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Note per una biografia del vice presidente della Confcoltivatori che ci ha lasciati sedici anni fa
Tra i vice presidenti della Confcoltivatori (oggi CIA Agricoltori italiani) Renato Ognibene era quello che più di altri vantava una importante storia di vita. Aveva il senso della concretezza e della semplicità propria degli emiliani. E quella luce che non sai se è fede o follia, ma che mi attraeva quando lo guardavo negli occhi. Sapevo del suo passato di partigiano e così mi spiegavo quella luminosità. Lo avevo conosciuto a metà degli anni settanta, quando rappresentavo l’Alleanza dei contadini nel consiglio di amministrazione della Centrale del Latte di Potenza e lui dirigeva il dipartimento economico nazionale dell’organizzazione. Disponibile e affettuoso, mi aveva dato qualche dritta dopo che ebbi esposto alcuni problemi dell’azienda.
Era nato a Modena nel 1928 da una famiglia di antifascisti. A sedici anni aveva lasciato la scuola per partecipare alla Resistenza. Era stato partigiano nella Brigata “Aristide” che operava nella zona di Carpi. Dopo la Liberazione, aveva ripreso gli studi ed era diventato un dirigente delle organizzazioni contadine. Dal 1960 al 1964 era stato segretario della Camera del Lavoro di Modena. Eletto nel collegio di Parma nella lista del Pci, aveva svolto l’attività di deputato per due legislature dal 1963 al 1972.
Segretario della Federmezzadri
All’epoca non c’era ancora l’incompatibilità tra cariche sindacali e mandato parlamentare. E così Renato aveva continuato ad avere ruoli di responsabilità nella Cgil nazionale e a svolgere la funzione di deputato. Era segretario generale della Cgil Agostino Novella, un comunista molto attento a mantenere unita l’organizzazione durante la fase del centro-sinistra. Aveva concordato coi socialisti la linea da tenere sulla cosiddetta programmazione democratica (“Programma economico nazionale per il quinquennio 1966-70” approvato dal Parlamento il 17 marzo 1967) che vedeva il Psi a favore e il Pci contro. I dirigenti della Cgil eletti nelle liste del Pci e del Psi si erano astenuti. E anche Renato aveva contribuito a costruire quella mediazione e aveva votato alla Camera in base all’accordo sancito nel direttivo della Confederazione.
Nel maggio del 1966, Ognibene aveva sostituito Doro Francisconi nella carica di segretario generale della Federmezzadri e aveva preparato il congresso che si era tenuto ad Arezzo nell’aprile 1967. Quel congresso avrebbe dovuto segnare una tappa decisiva verso il traguardo di un’organizzazione nuova dei coltivatori, autonoma dai partiti e dai sindacati. Ma non era andata come molti si aspettavano.
I socialisti che coprivano ruoli di direzione nelle organizzazioni agricole, nei primi mesi del 1966, avevano lanciato un’idea interessante. Erano convinti che le resistenze della Coldiretti ad ammodernare le strutture economiche dell’agricoltura per costruire nuovi rapporti tra il settore primario, quello della trasformazione delle materie prime agricole e la rete distributiva, si potevano vincere meglio unificando, in un’unica struttura, l’Alleanza dei contadini, la Federmezzadri e l’Associazione delle cooperative agricole (Anca-Lega).
Anche il rapporto tra l’amministrazione dell’agricoltura e i coltivatori si sarebbe potuto fondare su nuove basi di trasparenza, efficienza e pluralismo, se fosse sceso in campo un nuovo soggetto rappresentativo. Una nuova e più forte “potenza verde” – argomentavano i dirigenti socialisti – avrebbe potuto condizionare quella che si concentrava intorno alla Coldiretti e sospingerla verso un impegno unitario, per meglio tutelare gli interessi agricoli. Si sarebbe così attuato l’originario progetto di Ruggero Grieco, che dieci anni prima aveva prefigurato l’Alleanza come confederazione comprensiva non solo dei singoli coltivatori, ma anche delle loro cooperative.
