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Relazione alla prima sessione "L'agricoltura tra innovazione e tradizione. Uno scenario" nell'ambito del Seminario internazionale di studi delle ACLI su "L'agricoltura tra innovazione e sfruttamento", sostenuto dall’EZA e dall’Unione Europea (Triuggio – Milano 15 – 17 ottobre 2015)
La domanda a cui cercherò di rispondere con la presente relazione è la seguente: “Quale agricoltura possiamo immaginare per il prossimo futuro?” La situazione attuale in Europa vede confrontarsi una pluralità di modelli che si vanno articolando tra poli estremi: le agricolture che s’innovano continuamente e quelle che restano immobili e stagnanti da decenni; le campagne che si sono inserite nei percorsi della nuova ruralità e quelle che, dopo essere state interessate dalle innovazioni degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso a seguito della Rivoluzione verde, non si sono più innovate e sono tornate ad essere latifondo, magari a conduzione familiare e praticando colture intensive, ma ricorrendo al caporalato; i territori desertificati delle montagne che si spopolano e le città-territorio che riscoprono la civiltà degli orti. Emerge dappertutto timidamente un terziario innovativo che reinventa, in forme diversificate, l’agricoltura di servizi che caratterizzava gli albori della civiltà agraria quando nacquero le prime comunità sedentarie. Per comprendere il senso di tale evoluzione potrebbe tornare utile un rapido esame delle rotture storico-antropologiche, socioeconomiche e tecnologiche che hanno interessato le campagne europee.
Le conoscenze su questi aspetti e sull’evoluzione delle mentalità e dei comportamenti degli individui e dei gruppi umani sono ancora scarse e frammentate per territori diversi. Meriterebbero, invece, di essere approfondite mediante organici progetti di ricerca. Non si comprenderanno mai gli attuali problemi dell’Europa e degli europei se non si esamineranno fino in fondo i caratteri delle radici rurali e i mutamenti sociali che sono avvenuti nelle campagne e nelle città del nostro continente.
Nel primo volume dell’Enciclopedia Agraria Italiana, pubblicato nel 1952, la voce “Agricoltura” incomincia con la seguente definizione: “La più nobile attività dell’uomo civile, che, impegnando le proprie energie fisiche e spirituali, trae dalla terra, elevati a potenza, nello spazio e nel tempo, per qualità e quantità, nel quadro del maggiore tornaconto, i prodotti necessari per soddisfare i bisogni fondamentali della vita”.
In questa spiegazione del termine si possono cogliere sia gli aspetti della diversità e superiorità etica, sia quelli produttivistici e utilitaristici dell’agricoltura contemporanea. I connotati produttivistici e utilitaristici sono recenti giacché in origine non esistevano. Nascono con l’avvento della società industriale che ha preteso di ridurre ad un modello uniforme ogni aspetto della vita delle persone e delle comunità. Nelle società premoderne, si avvertiva, invece, il senso etico dell’attività agricola. L’idea della diversità e superiorità morale di questa attività ha accompagnato fin dall’inizio la formazione della civiltà agraria occidentale. Maturata in seno alla cultura greca arcaica, tale idea è stata fatta propria dal mondo romano, che l’ha lasciata in eredità a quello cristiano. Perché questa superiorità morale? Cosa caratterizza l’agricoltura da attirare una così alta reputazione?
L’agricoltura nasce come servizio alla comunità e alla natura
L’agricoltura nasce diecimila anni fa. Si tratta di ieri se si rapporta questo tempo ai milioni di anni che ci separano dalla comparsa dei primati sulla terra. Da sempre i gruppi umani si spostavano da un punto all’altro del globo alla ricerca di piante spontanee o di animali da predare per ricavarne del cibo. Allora alcune donne, stanche di quella vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, incominciarono ad osservare come avveniva la crescita e la fioritura di una pianta. Carpendo i segreti della natura, intuirono un fatto straordinario: dal momento della semina di una cultivar di frumento, selezionata tra tante in natura, e il tempo del raccolto, sarebbe trascorso un anno. E rimuginarono che quello era il tempo sufficiente per portare avanti una gravidanza. Gioirono al pensiero di quella intuizione. Finalmente potevano dare un senso e una giustificazione al loro bisogno di fermarsi e di mettere radici in un determinato territorio. Gli umani maschi continueranno ancora per alcuni millenni ad andare a caccia di animali e a raccogliere frutti spontanei almeno fino a quando non incominceranno a lavorare il metallo e inventeranno l’aratro. Per loro il mondo non aveva un luogo ma ovunque ci fosse cibo era una meta da raggiungere e poi abbandonare. Le prime comunità stanziali saranno, dunque, formate prevalentemente da donne, bambini e anziani.
Come si può constatare da questo racconto, l’agricoltura non nasce per produrre cibo, come oggi siamo indotti a pensare influenzati dalla visione produttivistica che si è imposta con la modernità. Il cibo già c’era ed era in abbondanza. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Nasce come forma di vita collettiva, come opportunità per acquisire un primo e rudimentale approccio scientifico nelle attività umane, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorge come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio. Le specie vegetali coltivate sono quelle capaci di assicurare gli elementi essenziali della dieta di una popolazione radicata in un territorio. Riso, grano e mais non possono essere coltivati fuori dal complesso meccanismo giuridico e militare di una società civile. E viceversa, una società civile non può esistere fuori da un contesto in cui il lavoro umano viene organizzato per rendere abitabile e coltivabile un territorio.
La nascita dell’agricoltura evoca l’idea di bonifica (fr. assainissement; sp. saneamiento; ingl. land reclamation; ted. Melioration), il cui significato più antico e più ampio è “ridurre la terra a coltura”, “rimuovere le cause che rendono infruttifera la terra”, “adattare il terreno e le acque a forme più civili di convivenza umana”.
Il significato più profondo del termine “coltivare” è “servire” la terra e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo. In Genesi si dice che Dio creò un “giardino”: tutta la terra era un immenso giardino. Poi “il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse”. “Coltivare” in ebraico si dice abad che letteralmente significa “servire”. Adamo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Scriveva Carlo Cattaneo: “Un popolo deve edificare i suoi campi come le sue città”.
