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Non potremo far nulla per sconfiggere le centrali del terrore se non costruiamo celermente gli Stati uniti d'Europa. Si istituisca subito una struttura europea antiterrorismo. Si pervenga quanto prima alla cooperazione, obbligatoria, tra le polizie e i servizi di intelligence. Si prendano in carico, a livello europeo, le frontiere esterne alla Unione. Ma per avere effettivamente una politica estera e di sicurezza comune bisogna fare l'Europa. Di tale obiettivo nessuno parla perché impegna tutti: singoli cittadini, società civile e sistema politico insieme
Non è una guerra religiosa quella che vede protagonista Daesh contro i governanti sciiti e gli stati che li sostengono. Il video diffuso in rete dai terroristi islamici invita a unirsi alla guerra santa contro gli infedeli secondo i precetti della sharia. Il Jihad viene definito obbligo religioso. Con questi messaggi si vuole dare ad intendere che l’attentato abbia una finalità essenzialmente religiosa. Ma non è così.
La Guerra dei trent’anni
L’accademico olandese Ian Buruma ha recentemente sostenuto (Repubblica del 5 gennaio 2016) che le terribili guerre che oggi dilaniano il Medio Oriente, nelle quali sette religiose rivoluzionarie e capi tribali si battono contro spietate dittature, sostenute da una o l’altra delle grandi potenze, hanno molto in comune con la Guerra dei trent’anni che, tra il 1618 e il 1648, devastò la Germania e l’Europa centrale, durante la quale gli abitanti dei villaggi e delle città furono assassinati, depredati e torturati. Al pari dei conflitti a cui assistiamo oggi, la Guerra dei trent’anni è spesso considerata una guerra di natura essenzialmente religiosa, che vedeva opporsi tra loro cattolici e protestanti. La situazione in realtà era ben più complessa: mentre molte alleanze seguivano delle suddivisioni settarie, i soldati mercenari (tanto protestanti che cattolici) cambiavano fronte ogni qual volta faceva loro comodo, mentre i principi protestanti tedeschi erano sostenuti dal Vaticano e la Francia cattolica appoggiava la Repubblica olandese (protestante).
La Guerra dei Trent’anni era una lotta per l’egemonia tra la monarchia dei Borboni e quella degli Asburgo, e si è protratta sino a quando una delle due fazioni non è stata abbastanza forte da imporsi sull’altra, causando le più atroci sofferenze tra gli abitanti delle campagne e delle città. Analogamente a quanto accade oggi in Medio Oriente, anche allora alcune grandi potenze (Francia, Danimarca, Svezia) si schierarono, prendendo le parti dell’una o dell’altra corrente, nella speranza di trarne qualche vantaggio.
Buruma ritiene che l’attuale conflitto in Medio Oriente sia incentrato sulla lotta per l’egemonia tra Arabia Saudita e Iran – entrambi sostenuti da alcune tra le maggiori potenze mondiali ed entrambi abituati ad istigare deliberatamente i fanatici religiosi — benché la chiave di lettura del conflitto non abbia nulla a che vedere con la religione. Il presidente siriano Bashar al Assad non si sta battendo in nome di una particolare setta islamica (quella degli alawiti), ma per la propria sopravvivenza politica. Daesh non combatte in nome dell’ortodossia sunnita, bensì per imporre un califfato rivoluzionario. La lotta tra Arabia Saudita e Iran non è di natura religiosa, ma politica. Durante la Guerra dei trent’anni ci furono momenti in cui sarebbe stato possibile raggiungere un accordo politico, ma ciò non avvenne per mancanza di volontà: una delle due fazioni era decisa a proseguire i combattimenti — o a indurre il nemico a fare altrettanto — nella speranza di garantirsi ulteriori vantaggi.
La guerra di oggi
La guerra di oggi potrebbe durare oltre trent’anni. Per spegnerla ci vorrebbe, da parte delle democrazie occidentali, una strategia di lungo periodo e una capacità di muoversi abilmente nel costruire e variare le alleanze coi soggetti istituzionali e politici locali a seconda delle situazioni concrete, per raggiungere quanto prima possibile l’obiettivo di spegnere i conflitti. Ma noi europei non potremo far nulla per sconfiggere le centrali del terrore se prima non costruiamo celermente gli Stati uniti d’Europa. Si istituisca subito una struttura europea antiterrorismo; si pervenga quanto prima alla cooperazione, obbligatoria, tra le polizie e i servizi di intelligence, si prendano in carico, a livello europeo, le frontiere esterne alla Unione. Ma per avere effettivamente una politica estera e una politica della sicurezza comune bisogna fare l’Europa. Di tale obiettivo nessuno parla perché impegna tutti: singoli cittadini, società civile e sistema politico insieme. E non ci sarà alcuna integrazione degli immigrati islamici senza un effettivo impegno degli europei nell’integrarsi tra loro per fare l’Europa. È per questo che crescita della destra radicale, demagogica, antidemocratica e antieuropea, e crescita dell’area islamica che in Europa esprime consenso verso Daesh sono due facce della stessa medaglia.
Fare gli Europei per fare gli Stati uniti d’Europa
Se non si costruisce prima una società civile forgiata da comunità di cittadini e formazioni sociali che imparino a riconoscersi reciprocamente come europee e appartenenti ad una stessa comunità politica, al di là dei confini nazionali, e che svolgano attività d’interesse generale europeo, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è una sola associazione europea che svolga effettivamente un’attività di interesse generale sovranazionale.
