge in modo irrefrenabile il policentrismo autonomistico, con tanti centri di regolazione ma nessun momento unificante e di garanzia. Secondo i dati raccolti dal Sole 24 Ore a settembre 2019, la confusione sulle materie concorrenti produce dal 2001 al 2018 oltre 1.800 ricorsi davanti alla Corte Costituzionale. Nel 2018, le liti fra Roma e le regioni impegnano una sentenza su due della Consulta.
Per evitare che il sistema istituzionale si blocchi, la Corte costituzionale si vede costretta a evidenziare le competenze cosiddette “trasversali”, cioè riservate allo Stato, che però – sentenzia la Corte – non riguardano una materia, un oggetto specifico, ma tagliano trasversalmente più settori. E in questo modo si può consentire allo Stato di intervenire anche in materie che in astratto sembrerebbero riservate alle regioni.
Lo stesso principio di sussidiarietà, che la Costituzione riferisce esclusivamente alla competenza amministrativa, è interpretato dalla Corte costituzionale in modo ampio e flessibile, per spostare la competenza non solo verso il basso, più vicino al cittadino, ma anche verso l’alto, quando cambiano i presupposti storici, economici e gestionali per l’esercizio del potere. E così si può attribuire allo Stato la competenza in materia di tutela della concorrenza e per tutto ciò che riguarda la produzione, il trasporto, la distribuzione dell’energia. In tale quadro, la legge n.239 del 2004, in materia di centrali di produzione energetica, può attribuire i poteri esclusivamente allo Stato, in ragione della loro importanza strategica.
Nel corso della pandemia da Covid 19, il difficile rapporto fra Stato e regioni emerge chiaramente nel rimpallo reciproco di responsabilità e accuse – tanto da spingere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a intervenire per chiedere maggiore collaborazione. Il confronto fra governo centrale e governi locali non si limita però alla dialettica politica. Fin dall’inizio della crisi sanitaria, prende la forma di uno scontro a colpi di ordinanze e ricorsi.
In realtà, le difficoltà di gestione della crisi sanitaria non sono da imputare al Titolo V della Costituzione, né esclusivamente alle regioni. Con una pandemia in corso, la Costituzione vigente consente comunque soluzioni di tipo “centralista”. La lettera q dell’articolo 117 cita espressamente la “profilassi internazionale” tra le materie in cui lo Stato ha competenza esclusiva. E all’articolo 120 c’è scritto che il governo può sostituirsi agli enti locali quando c’è “un pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” oppure quando lo richiedono “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. Ma i rapporti ormai esacerbati tra Stato e regioni suggeriscono un atteggiamento di forte cautela da parte del governo, fino al punto di non avvalersi delle prerogative costituzionali, per evitare contenziosi infiniti che finirebbero per danneggiare i cittadini.
Le regioni e l’uso improprio del termine “federalismo”
Dinanzi a esiti così sconcertanti della riforma costituzionale del 2001, è del tutto improprio parlare di “federalismo” in riferimento all’attuale assetto istituzionale del Paese. Un prototipo del modello federale è stato disegnato alla fine del Settecento negli Stati Uniti d’America da coloro che vi fondarono i principi costituzionali. Dopo un secolo gli Stati Uniti furono teatro di una devastante guerra civile, causata dai movimenti secessionisti del sud, che avrebbero voluto uno Stato confederale.
Il motivo di fondo è rilevante dal punto di vista giuridico. Infatti, nel modello confederale la determinazione dei diritti fondamentali e l’individuazione dei titolari di questi diritti spetta alle Costituzioni dei singoli stati confederati e non alla Costituzione degli Stati Uniti. In tal modo, esse avrebbero potuto riservare, in tutto o in parte, la titolarità e l’esercizio dei diritti fondamentali a certe categorie di persone (si pensi, ad esempio, alle complesse questioni razziali tra bianchi e neri).
Ma vi è un’altra ragione altrettanto importante, quella cioè di stabilire a chi spetti l’esercizio del potere di imporre e riscuotere i tributi. Nel modello confederale, il potere tributario si ritiene che sia legato al territorio, quello del singolo Stato che fa parte della confederazione; poi ogni Stato ha l’obbligo di versare una parte del gettito riscosso alla confederazione, per la copertura delle spese comuni e di quelle delegate dai singoli Stati.
Il modello federale, diversamente, prevede tre tipologie di tributi: una federale, una statale (che corrisponderebbe in Italia alle regioni) e una locale. Le imposte federali devono essere pagate da tutti i contribuenti della federazione, perché hanno lo scopo di finanziare le funzioni federali, compresi i meccanismi di perequazione tra i territori. Le imposte statali (o regionali) gravano sui contribuenti di ciascuna regione (o Stato) per finanziare le funzioni delle regioni (o degli Stati) e delle amministrazioni locali.