L’ipotesi avanzata dalla componente socialista si alimentava del nuovo clima politico che si era creato con il centro-sinistra e che andava sfruttato anche per ridurre le discriminazioni perpetrate dalla Dc e dalla Coldiretti ai danni dell’Alleanza. Emblematico è il caso del Cnel. Fin dalla sua costituzione, avvenuta nel 1957, il presidente dell’Alleanza, Emilio Sereni, aveva chiesto ripetutamente al governo che vi fosse rappresentata anche la sua organizzazione, come accadeva per la Coldiretti e la Confagricoltura. Grazie all’avvento del governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro, l’Alleanza ebbe il proprio rappresentante nella figura di Giorgio Veronesi. Decisivo per quel primo riequilibrio fu l’intervento, in Consiglio dei ministri, del vicepresidente socialista Pietro Nenni. Sereni lo ringraziò per aver messo fine alla “odiosa discriminazione” e Nenni gli rispose di aver “semplicemente ottenuto il riconoscimento di un inoppugnabile dato di fatto e di un diritto”.
Era evidente anche una comune preoccupazione politica: senza l’ancoraggio delle forze che provenivano dal movimento contadino a una solida organizzazione, autonoma dai partiti e dai sindacati dei lavoratori dipendenti, unita sulla base di un progetto strategico nel confronto con le altre rappresentanze agricole e con le istituzioni, si sarebbe data la stura a nuovi collateralismi.
La spinta scissionista – che aveva portato alla costituzione dell’Unione coltivatori italiani (Uci) – fomentata da alcuni settori del Psi ai danni dell’Alleanza, dimostrava la fondatezza di tale preoccupazione. Ma i comunisti, imbrigliati nelle proprie rigidità ideologiche, non avevano fatto nulla per impedire l’ulteriore dispersione organizzativa nelle campagne.
In realtà, si era posto un problema che appariva meramente organizzativo, ma si collegava in qualche modo a quello più propriamente politico, che riguardava le responsabilità della sinistra politica e sociale, chiamata a fare i conti, in una condizione di grande debolezza e di profonde divisioni, con una fase di sconvolgenti cambiamenti.
Solo due anni prima, infatti, in occasione della defenestrazione di Krusciov, Giorgio Amendola aveva lanciato in dialogo con Norberto Bobbio, sulle colonne di “Rinascita”, la proposta di unificare la sinistra in un nuovo partito di ispirazione socialista, con l’intento di superare le ragioni della sua storica divisione.
Ma tale prospettiva si era lasciata cadere per la preoccupazione di una “socialdemocratizzazione” della sinistra e con l’obiezione che il dialogo doveva essere esteso anche alle forze cattoliche.
La posizione di Amendola era rimasta isolata nel Pci, con le solitarie eccezioni di Chiaromonte, Napolitano, Trivelli e Marangoni. Ma si era trattato di difese molto caute, perché anche questi dirigenti condividevano con gli altri il giudizio che Amendola, con la sua proposta, avesse fatto fin troppe concessioni alle socialdemocrazie, svilendo la storia e il ruolo del Pci e del movimento comunista internazionale.
Erano, dunque, ancora calde le polemiche suscitate dalla provocazione di Amendola quando era stata avanzata la proposta dei socialisti di fondere le diverse associazioni contadine e dar vita a una organizzazione agricola del tutto nuova.
A questa proposta aveva replicato Gerardo Chiaromonte su “Critica marxista” (gennaio-febbraio 1967), sostenendo che lo sviluppo delle forme associative era sì urgente, ma che “la Federmezzadri e l’Alleanza (avevano) compiti sindacali specifici che non (potevano) delegare a nessuno: la battaglia per il superamento della mezzadria e della colonía, o dell’affitto, (era) assai aspra, e richiede(va), da un lato una impostazione politica generale riformatrice ma anche, dall’altro, una sempre più intensa azione sindacale e rivendicativa”.
In realtà, era proprio il tema dei contratti agrari a creare conflitti. Sulle modalità di costruzione di nuovi rapporti tra l’organizzazione professionale e la cooperazione agricola non si era avviata nemmeno la discussione. I comunisti avevano, invece, continuato a contrapporsi al proprio interno tra chi sosteneva che i mezzadri e i coloni avrebbero vinto la propria battaglia quando sarebbero diventati proprietari e chi, più realisticamente, pensava che sarebbe stato più che sufficiente raggiungere l’emancipazione delle due categorie trasformando il contratto mezzadrile o colonico in quello di affitto. E i socialisti appoggiavano quest’ultima tesi.
