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Comunicazione al Seminario del Forum del Terzo Settore del Lazio su “Linee guida per la partecipazione del terzo settore alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale emanate dall’Agenzia del Terzo Settore”, svoltosi a Roma il 16 maggio 2012
Per ragionare in modo realistico sulle forme di partecipazione della società civile a livello locale adattabili all’attuale contesto socio-economico e politico-istituzionale, occorre tener conto di tre elementi: 1) il progressivo affievolirsi del bene di legame nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini; 2) lo scadimento della qualità democratica della decisione; 3) l’evoluzione della rappresentanza sociale dal modello contrattualistico e concorrenziale a quello cooperativo.
Il bene di legame nel rapporto istituzioni-cittadini
Il bene di legame nel rapporto istituzioni-cittadini era garantito, nel secondo Dopoguerra e fino alla fine degli anni Settanta, sia dalle grandi appartenenze ideologiche mediate dai partiti di massa, sia dalla dimensione delle politiche pubbliche derivanti dall’esercizio dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, che l’art. 2 della Costituzione pone sullo stesso piano del riconoscimento dei diritti umani definiti inviolabili.
La norma costituzionale citata riconosce i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. Nel medesimo articolo sono poi prescritti i doveri di solidarietà, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.
Ma quale solidarietà? Quella politica, economica e sociale; dunque, non solo politica e sociale, ma anche economica. Nell’ambito dell’economia di mercato, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale.
Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile alprincipio di restituzione o principio filantropico, che vige negli Stati uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza.
In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va disposto legalmente. L’idea che la sostiene è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società rispettare e sostenere tali diritti.
Concretamente, nel secondo Dopoguerra, la solidarietà politica, economica e sociale si è inverata nella forte presenza del pubblico nell’economia (partecipazioni statali), nelle grandi riforme socio-economiche (agricoltura, scuola, sanità), nella costruzione di un welfare centralistico e risarcitorio, nell’istituzione delle regioni.
Con la globalizzazione, la costruzione dell’Unione europea, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato i doveri di solidarietà si sono esaurite e non ci sono più le condizioni per ripristinarle.
La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico. Le residue politiche di solidarietà continuano a portare i caratteri del modello con cui sono state edificate: sono infatti spersonalizzate, centralistiche e burocratizzate. Al centro non ci sono le persone intese come singoli individui con bisogni differenziati, gli uni diversi dagli altri, bensì categorie indistinte: disabili, immigrati, non autosufficienti, ecc. Inoltre, in queste politiche si annette scarsa importanza alle relazioni e alle formazioni sociali. Emerge, dunque, una solidarietà fredda, impersonale, meramente formale e in più anche residuale perchè priva dell’impalcatura di organiche politiche nazionali attuate nella prima Repubblica ed ora non più riproponibili.
Come porre rimedio a siffatti limiti che caratterizzano le attuali politiche pubbliche?
Un possibile rimedio appare quello di rendere le istituzioni inclusive con una decrescita delle impalcature burocratiche elefantiache e una rivitalizzazione di quelle forme d’intervento che rafforzano le relazioni interpersonali, la fiducia, la gratuità, la reciprocità. Tutti elementi che si generano nella società civile, intesa come insieme di corpi intermedi organizzati, e che – come afferma Stefano Zamagni – costituiscono il presupposto per la nascita e il corretto funzionamento delle istituzioni e del mercato a salvaguardia di una democrazia liberale e non dispotica.
Scrive Alexis de Toqueville in “La Democrazia in America”: “I sentimenti e le idee si rinnovano, il cuore si ingrandisce e lo spirito umano si sviluppa solo grazie all’azione reciproca degli uomini gli uni sugli altri. Questa azione è quasi nulla nei paesi democratici; bisogna dunque crearla artificialmente e questo si può fare solo per mezzo delle associazioni”. “E’ facile prevedere – continua il pensatore politico francese – che si avvicina un tempo in cui l’uomo singolo sarà sempre meno in grado di produrre da solo le cose più comuni e necessarie alla vita. Quindi le funzioni del potere sociale si accresceranno continuamente e saranno rese sempre più vaste dal suo stesso sforzo. Più il governo si metterà al posto delle associazioni e più i singoli, perdendo l’idea di associarsi, sentiranno il bisogno che esso venga in loro aiuto: queste cause e questi effetti si riprodurranno continuamente”. E dopo aver avvertito che “presso i popoli democratici tutti i cittadini sono indipendenti e deboli, non possono quasi nulla da soli e nessuno di loro può obbligare gli altri a prestargli aiuto”, Toqueville conclude: “se non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono tutti nell’impotenza”.