Traslando il ragionamento che sorregge il modello confederale nel sistema costituzionale italiano, ne consegue che in quanto cittadini di una regione si è cittadini dello Stato italiano. Cioè, si sviluppa il concetto giuridico di “diritto differenziato”, diritto che nascerebbe prima di una norma che lo applica in concreto, avendo in sé una forza cogente che deriva dalla struttura e dall’organizzazione giuridica di uno Stato. Quindi, il diritto nasce dalla struttura giuridica che è in grado di legittimare le norme, che solo successivamente al diritto concretizzeranno l’affermazione del diritto stesso.
Se, invece, si fa riferimento al modello federale, i cittadini sono al tempo stesso e a pari titolo cittadini della federazione e della regione, della provincia, del comune.
L’analisi teorica di questi modelli indica con sufficiente convinzione che in Italia non si voglia procedere vero una “deriva di tipo confederale”. Il referendum popolare del giugno 20006 aveva evitato che alle regioni fosse attribuita una competenza legislativa esclusiva in materie che riguardassero i diritti costituzionali, come la sanità o l’istruzione, cioè si è evitata l’introduzione del meccanismo cosiddetto di devolution.
Vi è poi un altro punto da non trascurare. Nella riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione manca una clausola che si può definire di “supremazia parlamentare e che è, invece, presente in tutti gli ordinamenti federali. È una clausola che è in grado di rappresentare un’estrema garanzia di universalità per tutti i cittadini di una nazione, indipendentemente dalla regione di residenza. Fino ad ora, l’unica garanzia ispirata a questo modello è quella che fissa i livelli essenziali delle prestazioni e la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, ma di certo, sotto questo profilo, non sembra affatto sufficiente a coprire l’arco dei diritti costituzionalmente garantiti… e ciò potrebbe costituire anche un pericolo insidioso, se non attentamente valutato.
Che fare?
Avviandomi a svolgere qualche considerazione conclusiva dopo questa rapida disamina, potrei, dunque, affermare che le nostre istituzioni complessivamente sono estremamente difettose. L’origine di questa condizione è da ricercare nella formazione dell’Unità d’Italia. La quale era avvenuta dando vita a un ordinamento allo stesso tempo accentrato, perché sospettoso dell’autonomo potere della periferia, e debole, perché poco convinto delle proprie capacità progettuali. In tale quadro, le regioni costituiscono “il detonatore – per usare un’espressione adoperata dallo storico Raffaele Romanelli nel saggio Centralismo e autonomie nell’ambito del volume Storia dello stato italiano. Dall’Unità a oggi, curato dallo stesso Romanelli (Donzelli, 1995) – di problemi di lungo periodo che hanno accompagnato la formazione stessa dello Stato nazionale”. Se si guarda all’intera storia d’Italia, quello che è sempre mancato nel rapporto tra amministrazioni centrali e periferie è uno spirito cooperativo e collaborativo da permettere a ciascun ente di considerare come proprio interesse nazionale farsi carico delle amministrazioni più deboli.
Le regioni avranno senso in futuro se i ceti dirigenti regionali acquisiranno uno spirito coesivo e si daranno obiettivi d’interesse nazionale. Altrimenti, la cosa migliore da fare sarebbe quella di trasformarle in “governatorati” dello Stato centrale. Una soluzione drastica, indubbiamente, e forse anche utopica, se si pensa solo alle fortissime resistenze che opporrebbero i partiti locali. Ma ai cittadini ne verrebbe, senz’altro, un giovamento.
Le proposte migliorative dell’assetto regionale che qui si avanzano valgono, dunque, solo a condizione che fiorisca una nuova classe dirigente capace di gestirle.
Ci sono certamente competenze che potranno essere esercitate esclusivamente dalle regioni o dallo Stato, ma ce ne sono alcune, come la salute, che solo una sana e proficua collaborazione tra amministrazione centrale e regioni permette di governare nell’interesse collettivo. Per ottenere questo risultato occorrerebbe trasformare la Conferenza Stato-regioni in una seconda Camera, superando il bicameralismo paritario che abbiamo attualmente. Ma come scrive il politologo Angelo Panebianco in un editoriale del Corriere della Sera del 27 giugno 2021, “in Italia la fa da padrone l’inconsapevolezza dell’importanza di disporre di istituzioni ben congegnate. Inconsapevolezza che, a sua volta, è la spia — proprio come accade in America latina — di una diffusa e radicata cultura anti-istituzionale”. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, nonostante l’aggravarsi dei conflitti interistituzionali negli ultimi anni, nessuno propone soluzioni. “Il bello o il brutto – osserva Panebianco – è che molti di coloro che denunciano queste storture sono gli stessi che nel referendum del 2016 dissero no a una proposta di riforma costituzionale la quale, fra le altre cose, intendeva dare una veste più razionale ai rapporti centro- periferia”. E si chiede: “Come mai i suddetti non si rendono conto del rapporto che c’è fra il fallimento di quella proposta di riforma e l’attuale ingovernabilità del sistema Stato/Regioni?”.