A ben vedere, era una classica distinzione tra riformisti e massimalisti, che avrebbe dovuto comportare una battaglia politica esplicita e coerente da parte dei primi per affermare posizioni capaci di risolvere i problemi e combattere atteggiamenti che apparivano palesemente punitivi per determinati settori della società.
La mediazione che si era trovata tra chi propugnava la trasformazione del vecchio contratto in affitto e chi, invece, l’esproprio pagato dallo Stato e il passaggio della proprietà della terra al mezzadro, che avrebbe rimborsato lo Stato attraverso mutui agevolati, era la formula generica di “superamento della mezzadria”, priva di un concreto e verificato contenuto di operatività.
Come sarà poi riconosciuto da Emo Bonifazi, uno dei protagonisti delle lotte mezzadrili del secondo dopoguerra e poi assessore all’Agricoltura della Regione Toscana, “la mancata indicazione di carattere generale e specifica sulla modifica delle forme di conduzione della terra, cioè della trasformazione della mezzadria in affitto, è stata la causa principale della debolezza di quel movimento”.
Il congresso di Arezzo si era svolto all’insegna della parola d’ordine “Autonomi proprietari, coltivatori associati”, sulla base cioè dell’obiettivo della “proprietà della terra a chi la lavora”, traguardo del tutto irrealistico se posto in modo generalizzato per tutti i coltivatori, tragicamente utopico per i mezzadri e i coloni.
Ma vediamo come Renato ricorderà l’episodio in un intervento svolto a Firenze l’11 maggio 1988, nell’ambito di una riunione degli ex dirigenti della Federmezzadri organizzata dall’Istituto Cervi: “Vi era una spaccatura di tipo ideologico che impediva di indicare il traguardo di un moderno ed equo contratto d’affitto come una delle leve importanti per la trasformazione della mezzadria, evitando di prospettare un massiccio impiego di risorse pubbliche per il trasferimento in proprietà della terra quando emergevano con sempre maggior peso le questioni dell’impresa, degli investimenti, dell’innovazione. Ma al di là di questo limite, ciò che si voleva con il congresso di Arezzo, almeno nella parte più responsabile e consapevole della Federmezzadri era evidente: non si sosteneva il distacco dalla Cgil, ma pur rimanendo nella Confederazione si metteva in rilievo la particolare caratteristica di un sindacato come la Federmezzadri formata di lavoratori-imprenditori interessati a collegarsi, a convergere, ad unirsi con gli altri coltivatori e perciò si evidenziava la necessità di stabilire, nelle forme più appropriate, proficui rapporti con l’Alleanza dei contadini. Devo dire che sia in campo sindacale che in quello politico queste valutazioni, prevalenti nel gruppo dirigente della Federmezzadri, trovavano opinioni di carattere diverso. Vi era chi appoggiava quanto andavamo delineando, ma anche chi si opponeva apertamente. […] Debbo dire che il generoso e interessante intervento di Emilio Sereni, probabilmente preoccupato di non creare contraddizioni con la Cgil non contribuì allo scopo sopradetto”.
Cosa aveva detto il presidente dell’Alleanza? Ecco il brano del suo discorso che qui interessa: “Vorrei mettere in chiaro per eliminare ogni equivoco che da qualche parte, forse interessata, è stato talora diffuso. Noi che siamo sempre stati forti – come ha fatto giustamente il compagno Ognibene – nel proporre e nel ricercare tutte le forme di adeguamento nuovo delle organizzazioni contadine alle necessità, alle esigenze della realtà nuova, che maturano nella società italiana e internazionale, vorremmo dire che noi non abbiamo mai messo in dubbio, e non intendiamo in alcun modo farlo, la grande specifica funzione che un’organizzazione come la Federmezzadri, aderente alla grande organizzazione unitaria dei lavoratori dipendenti italiani […]. È un’organizzazione che per la sua stessa formula esprime una realtà specificatamente italiana, quella di lavoratori delle nostre campagne che hanno una figura d’imprenditori e di piccoli produttori agricoli, ma che hanno conquistato la coscienza di avanguardia della classe operaia e nelle file di essa non rappresentano uno dei reparti più arretrati. Questa grande conquista storica, che è una conquista dei contadini e di tutti i lavoratori italiani, nessuno nell’Alleanza dei contadini pensa a metterla in dubbio”.