Per poter rivitalizzare i beni relazionali e la capacità della società civile di produrli, occorre recuperare dalla triade della Rivoluzione Francese (liberté, egalité, fraternité) la fraternità, che non va confusa con la solidarietà. E’ necessario perseguire una solidarietà fraterna e una fraternità civile. Una fraternità dei moderni da distinguere nettamente dalla fraternità degli antichi, che era fondata sui legami di suolo e di sangue. La fraternità dei moderni è universalistica e va fondata su di un nuovo civismo nell’economia e nella società – fatto di imprenditorialità civile, di mercati civili e di cittadinanza attiva – che riproduca quel bene di legame che la solidarietà costituzionale, da sola, non riesce più a garantire.
Vi è, innanzitutto, l’esigenza che le istituzioni riconoscano la capacità della società civile di realizzare da sé determinate risposte ai bisogni sociali, mediante l’applicazione piena delprincipio di sussidiarietà. Occorre passare da una sussidiarietà ottriata o concessa ad una sussidiarietà fondata sul riconoscimento della società civile autorganizzata. La mancanza di questa visione corretta della sussidiarietà crea forme dirigistiche nei rapporti tra istituzioni e cittadini che frenano la capacità della società civile di formare reti di economie civili e di cittadinanza attiva.
Alle istituzioni spetta intervenire in modo forte solo in talune materie e in altre deve svolgere pur sempre un duplice, importante ruolo. Da un lato, riconoscere l’autorganizzazione dei soggetti civili in tutti gli ambiti in cui ritengono, in piena indipendenza, di impegnarsi per il bene comune. Dall’altro, garantire le regole di esercizio di questa autorganizzazione.
Perché non immaginare per la gestione dell’acqua e di altri commons una soluzione simile a quella che è emersa negli ultimi decenni dalla società civile sui temi della cura e del disagio?
In questi ambiti, fino a trent’anni fa la gestione stava solo in mano allo Stato o alle famiglie. Oggi gran parte di questi servizi sono in mano alla cooperazione sociale, che li gestisce in modo efficiente (mercato quindi), ma senza avere il profitto come movente. Bisognerebbe dar vita a nuove imprese sociali per la gestione dell’acqua o di altri beni comuni che siano il frutto di un’alleanza tra pubblico, imprese e società civile. Senza proibire per legge i profitti alle imprese sociali (anche perché occorreranno capitali significativi) ma prevedendogovernance pluralistiche e con più soggetti coinvolti nelle decisioni.
Si tratta di istituire profondi legami con le comunità locali interessate alla gestione democratica dell’acqua, delle aree agricole pubbliche, delle energie e di tutti quei beni che saranno sempre più il confine tra politica, mercato e società civile e che per la loro gestione richiedono più creatività e alleanze di quelle che siamo stati capaci di immaginare e generare finora.
E’ in questo modo che si possono rilanciare le politiche di solidarietà nel nuovo assetto politico-istituzionale, che vede sempre più lo Stato arretrare da una presenza diretta nell’economia, il welfare perdere il prevalente carattere risarcitorio, le politiche di sviluppo economico e di inclusione rientrare sempre più nell’alveo delle competenze comunitarie e le istituzioni nazionali assumere una fisionomia federalistica.
Se il modello delle politiche di solidarietà realizzato nella prima Repubblica poteva fare anche a meno della fraternità civile, perché si poggiava essenzialmente sul centralismo istituzionale, sull’interventismo statale nell’economia e sulla capacità dei partiti di generare legami ideologici di appartenenza, oggi che queste condizioni non ci sono più, è diventata una necessità produrre un nuovo collante nelle relazioni sociali e nei rapporti tra le istituzioni e i cittadini. E’ per questo che nelle democrazie del terzo millennio torna in auge la fraternità civile come una delle nuove virtù del mercato e come connotato di fondo della sussidiarietà orizzontale.
La qualità democratica della decisione
La partecipazione è un tassello del processo di formazione della decisione democratica.