Nel Mediterraneo non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentarle. I contadini mediterranei hanno sempre voluto vivere nelle città – i luoghi degli scambi – dove poter svolgere attività molteplici e avere rapporti continuativi e fecondi con altre città, nonché con la cultura e la scienza. Inizialmente i rapporti sociali sono tendenzialmente paritari. La schiavitù viene stabilita giuridicamente solo quando s’ingigantisce il fenomeno dei prigionieri di guerra. E, in agricoltura, l’utilizzo degli schiavi è stato praticato in modo sporadico almeno fino all’avvento del latifondo.
Se si legge attentamente il poema di Esiodo Le Opere e i Giorni, scritto tremila anni fa, si può notare che l’attività agricola è considerata come un servizio, un rito religioso. I lavori e gli scambi sono organizzati sulla base del principio di reciprocità. Essi consistono soprattutto nell’aiuto tra i vicini. La terra è ritenuta una divinità da servire. Essa impartisce i propri comandi mediante il rigore delle stagioni e i cicli regolari della vita vegetale.
Noi oggi conosciamo bene le modalità e gli effetti dell’asservimento dell’uomo alla macchina. Ma nell’attività agricola c’è un asservimento ancor più avvolgente alle regole di buon vicinato, ai tempi dettati dalla natura, dal clima, alla resistenza del terreno, alle regole per preservare la fertilità del suolo, alle regole per utilizzare l’acqua in modo parsimonioso. Coltivare non è solo manipolare la natura: è prima di tutto servire la comunità e la natura.
L’incivilimento lega l’agricoltura alla comunità e al territorio
L’agricoltura fa, dunque, la sua comparsa come attività di servizio che permette ad una comunità di insediarsi in un determinato territorio. Ma cos’è il territorio?
La parola “territorio” deriva dal latino terrae torus, letto di terra, e originariamente stava a significare quella porzione di terra della quale gli antichi popoli si appropriavano, attraverso la delimitazione di confini. L’espressione latina fines regĕre, tracciare il confine, voleva dire porre la regola (da regĕre, mantenere) dell’appartenenza (da appartenēre, far parte di) ad una comunità umana di una porzione dei terreni allora disponibili; voleva dire, in altri termini, che su quello spazio di terra si instaurava il primo rapporto giuridico di appartenenza collettiva della terra stessa ad una comunità umana.
L’invenzione dell’agricoltura avviene mediante l’accumulo di un sapere tecnico ed esperienziale che si tramanda di generazione in generazione. Un sapere paritario che vede i principi informatori del lavoro dei campi, dell’allevamento degli animali, del rapporto tra l’uomo e le risorse primarie, degli obblighi che il loro utilizzo viene a determinare, combinarsi con l’uso di simboli, misure, calcolo e scritture. Un sapere pratico e sperimentale che, alimentandosi dei valori di reciprocità e mutuo aiuto propri del mondo rurale, genera le prime comunità umane stanziali. C’è, dunque, un nesso inscindibile tra territorio, agricoltura e comunità. E il legame che unisce questi tre elementi è costituito dalla conoscenza e dall’esperienza intese, entrambi e in modo congiunto, volani di incivilimento.
Solitamente oggi si tende a non considerare che fin dalle origini e, per un lungo periodo, il raccolto dei prodotti della coltivazione era funzionale ad una pluralità di impieghi che permettevano l’insediamento stanziale. Solo una parte di quei prodotti serviva ad integrare i frutti spontanei e le proteine animali di terra e di mare. Ad esempio, l’olio da olive era impiegato in una molteplicità di usi. La sfera alimentare si è mantenuta sempre secondaria. Gli impieghi prevalenti erano nell’illuminazione e nell’industria laniera per poter abitare più agiatamente le città e vestirsi in modo più adeguato. Per un lungo periodo gli impieghi prevalenti dei prodotti agricoli sono stati in ambiti diversi dalla nutrizione.
La nascita dell’agricoltura non coincide, ovviamente, con la nascita della civiltà, che ha origine nel primo raggruppamento di uomini e nella loro capacità di elaborare contenuti culturali, credenze e atteggiamenti primari di fronte alla morte e alle forze del mondo esteriore da trasmettere alle generazioni successive. Ma ha sicuramente costituito un potente propulsore di civiltà.
Dall’agricoltura tradizionale all’agricoltura moderna
Ora lasciamo l’età neolitica e veniamo agli ultimi due millenni. Nei libri di storia si fa spesso riferimento alle crisi agrarie. Queste crisi che si verificavano in Europa fino alla nascita della società industriale erano caratterizzate da una dinamica che si fondava su un circolo vizioso perlopiù inevitabile. Questi sono gli elementi essenziali della dinamica delle crisi: eccesso di popolazione – insufficiente risposta alla domanda alimentare e conseguente carestia – indebolimento fisico della popolazione sottoalimentata che la predispone a epidemie, infezioni, contagio – scatenamento di epidemie micidiali che riducono la popolazione in misure altissime, fino a due terzi – la ridotta disponibilità di braccia fa calare la produzione, ma la falcidia epidemica riduce il fabbisogno in misura ancora più alta, mentre la contrazione delle forze di lavoro porta a concentrarsi sulle terre e sulle basi produttive a più alta redditività e permette quindi risorse alimentari più abbondanti – il surplus alimentare così disponibile favorisce la ripresa demografica – le braccia da lavoro tornano numerose e favoriscono forti incrementi ulteriori sia della popolazione che della produzione – il ritmo dell’incremento demografico è più forte di quello produttivo, benché anche gli spazi produttivi più marginali siano messi a profitto – fatalmente si riproduce l’eccesso di popolazione e si ritorna al punto di partenza del circuito che va dalla carestia all’epidemia e alla recessione.