Chiosa Ognibene vent’anni dopo: “Per la verità non era questa l’opinione di tutti i dirigenti dell’Alleanza. Anzi la posizione prevalente era che i mezzadri della Cgil dovevano trovare forme di collegamento proprio con la stessa Alleanza. Così la pensavano il vice presidente Selvino Bigi, Angiolo Marroni della giunta esecutiva e il segretario generale Attilio Esposto che mi telefonò ad Arezzo molto arrabbiato per dirmi esplicitamente che non condivideva le idee esposte da Sereni”.
Insomma Sereni contraddiceva Sereni pur di rafforzare il conservatorismo comunista e così respingere, senza dichiararlo apertamente, la proposta di Amendola di unificare la sinistra. E Renato che badava al sodo non comprendeva l’utilità di quei bizantinismi.
Se andiamo a guardare a fondo in una vicenda che può apparire minore, si possono più facilmente individuare i reali motivi per i quali si era lasciata cadere la proposta di fondere le tre organizzazioni e dar vita ad un soggetto nuovo. Si era ceduto, in realtà, alle resistenze di quanti ritenevano che un’organizzazione nuova e autonoma, comprensiva dei mezzadri e dei coloni (e che perciò si sarebbero dovuti sganciare dalla Cgil), costituisse un rischio di “socialdemocratizzazione”, cioè di annacquamento di una impostazione politica radicale (massimalista) ritenuta comunque irrealistica.
Terminato il congresso, si era riunito il nuovo consiglio direttivo della Federmezzadri. La riunione si era conclusa con una risoluzione che criticava la proposta di trasformare la mezzadria e la colonía in affitto, contenuta nel programma del governo di centro-sinistra. Su questa parte del documento, i socialisti si erano differenziati votando contro. Essi, infatti, condividevano la proposta del governo, come del resto, l’appoggiavano anche alcuni dirigenti comunisti. Non a caso, sullo stesso punto era stato costretto a fare marcia indietro lo stesso Ognibene, che in un’intervista rilasciata a Paolo Giordano su “Il giornale dei contadini” aveva sostenuto la proposta del governo. Naturalmente, la proposta di trasformare i contratti associativi in affitto si sarebbe dovuta discutere contestualmente ad una proposta di riforma dell’affitto, su cui convergeranno maggioranza e opposizione qualche anno dopo, con la Legge n. 11 del 1971. Un altro ritardo che si sarebbe accumulato e che si potrà definitivamente superare solo nel 1982 con la Legge n. 203, quando il Parlamento approva la vecchia proposta che i governi di centro-sinistra avevano avanzato negli anni sessanta.
Nell’aprile 1967 – ad un mese dal congresso della Federmezzadri – si era svolto a Roma, al Teatro Brancaccio, un convegno per discutere la costituzione, non già di una organizzazione nuova, ma di un suo surrogato, cioè il Centro per le forme associative e cooperative (Cenfac). Il caso era stato chiuso l’anno successivo, dopo ulteriori incontri e discussioni, quando l’Alleanza, la Federmezzadri e l’Anca-Lega, con l’apporto della Federbraccianti – la cui partecipazione veniva giustificata dal fatto che, nel Mezzogiorno, essa organizzava migliaia di lavoratori produttori, le cosiddette “figure miste” – avevano dato vita a una struttura specializzata per promuovere soggetti economici in grado di assicurare ai produttori agricoli rapporti organizzati di mercato e accrescere il loro potere contrattuale nei confronti dell’industria e del commercio.
Ma quella struttura unitaria, sprovvista dei mezzi che le organizzazioni promotrici utilizzavano per altre finalità, continuerà solo ad evocare un’esigenza più generale a cui non si voleva ancora rispondere positivamente e che sarebbe rimasta viva per un altro decennio.