La rapidità imposta dai ritmi dell’informazione-comunicazione ha reso, negli ultimi decenni, obsolete e inservibili le coordinate e le procedure che si erano adottate nel processo decisionale democratico, travolgendo anche le forme tradizionali della partecipazione.
Democrazia e scelta costituiscono un binomio inscindibile. E la scelta, per essere tale, deve avvenire sempre tra alternative possibili e verificabili. Ma oggi le istituzioni tendono a far apparire la scelta che si compie come la sola ed unica possibile, come esito inevitabile di un continuo stato di emergenza.
Bisognerebbe contrastare questa tendenza ragionando su cosa e come i cittadini, singolarmente e in quanto formazione sociale, possono partecipare alla scelta e alla decisione.
La decisione può essere ricca e dinamica pur non perdendo nulla in efficacia e precisione. Essa non deve andare in rotta di collisione con la rapidità imposta dai ritmi della informazione-comunicazione.
Per ottenere tale risultato occorre agire sulla trasparenza della decisione, facendo in modo che vi sia la comunicazione pubblica dei dati inerenti le possibili scelte, delle modalità riguardanti il processo decisionale, del soggetto che prende la decisione.
Solo la trasparenza consente, infatti, di partecipare al dibattito pubblico per influire sulla decisione e di attivare successivamente il controllo sulle procedure adottate per la decisione.
Il cittadino deve essere informato per potersi mobilitare ed esercitare il diritto di partecipazione.
La decisione è però solo la conclusione di un processo non breve, che la precede e la prepara.
Noi viviamo un tempo in cui i flussi informativi sono dinamici. Vi è, dunque, la necessità di selezionare e organizzare l’informazione dei dati che riguardano la decisione, facendo emergere le alternative possibili delle scelte da compiere.
Questo è un compito fondamentale che si stanno assumendo le reti di economie civili e di cittadinanza attiva.
L’evoluzione della rappresentanza sociale
Le reti che stanno nascendo ribaltano, infatti, le logiche della rappresentanza sociale tipiche del contrattualismo dell’economia fordista e del vecchio Stato sociale.
Ci si aggrega sulla base di programmi e obiettivi ben precisi, rifuggendo da schemi di collateralismo politico. Le organizzazioni che si attardano ancora in quelle logiche vivono spesso una condizione di impotenza.
L’approccio delle reti alla partecipazione non è di tipo concorrenziale e contrattualistico(mediazione di interessi), bensì di stampo cooperativo, mettendo in gioco non tanto la forza dei numeri (numero addetti, contributo al PIL, ecc.) quanto invece la capacità di produrre beni relazionali in una logica reciprocamente solidale.
Nelle reti non si delimitano a priori ambiti e confini, ma si mantiene continuamente la porta aperta a nuove competenze e attività coerenti coi programmi.
Le reti sono per loro natura inclusive e dialoganti e quando perdono queste caratteristiche si esauriscono.
Le reti servono proprio per creare ponti inediti, nuove combinazioni, contaminazioni innovative, rifuggendo da impostazioni fondate sulle chiusure corporative, l’antagonismo e la contrapposizione frontale di modelli organizzativi e ispirazioni ideali.
Per incivilire le economie bisogna uscire dalla logica amico/nemico e abbandonare la visione della vita come una lotta continua contro qualcuno o qualcosa da annientare. Si tratta, invece, di riconoscere il pluralismo degli ethos del mercato ricercando sinergie, collaborazioni tra diversi modelli e ispirazioni culturali.
Le reti sono, dunque, interessate alla partecipazione cooperativa. Questa si può rafforzare con la trasparenza nella decisione democratica, che permette alla società civile di intervenire in modo propositivo nel dibattito pubblico, influire con la mobilitazione nella scelta e nella decisione ed esercitare il controllo sociale sul processo decisionale.
Le nuove forme di partecipazione cooperativa
Le forme di partecipazione cooperativa che si vanno affermando nella società civile si possono migliorare nell’ambito di una corretta impostazione della sussidiarietà, da fondare sul riconoscimento della capacità dei cittadini di autorganizzarsi e di produrre elementi di fraternità civile, e in una revisione qualitativa della decisione democratica, da rendere trasparente e controllabile.
Ma quali altre forme di partecipazione cooperativa possono essere adottate dal Terzo settore nel determinare le politiche pubbliche, al di là della capacità di influire nella decisione democratica con la mobilitazione e la presenza nel dibattito pubblico?