Singoli momenti di questo circuito sono intercambiabili. L’epidemia può precedere e provocare la carestia, ad esempio, così come il rapporto tra fabbisogno e offerta alimentare può oscillare prima o dopo i momenti del circuito nei quali lo si può prevedere. Vi sono, inoltre, alcuni aspetti dello stesso circuito che presentano vari, ma non trascurabili, elementi di cronicità: sottoalimentazione, carestia ed epidemia in primo luogo, mentre in tutti i momenti si può far sentire in maniera determinante l’azione di fattori estemporanei o puramente accidentali o di più o meno prevedibile intermittenza (ancora le epidemie, carestie provocate da agenti naturali, guerre e conseguenti devastazioni, cataclismi o disastri, difficoltà e crisi sociali…). Né la cronicità, né l’estemporaneità di questi o di altri elementi alterano, tuttavia, la logica di fondo del circuito di cui si è detto. Una logica basata, evidentemente sul rapporto tra offerta e domanda alimentare, tra risorse e popolazione. A ben guardare siffatti elementi, non c’è da nutrire alcuna nostalgia per un passato fatto di grandi sofferenze e di indicibile miseria per vasti strati di popolazione.
Tale situazione dura fino alla fine del XVIII secolo, quando nell’agricoltura europea si verifica una fase di grande espansione. Segnali positivi si erano già registrati molto lentamente dal 1000 in poi, in prosecuzione di sviluppi largamente avviatisi, in alcune zone, già prima. A contribuire ad un più proficuo esercizio dell’agricoltura erano intervenuti più fattori: un certo raddolcimento del clima e, nello stesso tempo, l’introduzione di una non trascurabile serie di perfezionamenti tecnici. Ma ora si elimina il maggese, ossia il riposo della terra, consentendone così uno sfruttamento pieno e ininterrotto con colture foraggere. Si adottano sistemi di rotazione continua di colture. Si introducono nuove colture alimentari e non alimentari a rendimento più alto dei cereali o delle piante tradizionali. Si ampliano le terre coltivate. Si applicano i nuovi risultati della scienza idraulica per risanare e bonificare ampi territori impaludati e infestati dalla malaria. Si migliorano le attrezzature agricole e si introducono nuovi utensili. Si scelgono più accuratamente gli animali da riprodurre e le sementi. Si estende nel lavoro agricolo l’uso del cavallo in luogo dei buoi. Si realizza così quella che è stata identificata come Rivoluzione agronomica. La quale fa fiorire una letteratura cospicua, anima accademie e società agrarie e costituisce l’epilogo culminante della lunghissima tradizione per cui la terra e l’agricoltura costituivano il cuore dell’economia e delle società umane. Con tale rivoluzione si può provvedere ad alimentare una popolazione cresciuta molto. Si può rompere il ritmo millenario delle carestie. Si può disinnescare il meccanismo che saldava carestie ed epidemie e riequilibrava così il rapporto tra popolazione e risorse ogni volta che esso superava fatalmente una soglia critica.
La Rivoluzione agronomica non mette in discussione l’equilibrio tra produttivismo e conservazione delle risorse ambientali perché si fonda sull’osmosi – esistente fin dall’avvento dell’agricoltura – tra approccio scientifico rudimentale e approccio esperienziale. Tale influenza reciproca e paritaria determina comportamenti consapevoli e responsabili. Da sempre i contadini sono soliti dire che la terra in determinate condizioni “si stanca”. Ora, l’idea di stanchezza attiene ad un organismo vivente; e il fatto che i contadini abbiano sempre associato questa condizione anche alla terra, per rispettarne il decorso, è la prova di un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo bene.
La Rivoluzione agronomica favorisce l’avvio dell’industrializzazione con una richiesta crescente di ferro da parte delle campagne per le loro nuove strumentazioni, con l’offerta delle braccia in esse esuberanti e necessarie alle fabbriche, con un’offerta alimentare in grado di provvedere meglio al sostentamento di coloro che si trasferiscono nelle città. Molti dei nuovi piccoli e medi imprenditori industriali e anche alcuni di quelli più grandi provengono dalle campagne e portano con sé non solo le risorse di cui possono disporre, ma anche i valori della cultura rurale.
Lavoratori e imprenditori portano con sé un’idea non mercificata del lavoro. Nella società rurale lavorare voleva, infatti, dire riuscire a mangiare ogni giorno ma anche vivere in salute, dormire di notte e svegliarsi di buon’ora con energia ed entusiasmo. Lavorare significava curare le risorse naturali per riprodurle e rigenerarle a vantaggio delle generazioni successive. Lavorare, inoltre, voleva dire non avere troppi “grilli per la testa”, cioè vivere con sobrietà e serietà morale. Lavorare, infine, non doveva mai trasformarsi in forme prolungate di sfruttamento bestiale, a cui i contadini sapevano opporre una resistenza passiva e sottrarsi ricorrendo a volte anche all’astuzia. Lavorare e vivere con la terra era tutt’uno. Questa concezione del lavoro è alla base non solo del salto imprenditoriale compiuto da tanti contadini europei, quando, al sopraggiungere di talune condizioni, hanno dato vita all’agricoltura moderna, ma anche delle centinaia e centinaia di distretti industriali per iniziativa dei ceti rurali che hanno espresso imprenditori e operai specializzati nei settori manifatturieri. E siffatta cultura è rimasta nel codice genetico di quei milioni di contadini dei Paesi dell’Europa meridionale e orientale e del Sud del mondo che, nella seconda metà del Novecento, si sono trasferiti nelle metropoli europee.
L’assetto della società industriale e urbana che si edifica tra l’Ottocento e il Novecento in Europa affonda le proprie radici nella cultura rurale su cui si innesta lo spirito moderno. Senza il nuovo, grandissimo passo in avanti che l’agricoltura aveva fatto registrare dal 1000 in poi, sarebbe mancata all’economia europea la base stessa del processo che l’ha portata alla testa e al dominio dell’economia mondiale fino almeno alla metà del secolo XX. Come afferma con nettezza lo storico Giuseppe Galasso, l’agricoltura fu la condizione pregiudiziale indispensabile per l’accrescimento demografico, e per la fornitura, grazie a siffatto aumento della popolazione, allo sviluppo economico di un incremento, senza precedenti, sia del suo potenziale produttivo, sia delle eccedenze che la cresciuta produzione agricola rendeva disponibili fuori del settore agricolo.