Renato sentiva tutto il peso di quel ritardo e spendeva tutte le sue doti mediatrici per tenere insieme le due anime che convivevano nella Federmezzadri e portarle sul terreno di una sintesi più avanzata, come allora si era soliti dire. Ma gli obiettivi non cambiavano. A vent’anni dalla sua fondazione, l’organizzazione era tornata a Siena per dar vita ad una grande manifestazione a Piazza del Campo. E sullo striscione che campeggiava in testa al corteo si poteva leggere ancora la parola d’ordine “Uniti verso la riforma agraria”, una formula vaga che evocava il miraggio di trasformare i mezzadri in proprietari.
Non ottenendo risultati tangibili di cambiamento culturale e politico nel sindacato, al congresso del 1971 Renato non si ricandida più alla segreteria per dedicarsi più utilmente in organizzazioni predisposte ad affrontare in modo complessivo i problemi delle imprese agricole: fino al 1973 come segretario generale del Cenfac e poi come membro della presidenza dell’Alleanza dei contadini.
Vice presidente della Confcoltivatori
Quando finalmente si giunge alla fondazione della Confcoltivatori, nel dicembre 1977, appare una scelta naturale eleggere Renato come vice presidente da affiancare al presidente Giuseppe Avolio. Con loro fanno parte della presidenza anche Mario Bardelli (l’altro vice presidente), Angelo Compagnoni, Federico Genitoni, Fernando Lavorano, Giuseppe Marchesano, Afro Rossi e Giorgio Veronesi.
Nella Confcoltivatori si era formato un gruppo di giovani funzionari, con competenze tecniche e professionali rilevanti: Mario Campli, Giancarlo Pasquali, Giovanni Posani, Bruno Tamponi, Nicola Stolfi, Carlo Pelosi, Nicolino Ponzi, Gianfranco Ronga, solo per citarne alcuni. E per ricordare Giovanni, Bruno, Nicolino e Gianfranco prematuramente scomparsi. Renato se ne avvale soprattutto nei rapporti con le istituzioni europee.
Avolio e Ognibene incontrano il presidente della commissione della Cee Roy Jenkins, i commissari Finn Olav Gundelach, Antonio Giolitti e Lorenzo Natali, il presidente del Parlamento europeo Emilio Colombo e i rappresentanti dei gruppi parlamentari. L’obiettivo è accelerare l’integrazione europea, allargare la Cee a Spagna, Grecia e Portogallo, riequilibrare la Pac e spostare l’asse strategico verso il Mediterraneo. Su questi punti c’è piena sintonia con il ministro dell’Agricoltura Giovanni Marcora che porta a casa il “Pacchetto Mediterraneo”.
Nell’autunno del 1978 Renato viene nominato consigliere del Comitato economico e sociale della Cee in rappresentanza della Confcoltivatori e vi resterà per due mandati fino al 1986. È la stagione del lungo potere di François Mitterrand in Francia e dell’impegno europeista di Jacques Delors al vertice della Commissione europea. Mentre in Germania Helmut Schmidt disegna un volto nuovo della socialdemocrazia tedesca, sia con la sua esperienza di governo, sia con la sua incessante azione intellettuale. Egli sta, infatti, fornendo un contributo importante per allargare la Comunità ai paesi scandinavi e disegnare l’architettura dell’unione monetaria europea e della banca centrale europea. Inoltre, nel Parlamento europeo, presiede la commissione per gli Affari istituzionali il federalista Altiero Spinelli che il 15 febbraio 1984 fa approvare dall’Assemblea il Progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea. Fortemente collegato a questi grandi protagonisti, Bettino Craxi elabora in Italia una autonoma visione politica di chiaro impianto socialdemocratico ed europeista con Giolitti e, poi, Ripa di Meana nella funzione di commissari europei. Il protagonismo socialista contribuisce in modo determinante ad accrescere il prestigio dell’Italia nella Cee e nel mondo. In momenti di gravi tensioni, consente di agire con fermezza a difesa della nostra dignità e sovranità nazionale anche nei confronti degli Usa, senza che per ciò venga meno la fiducia dei paesi della Nato verso l’Italia. Si creano, dunque, le condizioni più propizie per bilanciare gli orientamenti sempre più conservatori che il peso dei popolari imponeva alla Comunità europea.