Un altro problema da affrontare è la revisione del numero delle regioni. Solo politici ispirati da sentimenti solidaristici e con una mentalità manageriale potrebbero elaborare un ritaglio diverso delle regioni, riducendone il numero e individuando aree territoriali corrispondenti ai modelli di vita e di lavoro delle persone. Sono già stati fatti alcuni studi che si possono riprendere. Ci vuole solo una forte volontà politica per smontare e rimontare apparati burocratici che si sono sedimentati nel tempo.
Inoltre, va ripreso il tema della presidenzializzazione delle regioni. È invalsa la brutta abitudine di dare ai presidenti delle regioni l’appellativo di “governatori”. Ma questo termine non c’è nella Costituzione. Nel progetto originario, l’elezione diretta dei presidenti regionali e dei sindaci era strettamente legata alla riforma della forma di governo dello Stato. Bisognerebbe completare quel disegno.
Infine, la riforma regionale va collocata nel quadro del processo d’integrazione europea. E, a questo proposito, va detto che bisognerebbe porre mano alla riforma del Trattato sull’Unione europea per affrontare alcuni nodi venuti al pettine da tempo, a partire dalla governance.
L’UE è stretta tra due logiche che faticano a conciliarsi. Da un lato, c’è la logica intergovernativa del Consiglio europeo (dei capi di governo nazionali) che considera l’UE come la somma algebrica di ventisette Stati. Poiché in un’unione di Stati demograficamente asimmetrici alcuni governi nazionali hanno più influenza di altri, il Consiglio europeo ha istituzionalizzato un sistema di veti per garantire il consenso al suo interno. L’esito è una ricorrente paralisi decisionale. Dall’altro alto, c’è la logica sovranazionale del Parlamento europeo che considera l’UE uno stato parlamentare. Ma anche qui i conti non tornano perché, se il potere decisionale risiedesse primariamente nel Parlamento europeo, gli Stati più grandi conterebbero di più degli Stati più piccoli, grazie al maggiore numero dei loro rappresentanti.
Il politologo Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore del 30 maggio 2021 scrive: “In un’unione di stati demograficamente asimmetrici e con identità nazionali distinte, la condivisione delle competenze e la cooperazione tra livelli di governo non possono funzionare, in quanto gli stati più grandi e più forti possono condizionare entrambi i processi. Per questo motivo, sul piano costituzionale, tali unioni si basano su una distinzione delle competenze così da definire gli ambiti in cui il centro oppure gli stati hanno il potere dell’ultima parola. Storicamente, nelle unioni di stati, al centro sono state assegnate le competenze relative alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare alla politica monetaria e fiscale), mentre gli stati hanno trattenuto per sé tutto il resto. L’UE è andata in direzione opposta. Ha centralizzato le competenze regolatorie del mercato unico, mentre gli stati hanno monopolizzato le competenze relative alla sicurezza collettiva. Occorrerebbe invece ribilanciare le competenze, promuovendo più integrazione di alcune politiche e meno integrazione di altre”.
In tale prospettiva, bisognerebbe procedere verso uno “sdoppiamento” delle competenze in materia di “agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’UE e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.
Più precisamente, andrebbero estrapolate dall’attuale PAC quelle competenze che si legano effettivamente ad obiettivi raggiungibili più efficacemente mediante una politica comune. Tutte le altre competenze andrebbero attribuite esplicitamente agli Stati membri, per il semplice motivo che solo questi possono effettivamente gestire la convivenza della pluralità delle agricolture dentro il perimetro delle rispettive sovranità.
La Politica europea nel settore agricolo andrebbe, pertanto, semplificata e razionalizzata – sia al livello della normativa, sia al livello delle risorse finanziarie e di bilancio – secondo il principio delle due sovranità. Alla sovranità unionale andrebbero assegnate le seguenti materie: 1) sostegno e coordinamento del sistema della conoscenza e dell’innovazione in agricoltura; 2) sistema articolato di regole e misure che siano finalizzate a garantire la food security e la food safety; 3) coordinamento tra i primi due interventi e altre politiche comuni coinvolte. Mentre alla sovranità dello stato nazionale membro andrebbero le seguenti materie: “pagamenti diretti” in modo tale che ciascun Paese, utilizzando risorse proprie, possa decidere se continuare ad erogarli secondo i criteri finora adottati o cambiarne profondamente l’impostazione per ottenere risultati coerenti con l’insieme degli obiettivi perseguiti ed eliminare squilibri e iniquità. Ad esempio, ci potrebbero essere Paesi, come l’Italia, interessati ad una misura di questo tipo esclusivamente per i territori della “Montagna” o per le “Zone Interne”.