La Rivoluzione verde
Con l’avvento della società industriale e urbana, all’agricoltura che, nel frattempo si è per gran parte modernizzata, si continua ancor più a richiedere un ingente sforzo produttivo per soddisfare i bisogni nutritivi di una popolazione che aumenta in modo esponenziale. Sicché, a metà del XX secolo, si ha quella straordinaria evoluzione dell’agricoltura identificata con il nome di Rivoluzione verde che nasce nei Paesi avanzati, ma riguarda soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Essa si presenta nella forma di uno spettacolare aumento produttivo delle principali specie (mais, riso, grano, ecc.) grazie all’uso di nuove varietà ibride create con tecniche di selezione artificiale. Tale evoluzione dell’agricoltura non ha solo il merito di contribuire a far calare sensibilmente la popolazione mondiale affamata e malnutrita. Ma anche quello di rallentare l’espansione della frontiera agricola, contribuendo così a preservare foreste e biodiversità. Laddove, invece, l’agricoltura non toccata dalla Rivoluzione verde si espande, come in America Latina, Africa occidentale e Sud-Est asiatico, lo fa a scapito di foreste, boschi e pascoli, spesso aggravando le fragilità iniziali di quegli ecosistemi, fino all’esito estremo della desertificazione.
Contestualmente alla Rivoluzione verde e in virtù di essa, l’Italia completa finalmente la sua configurazione di Paese industriale. Tale esito è il risultato della trasformazione del latifondo che ancora caratterizzava una parte consistente della sua agricoltura. Un latifondo che si presentava in modo differenziato. Innanzitutto nella forma a cui allude il significato etimologico e giuridico del termine: grande proprietà terriera su cui si pratica un’agricoltura estensiva. A questa forma di latifondo veniva inferto un colpo mortale con la riforma agraria del 1950. Essa prescriveva l’esproprio delle proprietà superiori ai 300 ettari e l’assegnazione in poderi a contadini senza terra. E così, a seguito delle opere infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno, la gran parte delle pianure meridionali si è potuta trasformare in fiorenti agricolture irrigue, per iniziativa perlopiù di contadini divenuti imprenditori.
Questo nelle zone costiere. Nel Mezzogiorno interno la parola “latifondo” significava qualcosa di più complesso che, per spiegarlo, Manlio Rossi-Doria era ricorso nel 1944 ad un ossimoro: “latifondo contadino”. Anche nell’interno c’erano grandi proprietà terriere a pascolo e a cereali. Ma qui le piccole e medie proprietà borghesi generavano gli stessi rapporti presenti in quelle grandi. Se latifondo era terra nuda, senza investimenti, a destinazioni colturali estensive, sulla quale lavoravano i contadini con rapporti precari su distaccati spezzoni concessi in affitto o in compartecipazione, o sulla quale insistevano embrionali aziende estensive del tipo della masseria, tutta la proprietà, grande o media o piccola che fosse, era latifondo.
Sicché il termine “latifondo” aveva perduto il significato giuridico originario per riempirsi di un significato più complesso: quello di “sistema di rapporti”, di “struttura economica e sociale”. Tutto il Mezzogiorno interno della penisola italiana era latifondistico e rappresentava il latifondo contadino. Era infatti il contadino al centro del sistema. Esso viveva nei grossi borghi perché, da quella postazione centrale, poteva più facilmente raggiungere volta per volta i dispersi piccoli appezzamenti di terra in proprietà, in affitto o in compartecipazione e ricomporre così la sua complessa e segmentata impresa, la quale gli assicurava la sopravvivenza.
Che il latifondo contadino rappresentasse un sistema era dimostrato dal fatto che ogni suo elemento era inseparabile da tutto il resto e dal meccanismo dei rapporti che, in esso operando, conservava e riproduceva continuamente gli stessi ordinamenti, secondo quelle che si potrebbero realmente chiamare leggi sue proprie. Tale immobilità non era l’esito di fattori naturali che rendeva quel territorio refrattario al progresso e all’intensificazione delle colture: terre più misere e difficili di quelle erano state trasformate altrove dalla mano dell’uomo, dai capitali, dalla tecnica dell’agricoltura progredita. Se il latifondo contadino non si trasformava, lo si doveva principalmente al fatto che quel sistema di rapporti rendeva non conveniente qualsiasi investimento, qualsiasi trasformazione. La difficoltà delle condizioni naturali riduceva, certo, i limiti di convenienza della trasformazione, ma chi li annullava del tutto e costringeva all’immobilità, era il fatto che la proprietà fondiaria, con quel sistema di rapporti, era in grado di ricavare rendite superiori a quelle che si sarebbero ottenute con qualsiasi altro sistema di conduzione dei terreni. La borghesia terriera del Mezzogiorno interno era redditiera per forza, per forza assenteista e parassitaria.
Il latifondo contadino dell’Italia meridionale venne sconvolto, nel secondo Dopoguerra, dal fiume in piena dell’emigrazione. Non si pervenne mai a programmi organici territoriali di sviluppo da formulare e realizzare con il coinvolgimento e il protagonismo attivo delle comunità locali. Le esperienze di pianificazione territoriale e di studio di comunità, che pure vennero tentate da alcuni pionieri dello sviluppo locale, furono ferocemente isolate e vanificate e poi definitivamente abbandonate. E il motivo di questa furia distruttrice sta nell’affermarsi di un’idea di sviluppo forzato dall’alto e incentrato sull’industrializzazione avulsa dalle risorse e dalle economie locali e senza il minimo coinvolgimento delle comunità interessate. Un’idea di sviluppo fallimentare che determinò una modernizzazione insana, sfociata, dagli anni Settanta in poi, nell’assistenzialismo e nella immobilità sociale.
Le radici agricole della costruzione dell’unità europea
A cambiare il quadro di riferimento dell’agricoltura europea venne poi il Trattato di Roma che istituiva la Comunità Economica Europea (CEE). In esso è affidato al settore primario il ruolo di garantire il raggiungimento dell’obiettivo della sicurezza alimentare. Tale espressione è intesa, in quel periodo, in un’accezione quantitativa come soluzione al problema della fame e della sottonutrizione e, quindi, come strumento di autonomia politica. La Politica Agricola Comune (PAC), che si avviò a seguito della Conferenza di Stresa del 1958 ed è stata per alcuni decenni l’unica politica comune, venne, in sostanza, pensata come strumento dell’Europa per non dover soggiacere a un eventuale ricatto alimentare. Il travaso di risorse in prevalenza dai contribuenti e dai consumatori a beneficio del settore primario assumeva, peraltro, la funzione di parziale redistribuzione della ricchezza prodotta dallo sviluppo economico a vantaggio dei soggetti (gli agricoltori) e dei territori (le aree rurali) più penalizzati da una strategia di sviluppo concentrata sulla grande industria e sulla grande città.