In Italia, la novità della nascita della Confcoltivatori contribuisce a smuovere l’intero mondo agricolo. Nel 1978 il presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, non può rifiutarsi di incontrare ufficialmente Avolio, così come aveva fatto con il presidente dell’Alleanza, Attilio Esposto. E, nel 1980, al fondatore della Coldiretti subentra Arcangelo Lobianco che inaugura una normalizzazione dei rapporti tra le due organizzazioni, partecipa alle iniziative del Pci e del Psi sull’agricoltura e apre ai sindacati Cgil, Cisl e Uil.
Nello stesso tempo, anche in casa Confagricoltura ci sono novità: nel 1979 Alfredo Diana, già presidente confederale dal 1969 al 1977, viene eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste della Dc, mentre il nuovo presidente Giandomenico Serra e, soprattutto il suo successore, Stefano Wallner, aprono un rapporto fecondo coi socialisti e coi sindacati.
Dalla doppia postazione di vicepresidente della Confcoltivatori e di consigliere del Comitato economico e sociale della Cee, Renato fornisce il suo contributo nel costruire il nuovo quadro delle relazioni politiche e sociali. Nell’organismo di Bruxelles opera gomito a gomito con Umberto Emo Capodilista, dirigente della Confagricoltura e presidente del Copa-Cogeca, nonché con Giovanni Rainero, responsabile delle relazioni internazionali della Coldiretti. Si deve anche a questa incessante attività di rappresentanza svolta da Renato, se in breve tempo si perviene a intese tra le tre organizzazioni professionali agricole, alla formalizzazione di impegni comuni, come la consulta dell’Associazione italiana allevatori, e all’accoglimento della richiesta della Confcoltivatori di far parte del Comitato delle organizzazioni professionali agricole (Copa) in una Comunità che, nel frattempo, si allarga a Grecia, Spagna e Portogallo.
Al congresso di Rimini nel marzo 1980, Avolio e Ognibene sono confermati rispettivamente presidente e vice presidente. E compongono la giunta esecutiva e di coordinamento Antonio Bellocchio, Paolo De Carolis, Fernando Lavorano, Ignazio Mazzoli e Afro Rossi.
Nel febbraio 1981, su iniziativa della Confcoltivatori, si tiene a Palermo un incontro internazionale tra le organizzazioni agricole dell’area mediterranea. Nel novembre dello stesso anno, la Confederazione organizza una manifestazione di agricoltori a Bruxelles e intensifica il confronto con le istituzioni europee sui Programmi mediterranei.
La rinuncia
Ma accanto a questo protagonismo nei rapporti esterni, incomincia a serpeggiare nell’organizzazione una conflittualità tra comunisti e socialisti alimentata dai contrasti che si accentuano proprio in quel periodo. Dopo le elezioni politiche e quelle europee che si erano svolte nel 1979 a distanza di una settimana, si era riunito il comitato centrale del Pci e Berlinguer, rispondendo a Riccardo Terzi, un giovane e promettente dirigente lombardo, che proponeva di intraprendere una iniziativa unitaria delle forze di sinistra, aveva detto: “Se facessimo una precisa proposta al Psi in tal senso, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti nei nostri confronti per farci spostare passo dietro passo dalle nostre posizioni politiche ideali e finire su un terreno, diciamolo pure, socialdemocratico. Ma se ci muovessimo davvero in questa direzione, il Pci perderebbe ogni sua autonomia ideale e politica, cancellerebbe quella sua peculiarità che ne fa un partito che vuole lottare e lotta per il socialismo anche se secondo una sua propria concezione e seguendo una sua propria via”. Non solo. Dopo il terremoto del 1980 che aveva colpito disastrosamente la Basilicata e l’Irpinia, Berlinguer aveva promosso la cosiddetta “seconda svolta di Salerno” che introduceva un’imbarazzante ambiguità: per un verso il segretario comunista parlava di “alternativa”, lasciando intendere che abbandonava l’obiettivo di creare governi imperniati sulla Dc, e, per un altro verso, contrapponeva tale alternativa all’”alternativa di sinistra”. Il Pci si proponeva come perno di un “governo degli onesti”, un obiettivo che non stava né in cielo né in terra. Si avviava così per questo partito una lunga fase di isolamento e mancanza di una strategia politica. E si arriva in queste condizioni alle elezioni politiche del 1983, in cui a fronte di un quasi 33% di voti alla Dc si registra l’oltre 40% di consensi al Pci e al Psi, ma nessuno dei due partiti ha la lungimiranza di proporre alla Dc e alle altre forze di centro un governo a guida socialista che vedesse unita la sinistra. Un governo per fare cosa? Quelle riforme costituzionali molto necessarie per ammodernare le nostre istituzioni e di cui molto si parlerà quando ormai la crisi del sistema politico si sarà consumata completamente. Una crisi che viene favorita proprio da partiti privi di qualsiasi strategia e incapaci di rinnovare la propria cultura politica.