Oggi la partecipazione organica del Terzo settore, laddove viene praticata, è generalmente limitata alla definizione delle politiche sociali e di quelle socio-sanitarie.
Le linee guida elaborate dall’Agenzia del Terzo settore indicano opportunamente la necessità di ampliare il ventaglio degli ambiti, su cui assicurare la partecipazione del Terzo settore, a tutte le politiche del sistema di welfare. E’ un’impostazione più corretta e più coerente con il principio di sussidiarietà che si applica a tutti gli ambiti del bene comune.
Ma se è così ha meno senso prevedere uffici unici per le relazioni con il Terzo settore, perché gli ambiti di interesse che lo riguardano sono distribuiti tra diverse competenze della pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda la partecipazione organica del Terzo settore alle politiche locali, non appare realistico né istituire, per ciascuna politica di interesse del Terzo settore, sedi ad hoc esclusive per esso, né creare una sede partecipativa unica ed esclusiva.
La strada più realisticamente percorribile appare quella di richiedere che in tutti gli organismi collegiali / sedi di partecipazione che riguardano le diverse politiche pubbliche sia prevista la presenza di rappresentanti del Terzo settore accanto ai rappresentanti delle altre organizzazioni di categoria.
In realtà, sull’efficacia di tali sedi da tempo aleggia un generale scetticismo, soprattutto per quanto riguarda proprio la presenza delle organizzazioni diverse da Confindustria e sindacati. Si ritiene sempre più del tutto inutile e ininfluente la partecipazione delle piccole e medie organizzazioni in tali sedi, che risultano pletoriche e utilizzate da queste più per acquisire informazioni che per condizionare le scelte. La stessa considerazione viene fatta per le sedi settoriali, egemonizzate anche queste dalle organizzazioni che vantano il maggior numero di iscritti
In verità, tali sedi sono soltanto il paravento istituzionale e formale delle mediazioni di interessi (sempre al ribasso rispetto al bene comune), a cui partecipano le organizzazioni più influenti a scapito di quelle più deboli.
Non sembrano, dunque, queste le forme di partecipazione con cui possono migliorare i rapporti tra le istituzioni e il Terzo settore, che ha nel proprio DNA la tutela dei soggetti più deboli, la promozione di un associazionismo e di una imprenditorialità a movente ideale e la prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolaristici.
Andrebbero indagate e sperimentate quelle nuove forme di partecipazione dei cittadini, che potrebbero incrementarsi e diffondersi qualora il Terzo settore si impegnasse in modo più diretto. Si tratta di quei percorsi partecipativi dal basso volti a promuovere progettualità nei territori.
I percorsi partecipativi dal basso
La prima condizione per sviluppare percorsi partecipativi dal basso è la presenza ai tavolilocali di facilitatori di comunità. Ad essi andrebbero affidate talune funzioni importanti che si possono così riassumere:
1) gestire il dialogo tra attori con competenze diverse;
2) aiutare a costruire i partenariati;
3) indicare il metodo per inventariare i bisogni e le risorse;
4) promuovere percorsi che sviluppino la capacità dei singoli cittadini di vedersi coautori di processi produttivi e quindi della scelta di prodotti e di servizi, pur rimanendo consumatori o utenti;
5) redigere i protocolli d’intesa;
6) favorire il passaggio dall’idea progettuale al vero e proprio progetto;
7) introdurre nella progettazione un’azione efficace di verifica, monitoraggio e valutazione.
I facilitatori di comunità e poi tutti i soggetti coinvolti nei percorsi partecipativi dovrebbero acquisire competenze partecipative che si possono distinguere in competenze cognitive e in competenze sociali.
Le competenze cognitive coinvolgono sia l’uso di teorie e concetti che conoscenze implicite, guadagnate con l’esperienza. Possiamo distinguerle in:
a) competenze di ordine giuridico e politico, vale a dire conoscenze sulle istituzioni pubbliche e sulle regole di libertà e di azione, che implicano la presa di coscienza che tali istituzioni e regole sono sotto la responsabilità di tutti i cittadini;
b) conoscenze del mondo attuale, che implicano capacità di analisi critica della società, di anticipazione, di saper collocare i problemi e la loro soluzione nel tempo, non limitandosi ad un esame superficiale;
c) competenze di tipo procedurale, trasferibili e quindi utilizzabili in una molteplicità di situazioni, che implicano la conoscenza dei principi e dei valori dei diritti dell’uomo, della cittadinanza democratica e si richiamano ad una concezione della persona umana fondata sulla libertà, sull’uguale dignità di ciascuno e sulla fraternità civile.