La PAC indusse un’impetuosa crescita produttiva perché la politica dei prezzi garantiva agli agricoltori maggiore sicurezza. Da millenni, invero, la produzione era sottoposta alle incertezze del clima e ai capricci del mercato. Si giungeva finalmente alla fissazione dei prezzi e erano previsti i compensi se questi calavano. Tali condizioni di maggiore protezione erano motivo di relativa stabilità per le aziende agricole e in più casi incoraggiarono gli investimenti.
Le agricolture europee incominciavano così a confrontarsi con le agricolture nord-americane. E si dava inizio ad un processo di graduale e sempre più spinta liberalizzazione dei mercati internazionali che imponeva agli agricoltori un’attitudine che non possedevano o che avevano perduto con l’assuefazione a politiche protezionistiche: l’attitudine a guardare con nuovi occhi al territorio e alla dimensione locale dello sviluppo e ad adattarsi continuamente agli equilibri mondiali e alla pressione dei Paesi emergenti. Nel giro di tre lustri l’Europa raggiungeva l’obiettivo della sicurezza alimentare, ma continuava a mantenere una politica che spingeva verso la crescita produttiva. La quale si trasformava ora in accumulo di eccedenze nei settori più protetti e in aumento incontrollato della spesa comunitaria.
Ci vorranno continue riforme per modificare lentamente quella politica. Dalla “riforma Mac Sharry” del 1992 all’ultima che parte quest’anno. Ma ancora oggi, nonostante il passaggio dalla politica dei prezzi a quella degli aiuti al reddito, essa resta marcatamente protezionistica, a danno dei paesi più poveri, e caratterizzata da meccanismi che erodono enormemente il capitale sociale delle campagne perché non incoraggiano la coesione sociale e l’innovazione. L’attuale sistema degli aiuti diretti non ha alcun senso nei Paesi industrializzati: era stato pensato come un modello di intervento transitorio per cinque anni ma ne sono passati altri venti. Non ha alcun senso perché le popolazioni non sono più afflitte dal problema della penuria alimentare e perché le campagne avrebbero bisogno non più di interventi assistenzialistici, bensì di più robuste ed efficienti politiche territoriali capaci di conseguire lo sviluppo delle società locali in tutti i loro molteplici aspetti. Ma c’è di più. Secondo una recentissima relazione informativa del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) sull’applicazione della riforma degli pagamenti diretti, la PAC è diventata più complicata e rischia di tradursi in maggiori oneri amministrativi. E tale esito è stato amplificato dal nuovo sistema decisionale europeo, il quale – a parere del CESE – conterrebbe in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di politiche che i Trattati definiscono “comuni”.
Milano Expo 2015 ha posto al centro il tema Nutrire il Pianeta. Molti ritengono a torto che sia un compito che competa anche alle agricolture dei Paesi avanzati quello di “nutrire il Pianeta”. In realtà è un errore drammatico pensare che i Paesi ricchi debbano produrre di più perché questa idea costituisce un grave rischio per i Paesi afflitti dalla fame. Noi dovremmo, invece, contribuire finanziariamente al loro sviluppo e fare in modo che in ogni parte del mondo ci si possa giovare della rivoluzione tecnologica in atto.
Expo ha tentato di richiamare il problema che l’umanità ha dinanzi a sé: il persistere della fame nel mondo – un mondo molto più ricco di un tempo – e l’urgenza di sconfiggerla. Ha tentato di farlo in termini corretti: se ancora oggi ci sono 870 milioni di persone denutrite o affamate – ben più di una su dieci sulla terra – non dipende da una penuria alimentare, ma dal fatto che questi individui non sono in condizione di procurarsi il cibo di cui hanno bisogno, acquistandolo o producendolo nel proprio appezzamento di terra. Come ha scritto il premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, non basta avere più cibo nel mondo o in un Paese, e nemmeno a livello locale, per rendere, di per sé, più semplice il reperimento di cibo da parte di chi soffre la denutrizione. La quantità di cibo che siamo in grado di acquistare dipende dal reddito che abbiamo, dalle attività che svolgiamo, dai servizi che siamo in grado di offrire e dai beni che riusciamo a produrre. In altre parole, dipende dai nostri introiti e questi, a loro volta, dipendono da quello che riusciamo a vendere. Il problema della fame è un problema di innovazione e sviluppo: questi sono i due elementi su cui far leva per affrontare i problemi dei Paesi più poveri e i problemi dei Paesi più ricchi.
Il latifondo caporalesco
In questo senso oggi il termine “latifondo” assume un significato nuovo: un sistema economico e sociale di rapporti in cui non conta più l’estensione grande o meno ampia delle aziende e il carattere estensivo o intensivo degli ordinamenti colturali, ma assume importanza il grado di innovazione che le imprese agricole manifestano. Il latifondo attuale è costituito da quelle aree agricole in cui ci sono aziende e unità produttive che da decenni non fanno più investimenti e non innovano prodotti, processi e organizzazione. E non innovano perché si sono creati circoli viziosi e convenienze concatenate che scoraggiano l’innovazione. È latifondo il sistema di aziende che praticano la monocoltura e non si aprono alla multifunzionalità e alla diversificazione delle attività. È latifondo il sistema di unità produttive che da decenni si lasciano taglieggiare da commercianti e industriali e non costruiscono sbocchi di mercato alternativi. Sono questi sistemi i più colpiti dalla crisi economica. Erano i più innovativi agli inizi delle trasformazioni agrarie avvenute con la diffusione dell’irrigazione e l’acquisizione dei ritrovati scientifici e tecnologici della Rivoluzione verde. Ma dopo quegli investimenti iniziali, non ce ne sono stati altri. Soprattutto è mancato ogni collegamento con la ricerca e la sperimentazione mediante un efficiente sistema di divulgazione. Non si sono diffuse forme socializzanti di innovazione. E si è consolidata una lunga fase (un quarantennio ormai) di stagnazione e immobilità, nonostante il massiccio flusso di finanziamenti comunitari che in questi decenni si è riversato nelle regioni europee.