In questo clima politico molto teso, Renato deve tenere a bada i mal di pancia della componente comunista che imputa al vice presidente una debolezza politica nel fronteggiare il protagonismo di Avolio. Il quale, a sua volta, subisce la pressione dai suoi compagni che vorrebbero un più intenso rapporto con il Psi anche alzando i toni della polemica nei confronti del Pci. Entrambi i partiti, infatti, dalla nascita della Confcoltivatori non avevano assunto una sola iniziativa per valorizzare questa presenza nuova nelle campagne italiane e avevano di fatto rinunciato a tenere vivo il dibattito sulla necessità di un adeguamento continuo delle forme di rappresentanza in agricoltura, a partire dalle organizzazioni economiche. Ma un conto è questo giusto rilievo circa una disattenzione politica dei partiti, facendola pesare soprattutto sul partito più grande, altra cosa è rilevare il venir meno di una dialettica interna di tipo correntizio. Nei confronti di Renato si muove una critica che sicuramente è stata per lui motivo di dolore: avrebbe intensificato il suo impegno a Bruxelles – si disse – per sottrarsi al suo compito di “tallonare” il presidente. Renato ne soffrì a tal punto da maturare la decisione di non ricandidarsi più alla vicepresidenza.
Guardando a quella vicenda col senno di poi e avendo oggi chiaro il contesto di medio periodo entro cui essa si inseriva, ritengo che quella critica era del tutto infondata e che fu un errore dell’intero gruppo dirigente non difendere Renato da simili attacchi. Egli giustamente riteneva che non ci fossero motivi politici attinenti alle funzioni proprie della Confederazione per scontrarsi coi socialisti e che anzi, al contrario, si doveva proprio all’autorevolezza e all’indubbia capacità politica di Avolio se l’organizzazione si stava rafforzando e se il pezzo di agricoltura che noi rappresentavamo usciva da una condizione di isolamento e di discriminazione. Peraltro, al gruppo dirigente del Pci la presidenza Avolio era gradita: infatti, egli non era allineato a nessuna corrente interna, nemmeno a quella craxiana. E tale gradimento non si era attenuato nemmeno quando Berlinguer aveva allontanato dalla segreteria Chiaromonte e Napolitano, che avevano con Avolio una consuetudine di rapporti che risaliva agli anni giovanili.
Non era una fuga nei “palazzi” della Comunità europea quella di Renato ma una intelligente e generosa disponibilità a favorire una distribuzione di compiti tra lui e il presidente, evitando di dare l’impressione di muoversi in coppia come nelle gendarmerie. Un atteggiamento di buon senso del tutto collimante con lo spirito del progetto fondativo della Confcoltivatori. Influenzati dalle conflittualità dei partiti, non davamo il giusto peso al fatto che il nostro progetto costituisse una grande novità nella sinistra italiana, culturale, prima ancora che politico-professionale: non solo aveva permesso alle organizzazioni contadine di superare un ritardo storico, ma indicava una prospettiva di cambiamento per l’insieme della rappresentanza agricola. Un progetto che non era frutto di un compromesso o di equilibri tra componenti o visioni politiche, bensì poggiato su un’idea pluralistica delle agricolture del nostro paese, senza privilegiare un modello rispetto ad un altro. La presidenza Avolio incarnava tale novità in una chiara visione europeista e progressista. Ed era per questo che non c’erano appigli per distinguerci nella dialettica interna tra comunisti e socialisti. C’era invece la necessità di garantire il pluralismo tra sensibilità diverse riferite ai modelli agricoli. E Avolio garantiva tutti da questo punto di vista. Avremmo dovuto, pertanto, esaltare questa unità progettuale e indicarla ai partiti come un esempio, una buona pratica perché essi lavorassero per l’unità della sinistra. Insomma, non avremmo dovuto sostituire Ognibene, ma eliminare la funzione del vice presidente come espressione della componente partitica opposta a quella del presidente, andando al superamento delle vecchie correnti e impostando la dialettica interna su nuovi contenuti attinenti ai problemi e al modo di essere del settore agricolo.