Le competenze sociali sono quelle che più influiscono nello sviluppo della capacità partecipativa: sono, infatti, conoscenze, atteggiamenti, valori acquisiti attraverso le esperienze quotidiane della vita personale e sociale e che si traducono in capacità di azione.
La seconda condizione irrinunciabile per sviluppare i percorsi partecipativi è quella di garantire che al partenariato partecipino non soltanto organizzazioni di rappresentanza ed enti pubblici ma anche singole strutture (imprese, cooperative, associazioni, ecc.) e singoli cittadini (persone e gruppi familiari).
Il partenariato non va, infatti, considerato una sede dove le istituzioni e le organizzazioni di rappresentanza mediano interessi. Deve, invece, essere inteso come “luogo” di tessitura continua di relazioni tra soggetti che decidono di fare un percorso condiviso di progettazione partecipativa. Tanti fallimenti nelle forme di progettazione dal basso e nella costruzione delle reti hanno a che fare con relazioni spente, utilitaristiche, formali, divenute tali perché non più alimentate da fiducia e responsabilità e quindi non più amichevoli e fraterne.
La costruzione del partenariato concepita come tessitura di relazioni personali, di amicizia e di fraternità civile permette di:
a) concentrare l’attenzione su territori specifici piuttosto che sui singoli settori;
b) creare una visione comune circa l’evoluzione di un territorio;
c) favorire la divisione dei compiti, delle responsabilità, del coordinamento delle azioni, evitando sovrapposizioni o conflitti;
d) facilitare la partecipazione dei soggetti più deboli alle attività economiche e sociali del territorio.
L’esame del contesto socio-economico del territorio di riferimento è la condizione (e il pre-requisito) fondamentale per avviare la costruzione di una rete di economie civili.
L’analisi dei bisogni territoriali non deve essere solo uno studio descrittivo di tipo quantitativo, ma deve poter fornire anche indicazioni qualitative. Essa dovrebbe, in sostanza, portare alla lettura di un’intera realtà locale nella sua complessità, attingendo a fonti statistiche e utilizzando taluni strumenti come le interviste e il dialogo con gli attori coinvolti.
Si tratta di adottare il modello della ricerca-azione, multi-obiettivo e multi-disciplinare, vale a dire una procedura d’analisi che conduca, nelle sue conclusioni, a pianificare le azioni del progetto che si intende realizzare, da fondare sulle informazioni provenienti dalla ricerca, sulle relazioni che si svilupperanno e sulle potenzialità che da essa emergeranno. Un’analisi dei bisogni e delle risorse territoriali che sia in grado di suggerire, strada facendo, quei cambiamenti che si dovessero rendere necessari al mutare delle esigenze dovrebbe accompagnarsi ad un’azione di verifica, monitoraggio e valutazione.
A tal fine, un disegno di valutazione dovrebbe essere predisposto nella fase iniziale della ricerca, in cui verrebbero definite metodologie e strutture teoriche di riferimento. La centralità della valutazione in tale processo sarebbe determinante per monitorare l’andamento dell’analisi e per replicare tra gli attori della ricerca un metodo partecipativo di auto-verifica che si intende diffondere nella comunità oggetto di studio e soggetto d’azione.
Per essere efficace la progettualità territoriale andrebbe praticata indipendentemente da bandi pubblici per non essere condizionata da meccanismi burocratici che spesso ne mettono in discussione l’efficacia.
In tal modo i suoi esiti potrebbero sortire una serie di effetti virtuosi:
a) costituire elementi utili per orientare l’intervento pubblico ad adottare obiettivi, azioni, misure e procedure volte ad incrementare il capitale sociale e i beni relazionali e non, invece, come purtroppo accade sovente, a distruggerli;
b) favorire un cambio di mentalità sia nel mercato, promuovendo la relazionalità responsabile e la cittadinanza attiva, sia nello Stato, proponendo la collaborazione tra settori diversi, la competenza partecipativa e il riconoscimento dell’economia civile;
c) fare evolvere la rappresentanza sociale da mero strumento per mediare interessi a strumento di partecipazione cooperativa, che promuove autoapprendimento collettivo e innovazione sociale.