E dove c’è stagnazione e immobilità s’innestano inevitabilmente tutti i fenomeni negativi, compreso il reclutamento illegale di manodopera, perché manca la spinta a trovare soluzioni tecnologiche e organizzative alla necessità di manodopera in quantità elevate in alcune fasi colturali. E manca la capacità creativa di sperimentare nuove funzioni agricole e nuove attività aziendali per sottrarsi a filiere dominate, da una parte, dalla grande distribuzione e dall’industria di trasformazione e, dall’altra, dal caporalato, entrambi spesso infiltrati dalle mafie e da nuove organizzazioni malavitose.
Nel 1978 il termine “caporalato” appare nel dizionario della lingua italiana Sabatini Coletti per indicare il “sistema illecito di reclutamento per lavori agricoli stagionali sottopagati”. È dunque dagli anni Settanta che produzioni pregiate e filiere diffuse nelle pianure costiere dell’Italia meridionale e profondamente inserite nei mercati nazionali e internazionali sono al centro di quel fenomeno odioso che si potrebbe definire “latifondo caporalesco”. Da allora, nelle aree dove tale fenomeno è presente, gli imprenditori agricoli vanno ripetendo: “Non possiamo pagare ai braccianti il salario previsto dai contratti provinciali, perché i prezzi dei nostri prodotti si abbassano e saremmo fuori dal mercato; il lavoro è l’unico costo che possiamo comprimere, mentre aumentano il gasolio, i concimi, le piantine”.
Da un quarantennio, in un quadro di immobilità e stagnazione, la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi ha, insomma, consentito a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata. Una pressione causata in definitiva dalla competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti agricoli (e di quelli industriali e dei servizi) come conseguenza inevitabile della “società aperta” edificata dalle democrazie occidentali nel secondo Dopoguerra.
Si è creato così un circolo vizioso fatto di una catena di vantaggi e utilità, i quali si sono inanellati l’uno all’altro e favoriscono una ripulsa all’innovazione e al cambiamento e spesso un progressivo arretramento. Non è una forzatura dire che le condizioni di stallo hanno determinato di fatto nuove arretratezze. I contesti di maggiore sofferenza vedono principalmente coinvolte le aziende agricole e la manodopera immigrata, le prime legate all’altra da uno stato di reciproca necessità e non già dalla condivisione di progetti imprenditoriali. E nel mezzo di questa duplice sofferenza, che non si è mai trasformata in dialogo e ascolto delle reciproche ragioni, si è inserito il caporalato con il suo sistema illegale di servizi.
Il fenomeno non è solo italiano. I conflitti avvenuti negli anni scorsi a El Ejido in Andalusia, a Manolada in Grecia e nelle Bouches-du-Rhône in Francia ci mostrano come i lavoratori migranti impiegati in agricoltura siano in condizioni difficili un po’ in tutta Europa, sebbene con modalità differenti. Per non parlare dell’agricoltura californiana, che alcuni economisti e sociologi hanno individuato come il modello – fatto di agricoltura intensiva e ipersfruttamento dei migranti – cui si stanno conformando le agricolture europee, soprattutto mediterranee.
Si può, dunque, sostenere che, nei paesi avanzati, lo sviluppo impetuoso dell’agricoltura ha risolto finalmente il problema dell’autosufficienza alimentare delle popolazioni, ma ha determinato al tempo stesso gravi contraddizioni. La crisi ecologica è l’elemento più evidente. La surrogazione di un’economia rigenerativa della natura, propria dell’agricoltura tradizionale, con un’economia dissipativa della tecnica, a partire da un utilizzo massiccio di sostanze chimiche, ha provocato il mutamento dei paesaggi agrari e il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli e ha dato vita al fenomeno dell’erosione.
Ma all’origine della crisi ecologica – come ha ben evidenziato Papa Francesco nell’Enciclica Laudato sì – c’è una crisi più profonda che riguarda la perdita del senso di comunità, la condizione di isolamento in cui oggi si trova l’individuo, la continua erosione delle relazioni interpersonali e la difficoltà sempre più accentuata a svolgere una funzione conservativa delle risorse naturali come esiti diretti del modello di sviluppo economico fondato sull’idea della crescita illimitata. E tutto questo avviene perché il modello di sviluppo che si è imposto ha teso a sradicare dal territorio l’agricoltura e a concepirla, dapprima, come un semplice reparto all’aperto dell’industria e, poi, come ultimo anello di un sistema alimentare fortemente verticalizzato e orientato dalla grande distribuzione.
Sicché, la più nobile delle attività umane che originariamente aveva dato vita ai primi insediamenti comunitari stanziali, si trasforma in un’attività produttiva capace di erodere capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio. Quando e come avviene questa rottura storica? Qual è la causa principale che la scatena? Per rispondere a queste domande bisogna accennare rapidamente al rapporto tra l’agricoltura e le competenze tecnico-scientifiche.
Il rapporto tra agricoltura e competenze tecnico-scientifiche
La cultura agricola esperienziale, propria del mondo rurale, e quella scientifica, agronomica ed economico-agraria, si sono entrambe caratterizzate, almeno fino agli albori degli anni Sessanta, per la loro capacità di far convivere una visione economico-produttivistica dell’attività agricola con una visione conservativa delle risorse ambientali.
Lo sviluppo dell’agricoltura è legato saldamente all’evoluzione delle scuole, delle aziende modello o sperimentali e degli altri centri del sapere agrario: un sapere largo e diffuso che viene organizzandosi e concentrandosi in apposite istituzioni e politiche pubbliche come “conoscenza utile”. La modernizzazione del settore primario si è potuta così alimentare di un rapporto molto stretto tra agricoltori e cultura agronomica ed economico-agraria. Per un lungo periodo i tecnici agricoli hanno concepito la loro professione fortemente legata ad una responsabilità intellettuale e civile ben superiore alla semplice erogazione di specifiche competenze. E a consolidare il rapporto tra cultura esperienziale e cultura scientifica emerge, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, il ruolo centrale dello Stato sia per quanto riguarda l’istruzione agraria che per quanto concerne la ricerca, la sperimentazione e la divulgazione delle innovazioni agrarie; ambiti fondamentali della politica agricola insieme alla bonifica e alle politiche di mercato.