Se non si formano prima comunità religiose (cristiane, islamiche, confuciane, buddhiste, ecc.) che si riconoscano nei valori europei (democrazia, stato di diritto, parità di diritti e di opportunità per le donne, ecc.) e abbandonino per sempre la pretesa di accampare primati o riconoscimenti di proprie specifiche radici da sancire negli atti costitutivi europei, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee legittimate democraticamente. Ma oggi non c’è una sola comunità di fede che riconosca fino in fondo, nei fatti e non solo a parole, la facoltà di ricercare individualmente e liberamente la verità, l’obbligo di seguire il dettame della propria coscienza e la libertà di espressione delle proprie idee in ogni ambito (compreso quello religioso e morale) come diritti inviolabili dell’uomo da proteggere nelle costituzioni. E non c’è una sola comunità di fede che persegua il dialogo interreligioso, rinunciando ad ogni pretesa di imporre la propria verità e assumendo invece il principio di laicità e, dunque, il criterio della razionalità/ragionevolezza nel costruire un’etica globale condivisa. E non c’è un solo Stato europeo che favorisca e incentivi un’evoluzione di tutte le religioni verso una effettiva compatibilità dei rispettivi credi coi principi della democrazia e coi diritti inviolabili dell’uomo.
Se non si costruisce prima un’opinione pubblica europea capace di creare un orizzonte culturale comune, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è nemmeno un quotidiano che contribuisca a formare un’opinione pubblica effettivamente europea orientata ad elaborare una cultura europea comune.
Se non si costruiscono prima partiti effettivamente europei in grado di elaborare proposte di politica estera e di politica economica di dimensione europea, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente.
Siamo in molti ad auspicare la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma cosa facciamo concretamente e personalmente perché società civile, opinione pubblica e partiti politici evolvano effettivamente nella dimensione europea?
Siamo in molti ad avvertire l’esigenza di una nuova classe dirigente di rango europeo. Ma dobbiamo essere consapevoli che questa si forma inizialmente nella società civile. Non potrà mai nascere né nei partiti, né nelle istituzioni. Allora cosa facciamo concretamente e personalmente per contribuire a formarla?
Il principio di sussidiarietà
Va chiarito che la costruzione degli Stati Uniti d’Europa non ha nulla a che vedere con la costruzione di un super-Stato a cui trasferire la sovranità degli Stati nazionali. È illusorio pensare di evitare i conflitti fra Leviatani (gli Stati nazionali europei) costruendo una sorta di super-Leviatano europeo. Rimarremmo dentro la stessa logica hobbesiana che concepisce la società partendo dal presupposto “homo homini lupus”. Se non ci liberiamo di questo pregiudizio non faremo nessun passo avanti.
La crisi dell’Unione Europea è l’esito di un’insofferenza delle popolazioni nei confronti di un potere, quello dei burocrati di Bruxelles, che cercano di integrare l’Europa costruendo una sorta di super-Stato, anziché cercare di realizzare una federazione di Stati che lasci il massimo delle libertà a ciascuno di essi e unifichi solo gli interessi comuni.
Quali sono questi interessi comuni da unificare? Innanzitutto l’interesse a relazionarsi insieme verso il resto del mondo per combattere il terrorismo, spegnere i focolai di guerra e promuovere lo sviluppo delle aree da cui provengono le migrazioni. L’altro interesse comune è la sicurezza e la pace interna ed esterna, attraverso una maggiore solidarietà e cooperazione interna e la costruzione di partnership con altri Stati o organismi sovranazionali. Gli Stati Uniti d’Europa devono avere in comune tre grandi politiche: la politica della sicurezza, la politica estera e la politica economica.
Per realizzare una siffatta unità europea, un criterio di governance globale non può che essere la sussidiarietà. Questo significa che ciascuno deve agire in modo da aiutare l’altro a fare ciò che l’altro deve fare. Non sostituirlo, ma capacitarlo.
L’Europa potrà diventare Unione politica se sarà una rete di reti di relazioni fra soggetti di società civile che creino una cittadinanza europea dal basso e siano sostenuti da un sistema politico (l’Unione) che agisce in modo sussidiario verso di essi. Non si può non vedere che oggi avviene del tutto il contrario.
Pochi sanno che l’UE non ha mai voluto riconoscere le associazioni europee, perché teme le formazioni sociali intermedie. L’attuale UE vuole controllare tutto e tutti attraverso un potere economico e politico invasivo. C’è un intento non detto nell’idea di super-Stato con una moneta unica che attraversa trasversalmente le culture politiche di tutti i raggruppamenti: in un super-Stato si applicherebbe esclusivamente la norma del voto democratico; cioè la regola secondo la quale il più forte imporrebbe la sua volontà.
Una federazione fondata, invece, anche sul principio di sussidiarietà tutelerebbe le singole comunità. Le quali creano beni relazionali per sé, ma li rendono disponibili e fruibili per altri, a patto che essi accettino le regole del rispetto reciproco e della responsabilità verso la socialità che costituisce il tessuto di quella comunità. Si tratta di abbandonare l’idea di integrazione livellatrice e omologante e realizzare quella di interazione tra le culture fondata sulla reciprocità e il mutuo aiuto. Se gli Europei non si riconosceranno prima come Europei non ci sarà mai un’Europa. E le comunità di immigrati non avranno alcuno stimolo a integrarsi fino a quando non vedranno l’insieme degli Europei impegnati a integrarsi tra loro in un’Europa di tutti.