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Il ricordo della fuga rocambolesca da Moncenisio a Tito con altri soldati "sbandati". Dopo la Liberazione anche una multa per aver tradito la Patria
Alla notizia dell’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre 1943, come tanti altri reparti dell’esercito, anche quello di Moncenisio si sbandò. Pasquale Moscarelli era soldato in quella caserma e ricorda la fuga rocambolesca con commozione e dovizia di particolari. Del resto, l’episodio costituì il suo unico contatto con la Resistenza partigiana. Ma fu sufficiente per trasmettergli tutto il fascino dello spirito fraterno e solidale che animava l’antifascismo militante.
Seguiamolo nel suo racconto: “Scendemmo di notte a Susa e il generale ci disse: ‘Chi vuole la vita se la salvi!’. Allora prendemmo un treno. Con me c’era il compagno Gatta ed altri titesi. Prima di entrare a Torino, siamo scesi in una stazione per vestirci da borghesi. Siamo entrati in una casa, dove c’erano due o tre signorine, che erano già partigiane. Per prima cosa ci fecero consegnare le armi e la divisa. Poi mi dettero una giacchettina strappata, un paio di pantaloni e un paio di scarpe ai piedi e in borghese riprendemmo il treno. Ma Gatta tardò e non riuscì a salire sul treno. Con lui ci siamo ritrovati solo dopo la guerra. A Torino c’erano i tedeschi che avevano già preso altri soldati che erano passati prima di noi. Il treno si fermò lì per poco. Incominciarono a chiederci i documenti. Io avevo ancora la carta di riconoscimento e la feci volare dalla finestra. Il treno ripartì e i tedeschi dovettero scendere”.
Ma Pasquale e i suoi compagni non erano ancora scampati al pericolo di essere presi. Il viaggio di fortuna continuò per Alessandria, Venezia e giù verso Bologna. Prima di entrare nella città, quei poveri soldati furono invitati a scendere dal treno per evitare i controlli tedeschi: “Attraversammo Bologna a piedi; eravamo migliaia di soldati. Il treno ci aspettava all’altro capo della città. Lo prendemmo di nuovo, che era pieno, sopra, sotto, non si capiva niente. E il giorno dopo arrivammo a Pescara”. Da lì il viaggio continuò a piedi perché il treno non voleva più saperne. Per San Severo fino a Foggia, dove trascorsero la notte all’addiaccio, poi Melfi, Avigliano, la Madonna del Carmine, Li Foi e finalmente San Leo.
Nemmeno a casa poterono starsene tranquilli: “I carabinieri venivano a cercarmi e dicevano: ‘Tu sei del ’15 e devi ripartire’. Però c’era il parente mio Luongo Antonio che ci diceva: ‘Non partite!’ perché i comunisti erano contrari”. Si trattava dei primi segnali di risveglio delle forze politiche democratiche a Tito e nel Potentino. Lucianieddu Luongo e suo figlio Antonio avevano avuto rapporti durante il fascismo con alcuni confinati politici e così erano venuti in contatto coi comunisti che operavano nella clandestinità. Anche altre famiglie del paese erano antifasciste. Addirittura un ragazzo titese, Rocco Viggiani, si era arruolato volontariamente tra i combattenti delle Brigate garibaldine e internazionali, che parteciparono tra il 1936 e il 1939 alla guerra civile in Spagna accanto alle forze repubblicane, e non era più tornato. A lui i comunisti intitoleranno la sezione del partito.
Pasquale e i suoi compagni d’armi partirono di nuovo: “Lo facemmo anche per non sentire mormorare i genitori. A Lecce ci vestirono da soldati e fummo destinati a Mola di Bari, dove restammo una mesata e più”. Ma immediatamente essi ripresero i tentativi di tornare a casa: “Mi ero portato due o tre soppressate e andai da un furiere per dirgli che la casa non l’avevo vista; che quando ero venuto da Moncenisio, non ero andato a casa; ero uno sbandato. E dissi: ‘Per favore, vorrei una licenza’. C’era lì un caporalmaggiore che era del ’12 e riuscì ad andarsene. Ma noi del ’15 non ci potevano mandare via. Ebbi un permesso solo per due giorni. Ci misi due giorni da Mola di Bari a Tito, che si sposò mio fratello Antonio e non mi trovai manco. Fatti un po’ il conto come successe. Arrivai a casa e trovai una tale confusione: i carabinieri vennero a dirmi che il permesso era scaduto. Ripartii: mi mandarono a Foggia. Dopo otto giorni, una domenica, il colonnello fece l’appello e risultò che, invece di duemila, eravamo rimasti in duecento. ‘Ah! – dissi a un compagno di un altro paese – uagliò, stanotte ce ne dobbiamo andare!’ Prendemmo una coperta, preparammo delle cose da mangiare. Quando fu verso le due di notte, ce ne uscimmo da Foggia. E a piedi per Melfi, dove trovammo la neve perché era la Candelora, tornai di nuovo a San Leo. Ma questa volta, chi veniva veniva, non sarei più ripartito”.
Moscarelli fa cenno che non ha finito il racconto. C’è un codicillo per farci comprendere tra quante contraddizioni, dopo la guerra, la gracile democrazia emise i primi vagiti: “Il tribunale di Bari mi aveva condannato al pagamento di una piccola somma di denaro perché avrei tradito la Patria. Ma come, il re se ne era scappato ed io avevo tradito la Patria? Era una fesseria, ma dovetti pagarla perché se no non potevo avere il porto d’armi. Vedi tu? Mi avevano macchiato la fedina. Pagai e la facemmo finita”.
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