Tale ruolo centrale dello Stato si mantiene saldo anche con la Rivoluzione verde, cioè con l’affermazione della chimica, della meccanica e della genetica come ambiti tecno-scientifici che determinano la forte crescita della produzione agricola nel Novecento. Questa consapevolezza di una responsabilità e di un ruolo dello Stato nell’organizzazione di una istruzione agraria, con l’obiettivo principale di formare tecnici per l’agricoltura, e nella istituzione di centri sperimentali e divulgativi si afferma nella seconda metà dell’Ottocento in Italia, in Francia, in Germania e negli Stati Uniti.
La stessa cosa non si verifica però in Inghilterra e in Olanda dove l’investimento in ricerca e sviluppo resta sostanzialmente a carico dei privati e dove si diffonde molto più tardi l’insegnamento agrario. E ciò forse si spiega proprio perché in questi Paesi le innovazioni erano avvenute in anticipo e soprattutto per iniziativa dei privati. La differenza tra la situazione delle istituzioni pubbliche della conoscenza in Italia e quella esistente in Francia, Germania e Stati Uniti è che in Italia si stabilisce fin dall’inizio una connessione tra istituzioni della conoscenza, con una accentuata dislocazione decentrata, e politiche territoriali con un approccio sistemico e tendenzialmente multidisciplinare, dalla bonifica alle politiche per la montagna, dalla riforma agraria alle politiche per la tutela delle acque e del suolo. In molti contesti gli agronomi e gli ingegneri idraulici si sono trovati a collaborare con medici, insegnanti, assistenti sociali, educatori. E in alcuni momenti felici anche con sociologi, antropologi, psicologi sociali, urbanisti. Da queste ibridazioni culturali e professionali sono nate le esperienze più significative di autosviluppo delle comunità locali.
Come si è fatto cenno, la rottura avviene tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando si concentrano le risorse pubbliche nel sostegno di un’industrializzazione forzata dall’alto e, nello stesso tempo, si abbandona l’approccio dello studio di comunità per le politiche di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo, e si riduce sempre più il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. La gran parte dei tecnici che escono dalle scuole e dalle facoltà di agraria vengono assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra questi e le industrie produttrici di mezzi tecnici.
Il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale ai fini di uno sviluppo della società locale inteso come autosviluppo delle popolazioni locali e come bisogno complesso di continua combinazione di più fattori, costituisce la causa fondamentale della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui è lasciato l’agricoltore.
Il tempo del ripensamento
Negli anni Settanta, intorno a questi problemi incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti. Nasce così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come “nuova ruralità”. Una data che simbolicamente potrebbe segnarne l’inizio è il 22 aprile 1970, quando venti milioni di americani scendono in piazza in difesa dell’ambiente. Da allora quella diventa la data in cui tutto il mondo festeggia la Giornata della Terra.
L’anno successivo il tema è ripreso da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima Adveniens: “L’uomo prende coscienza bruscamente… dello sfruttamento sconsiderato della natura, tanto da rischiare di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. E insieme al degrado ambientale, Papa Montini parla del “contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile”. Dopo pochi mesi esce il rapporto sui “limiti dello sviluppo” commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal Club di Roma che annuncia un dato sconvolgente: dopo il 2000 l’umanità si sarebbe scontrata con la rarefazione delle risorse naturali: non solo l’offerta petrolifera ma anche le disponibilità di alluminio, piombo, stagno, zinco sarebbero andate verso un progressivo esaurimento. Nel frattempo, la guerra del Kippur fa emergere in tutta la sua crudezza la natura finita del petrolio e pone all’attenzione dell’opinione pubblica la centralità della questione energetica.
La Conferenza mondiale sull’alimentazione promossa dalle Nazioni Unite nel 1974 mette in rilievo i divari di disponibilità di risorse alimentari tra i Paesi industrializzati e gli altri più poveri e prende atto che le più gravi difficoltà all’equilibrio alimentare sono opposte non dalla natura ma dalla geopolitica, dalla difformità distributiva delle risorse, del loro potenziale e dei rapporti con le realtà demografiche e con le disponibilità delle forze di lavoro umane.
I caratteri della nuova ruralità
È in tale contesto che, nei territori rurali industrializzati e nelle città traboccate nelle campagne circostanti, nascono nuove forme di ruralità. S’interrompe l’esodo dalle campagne e si registra una lenta inversione di tendenza. All’esodo rurale incomincia a subentrare l’esodo urbano. I figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si affermano così stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire. Una nuova agricoltura silenziosamente introduce un correttivo di civiltà. Per dirla con Michel Cépède, riemerge un’agricoltura territoriale con caratteri femminili (per le sue radici di conservazione e di ripetizione), in contrasto con il carattere maschile, nomadico primitivo e, ora, industrialista (la tentazione dello spazio, del diverso, la ricerca, l’inquietudine, la società urbana).
In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, riemerge insomma un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico e che, non a caso, ancora una volta vede protagoniste le donne. Un’agricoltura di comunità che incrocia inediti filoni culturali e operativi presenti nei servizi sociali e sociosanitari: quelli che guardano con approccio critico e riflessivo al vecchio Stato sociale che si va decomponendo. Uno Stato sociale plasmato dal modello di sviluppo industriale di tipo fordista, calato dall’alto, di tipo burocratizzato e centralistico, spersonalizzato e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri. Uno Stato sociale al cui centro non ci sono le persone intese come singoli individui con bisogni differenziati, gli uni diversi dagli altri, bensì categorie indistinte: disabili, immigrati, non autosufficienti, eccetera.
Anche nel mondo del sociale emerge un ripensamento, un approccio critico e un confronto tra modelli diversi. E anche qui sono le donne a guidare il cambiamento. Il servizio sociale è forse la prima professione che nasce con una forte presenza femminile. Tale presenza non riguarda solo i livelli più operativi (come accade in altre professioni), ma anche il livello della dirigenza fino a coloro che hanno progettato e pensato la professione. Non stupisce quindi il ruolo e il peso della dimensione di genere nella riflessione sul modo in cui organizzare la professione e l’intreccio tra le idee promosse all’interno di movimenti di emancipazione femminili e femministi e le idee che si producono nella professionalizzazione dell’aiuto alle persone. E questi nuovi filoni culturali e operativi, che perseguono atteggiamenti critici e riflessivi insieme, trovano linfa vitale in relazioni e scambi con la nuova ruralità. Emerge così un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali.
