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L'espressione sembra assumere nel lessico di papa Francesco il senso di un’ideologia irrazionale contraria alla libertà religiosa, di fatto una credenza superstiziosa che vorrebbe eliminare le vere religioni, senza le quali il mondo non potrebbe affrontare adeguatamente i problemi dell’umanità. Nella preghiera della Via Crucis, la paganità laicista è stata equiparata al terrorismo islamico, alla pedofilia, alla corruzione e al commercio per armare le guerre, evidenziando un atteggiamento integralista e sprezzante e una netta indisponibilità a comprendere le ragioni degli altri
È passato quasi del tutto inosservato un passaggio abbastanza pesante e molto discutibile della preghiera con cui papa Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo di quest’anno. Tra i peccati gravissimi di cui si macchia l’umanità (dal terrorismo alla vendita di armi, dalla pedofilia alla corruzione) il pontefice ha ritenuto di dover inserire anche l’opinione di chi pensa che nei luoghi pubblici non si debba esporre il crocifisso. Lo ha fatto dicendo testualmente: “O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato”.
Perché papa Bergoglio ha voluto collocare tale questione tra i delitti più orrendi? Per tentare di dare una spiegazione si deve, a mio avviso, partire dall’espressione del tutto inusuale adottata da Francesco: “paganità laicista”. Vediamo di analizzarla attentamente ricorrendo ai dizionari etimologici e alla storia politica ed ecclesiastica.
Paganus nel senso cristiano di “infedele” appare per la prima volta in un’epigrafe di Catania dell’inizio del IV secolo. In essa si parla di una bambina (Julia Florentina) che, in pericolo di morte, all’età di 18 mesi e 22 giorni fu battezzata e da pagana diventò fidelis. È evidente la trasposizione di significato dell’aggettivo sostantivato paganus, tratto da pagus, “villaggio”, già usato nel senso di “abitante dei villaggi”, “contadino”, “campagnolo” fin da Cicerone. Ma perché negli ambienti cristiani si utilizzò un termine che serviva a distinguere gli insediamenti delle comunità rurali da quelli urbani e i contadini dai cittadini per stigmatizzare coloro che professavano altre credenze? L’opinione più diffusa tra gli studiosi è quella che risale al Baronio e al Du Cange: l’idolatria avrebbe resistito più a lungo nelle campagne che nelle città; nulla di più naturale, dunque, che i cristiani chiamassero col nome di pagani gli infedeli. Ma questa tesi è campata in aria perché da nessuna fonte appare che i culti precristiani siano cessati prima nelle città che nelle campagne, per lo meno fino a tutto il IV secolo, quando il mutamento semantico è già documentato in modo indubbio. Alcuni studiosi, come lo storico della Chiesa Adolfo Harnack, partono invece da un senso secondario del termine paganus in opposizione a miles: era chiamato “pagano” chi non era un “militare”, con un valore molto simile con cui negli ambienti militari moderni si usa il termine “borghese”. Siccome i cristiani si consideravano milites Christi, erano cioè membri della grande militia Christi, nulla di più normale che chiamassero pagani, cioè “borghesi” (con senso in certo modo spregiativo), gli infedeli. Recentemente, altri studiosi, come Boscherini, hanno avanzato una nuova ipotesi: paganus sarebbe il membro della comunità del pagus, mantenutasi lungo tempo anche nelle città; alla comunità del pagus sarebbe stata affidata la custodia del culto delle divinità tradizionali, alle quali si volevano far sacrificare i cristiani, che spesso pagarono il loro diniego con il martirio. Di qui sarebbe sorto il termine paganus nel significato di infedele.
A ben vedere, l’uso del termine “paganità” da parte di papa Francesco non sembra alludere a nessuno di questi significati perché è accompagnato dall’aggettivo “laicista”. Tra laico e laicista non ci sarebbe alcuna differenza se ad entrambi i termini dessimo il significato che Ignazio Silone espose in modo limpido nell’editoriale della rivista Tempo presente (agosto 1957) intitolato Autocritica laicista: “(…) rivendicazione di autonomia, libertà e responsabilità della coscienza contro ogni dirigismo statale o chiesastico o di partito. (…) E poiché la ragione è il solo strumento di ricerca e di orientamento a nostra disposizione, questa deve essere ammaestrata senza essere sopraffatta”. È stato il card. Joseph Ratzinger a connotare per primo in modo negativo il termine “laicismo” e in senso riduttivo la parola “laicità” in un’intervista rilasciata a Marco Politi su Repubblica del 19 novembre 2004: “Il laicismo non è più un elemento di neutralità, che apre spazi di libertà a tutti. Comincia a trasformarsi in un’ideologia che s’impone per mezzo della politica, e non concede spazio pubblico alla visione cattolica e cristiana, che corre il pericolo di trasformarsi in una cosa nettamente privata e in fondo mutilata. In questo senso esiste una lotta e noi dobbiamo difendere la libertà religiosa contro l’imposizione di un’ideologia, che si presenta come se fosse l’unica voce della razionalità, quando invece è l’espressione di un ‘certo’ irrazionalismo”. E al giornalista che gli chiedeva cosa fosse la laicità, il prefetto della Congregazione della Fede rispose: “La laicità giusta è la libertà di religione. Lo Stato non impone una religione, bensì concede un libero spazio alle religioni, quelle che hanno una responsabilità nei confronti della società civile, e perciò permette a queste religioni di essere un fattore costruttivo nella vita sociale”. E così, con la scusa di difendere le religioni da chi vorrebbe ridurle ad un fatto meramente privato, il futuro papa Benedetto XVI relegava la laicità a mera prerogativa dello Stato, annullando la sua essenza – nella democrazia moderna – di statuto stesso della cittadinanza. Il cittadino, per potersi confrontare con altri cittadini, portatori di convincimenti e credenze diversi dalla propria, deve necessariamente attenersi nel dialogo ad un criterio di razionalità/ragionevolezza per non imporre la propria fede agli altri. Laicità è, dunque, la disponibilità a far funzionare le regole della convivenza democratica partendo dalla pluralità e persino dal contrasto delle “visioni della vita” e della “natura umana” che hanno i diversi cittadini. Questo punto rischia di diventare un grosso problema proprio perché quella di “natura umana” è il concetto forse più divisivo nella cultura contemporanea e per molti ha forti implicazioni religiose.
Dunque, l’espressione “paganità laicista” sembra assumere nel lessico di papa Francesco il senso di un’ideologia irrazionale contraria alla libertà religiosa, di fatto una credenza superstiziosa che vorrebbe eliminare le vere religioni, senza le quali il mondo non potrebbe affrontare adeguatamente i problemi dell’umanità. E questa “paganità laicista” – nella preghiera della Via Crucis – è stata equiparata al terrorismo islamico, alla pedofilia, alla corruzione e al commercio per armare le guerre. È evidente che siamo in presenza di una visione integralista e sprezzante e di una netta indisponibilità a comprendere le ragioni degli altri. Non basta la simpatia per le persone. Occorre quello che Jürgen Habermas chiama “reciprocità cognitiva tra fede e ragione”. Occorre andare più a fondo nello scambio reciproco di ragioni e argomenti se si vuole effettivamente il dialogo.