Questa proposta di reimpostazione della politica europea per il settore agricolo, non comprende l’attuale “politica per lo sviluppo rurale” in quanto si auspica una sua riconduzione nell’ambito della “politica regionale e di coesione”. Quest’ultima andrebbe considerata come politica orizzontale finalizzata alla “sostenibilità” (per il contrasto e l’adattamento al cambiamento climatico, per il passaggio dall’energia fossile a quella da fonti riproducibili, per la tutela della biodiversità e per la conservazione e valorizzazione del paesaggio) e ai “sistemi territoriali” (in cui le molteplici attività produttive s’intrecciano con l’ambito delle infrastrutture, dei servizi e dei sistemi di welfare).
Per ricostruire le economie dei Paesi danneggiati dalla pandemia e predisporsi nel prevenire future crisi, gli Stati del mondo dovrebbero confrontarsi e collaborare tra loro per trovare soluzioni globali. Alle pandemie del passato seguivano le carestie. Le quali venivano eliminate grazie alle condizioni di pace, sviluppo sociale e tecnologico e democrazia. Non a caso, nel 1970, l’agronomo genetista Norman Borlaug fu insignito del premio Nobel per la Pace con la seguente motivazione: “[A colui che] più di ogni altra persona del nostro tempo ha aiutato a dare il pane a un mondo affamato. Noi abbiamo fatto questa scelta nella speranza che provvedendo al pane si darà pace a questo mondo”. Oggi la pandemia ha posto al centro del dibattito il problema dei vaccini e, in particolare, dei brevetti riferiti a questi farmaci. Le organizzazioni mondiali (ONU, OMS, WTO, ecc.) dovranno affrontare questi temi, rivisitando le regole riguardanti i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, la cooperazione internazionale, gli scambi commerciali. La questione dei vaccini è solo un aspetto del tema più rilevante della salute globale, definita dall’Istituto Superiore di Sanità “un’area di studio, ricerca e pratica che pone una priorità sul miglioramento della salute e sul raggiungimento dell’equità nella salute per tutte le persone in tutto il mondo”. Covid-19 ci ha ricordato il nesso tra salute globale umana e salute globale animale. L’agricoltura, la zootecnia, l’alimentazione, l’ambiente sono argomenti strettamente intrecciati con la salute globale. Stiamo andando verso un cambio di paradigma dello sviluppo che gli Stati dovranno interpretare e regolare in modo condiviso. Al momento prevalgono da parte di alcuni Stati atteggiamenti egemonici rispetto a quelli cooperativi. In campo ci sono democrazie liberali e regimi autoritari. E da questo confronto / scontro anche la democrazia e le sue forme potranno subire modifiche, nello Stato e oltre lo Stato.
L’UE sarà protagonista nel nuovo scenario mondiale che si va delineando, se completerà rapidamente il suo processo di integrazione, dotandosi di istituzioni efficienti e di una forma di governo efficace e democratica. Non basta la Conferenza sul Futuro dell’Europa che si è aperta il 9 maggio scorso. Bisognerebbe che il Parlamento Europeo getti il cuore oltre la siepe ed elabori, come si è detto sopra, un progetto di revisione del Trattato ai sensi dell’art. 48 del TUE. Per poi negoziarlo con gli Stati membri, con un confronto / scontro politico.
In tali percorsi, l’agricoltura europea potrà fare la sua parte nel confronto / scontro sia europeo che planetario – così come avvenne nella fase iniziale dell’integrazione comunitaria quando seppe compiere un forte salto produttivo – se sarà messa nelle condizioni di innovarsi tecnologicamente per produrre il cibo necessario alle popolazioni e, al contempo, preservare le risorse ambientali a vantaggio delle generazioni future. Per questo andrebbero ripartite più razionalmente le competenze agricole tra UE e Stati membri. E in un nuovo assetto europeo, potrebbe essere più facile stabilire cosa dovrebbe fare l’amministrazione centrale e cosa, invece, andrebbe assegnato alle competenze regionali.
Ma un confronto pacato su questi argomenti richiederebbe gruppi dirigenti capaci di esprimere visione politica d’insieme e, allo stesso tempo, concretezza realizzativa. Ne avremo in futuro?
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