Nel 1983, in occasione del congresso di Roma, fu accolta la richiesta di Renato di non essere confermato vice presidente e gli venne lasciato il compito di rappresentare la Confederazione nel Comitato economico e sociale della Cee per un altro mandato. Era venuto il responsabile della commissione agraria del Pci, Gaetano Di Marino, in occasione di una riunione del nostro consiglio generale, a officiare il rito della consultazione di tutti i membri comunisti dell’organismo per indicare il nuovo vice presidente. Ci furono quelli che preferivano la soluzione interna (Mario Campli e Francesco Caracciolo) e quelli che optavano per la soluzione esterna (Massimo Bellotti). Ricordo di aver indicato Mario, che aveva qualità politiche e competenze tecnico-professionali adeguate e, per questo, emergeva nel gruppo dei dirigenti più giovani. Ma soprattutto aveva a suo favore un requisito che altri non potevano vantare: si era formato nella Confcoltivatori e non proveniva dalle organizzazioni contadine che vie erano confluite. Avevo avuto modo di apprezzarne lo spessore culturale e l’autenticità in alcune iniziative molto qualificate: il convegno su “La ricostruzione e lo sviluppo post-terremoto” a Bella, il seminario su “La spesa pubblica in agricoltura” a S. Severa e il seminario su “L’acqua e lo sviluppo agricolo” a Ferrandina che si concluse nel Teatro Duni di Matera con una tavola rotonda e un discorso di Avolio sulla necessità di istituire una “autorità nazionale” per l’uso plurimo delle acque. Prevalse, invece, la soluzione esterna che era quella sostenuta dal partito.
Massimo portò dalla Lega delle cooperative la cultura dell’organizzazione economica, ma il problema politico che la rinuncia di Renato aveva posto, non si sciolse. Non si poteva risolvere perché non lo avevamo esplicitato nemmeno a noi stessi: ci arrabattavamo nei congressi successivi a modificare continuamente il nome della funzione (vice presidente vicario, presidente aggiunto e così via) per dare un contenuto a un ruolo che era nei fatti superato. Ci volle tutta l’intelligente concretezza di Avolio e Bellotti perché si andasse, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino ed esauritasi la pressione dei partiti sulle cosiddette “organizzazioni di massa”, al superamento anche formale delle componenti partitiche.
Renato aveva 57 anni quando lasciò la vicepresidenza della Confcoltivatori. Con la modestia e la semplicità che lo contraddistingueva, svolse per due mandati la funzione di presidente del Patronato Inac. Ho vivido il ricordo di questo suo ultimo impegno di lavoro nella Confederazione che Renato portò a termine con l’entusiasmo e la meticolosità di sempre. Poi se ne tornò nella sua Modena e si dedicò all’ANPI della sua città, svolgendo il ruolo di vicepresidente, fino a che la malattia lo costrinse a ritirarsi e lo condusse alla morte. Si spense l’11 luglio 2007. In quest’ultima funzione, aveva avuto modo di dichiarare: “…nella vita di una persona, come nella vita di una nazione, ci sono alcuni valori che non si vendono e non si comprano, che non si cedono. Ecco perché la riaffermazione dei valori della Resistenza nella realtà di oggi, a cominciare dalla pace, è il terreno per la costruzione di un rinnovato patto tra le generazioni”.
Oggi cade l’anniversario della sua scomparsa. E ho avvertito il bisogno di onorare la memoria di Renato Ognibene e tributargli il debito di riconoscenza che tanti di noi abbiamo nei suoi confronti.