La nuova ruralità coinvolge anche le aree periurbane dove si formano insediamenti in cui convivono permanentemente sia i caratteri tipici dell’urbanità, come la tendenza a una elevata densità demografica e la prevalenza dell’edificato sull’open space, che i caratteri tipici delle aree rurali, come la presenza di attività non solo agricole che si collegano al patrimonio culturale e paesaggistico dei luoghi di riferimento. In questi territori si addensano non solo le villette di famiglie benestanti, ma anche le abitazioni di persone che rifuggono l’impazzimento delle città e ricercano in nuove attività agricole e rurali una chance per dare un senso alla propria esistenza. A cui si aggiungono più recentemente le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri. Questi sono attualmente i ceti sociali coinvolti in quel fenomeno descritto per la prima volta nel 1976 da Gerard Bauer e Jean-Michel Roux con un neologismo non troppo elegante ma perspicuo: “rurbanizzazione”, vale a dire la congiunzione di rus, campagna, e urbs, città. Ciò significa che nella città contemporanea la periferia non è più periferica e che il centro non ha da de-centrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte. Si riscopre lo stile del costruire, tipicamente mediterraneo, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. Le città contemporanee incominciano ad essere ripensate concependo i territori urbani come ecosistemi e come comunità epistemiche che elaborano concezioni condivise dell’alimentazione, della salute, della cultura, della sicurezza, del rapporto da intrattenere con il verde, e “costruiscono-coltivano” filiere produttive, modalità di abitare e forme di mobilità sostenibili. Dalla metropoli ideata per funzioni specializzate come la catena di montaggio di una grande fabbrica e intorno ad una polarizzazione e gerarchizzazione tra centro e periferie, si passa alla città-laboratorio di innovazione, il cui territorio si caratterizza per il policentrismo e per la polifunzionalità di ogni suo angolo. E in tale contesto l’agricoltura di servizi (dalle fattorie sociali agli orti sui tetti) diventa il tessuto connettivo delle economie civili che contribuiscono a ridisegnare il nuovo volto della città contemporanea.
La nuova ruralità si manifesta mediante la fioritura di una leva di neo-agricoltori il cui obiettivo non è produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni pubblici capaci di soddisfare bisogni collettivi. Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola: è l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni pubblici, relazionali e ambientali, i fini dell’attività economica, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per conseguirli.
Il fenomeno della rurbanizzazione vede anche l’entrata in scena di una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole invece partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto o in comunità di cibo, le cui esperienze pioneristiche nascono tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Le tecnologie digitali permettono di accorciare le distanze nella comunicazione, negli scambi culturali ed economici e nelle relazioni interpersonali e guardare con nuovi occhi alla globalizzazione. Per costruire relazioni vitali non è necessario condannarci all’autarchia e ai nazionalismi, consumando esclusivamente prodotti fatti in casa o nell’orto del vicino. Anzi, andrebbe rivitalizzata la capacità – che nella civiltà greca e poi in quella romana era molto curata – di soddisfare il piacere della tavola con prodotti provenienti anche da altre parti del mondo, di conoscerne le culture e di creare occasioni di ibridazione reciproca delle diverse culture alimentari. Importare ed esportare prodotti alimentari favorisce l’integrazione tra i popoli perché da che mondo è mondo lo scambio di cibi predispone al dialogo e all’accoglienza.
L’invenzione delle tradizioni
Con la nuova ruralità si è potuta sperimentare nel concreto la nota tesi di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger sulle tradizioni inventate, secondo la quale nessuna società tradizionale è mai stata del tutto tradizionale e che tradizioni e costumi sono sempre stati creati per una molteplicità di ragioni. Inventare le tradizioni costituisce un modo per convivere coi rischi e le opportunità della globalizzazione e dare continuità e forma alla vita. C’è, infatti, un nesso stretto fra tradizione e cambiamento. Per evitare, tuttavia, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare.
Le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradĕre, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”. E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica ma creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima. Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, capaci di non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antica di ogni frontiera.
In tale quadro s’inserisce il ritorno all’invenzione di tradizioni alimentari locali. È Corrado Barberis il primo ad accorgersi già a metà anni Settanta, che, in un mondo dominato da consumi di massa e dall’apertura ai mercati internazionali, accanto alla tradizionale agricoltura da sostentamento che si traduce in calorie, proteine, vitamine a prezzi sempre più stracciati, si sviluppa spontaneamente un’agricoltura da divertimento basata sui cibi ad alto contenuto di piacere e in concorrenza con cinema, concerti e discoteche come modo di passare una serata brillante. Il fenomeno si inserisce nella scoperta del valore etico del piacere. Da tale angolatura, la società contemporanea è alle prese con due sfide che s’intersecano. Da una parte, la famiglia è sfidata ad una nuova e più difficile sintesi tra le due istanze, l’erotica e la generativa. Dall’altra, la cucina deve conciliare gusto e nutrimento. Per dirla con Barberis, “la gastronomia sta al cibo come il sesso alla prole”.
Le tradizioni alimentari locali vanno così assumendo diverso valore dietetico, simbolico e rituale e portano con sé una trasformazione del gusto che – per essere arricchente – dovrebbe avvenire in modo consapevole con il coinvolgimento delle comunità interessate e non sulla loro testa. Un gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Anthony Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea. Un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano. Un gusto rivolto al futuro in grado di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili. È il caso dei prodotti dell’agricoltura sociale che, integrando tradizione e innovazione, racchiudono pratiche solidali ben riuscite.
Insomma, salvaguardare il futuro del pianeta, espandere le libertà umane per le generazioni future, esercitare il gusto rivolto al futuro significa anticipare il futuro per mettercene al riparo. Si tratta di imparare a immaginare il possibile ed elaborare allo scopo modelli cognitivi sempre più sofisticati. La libertà non è soltanto un processo di emancipazione individuale, ma anche collettivo: tanto più cresce se cresce per tutti.
L’innovazione sociale
E così ritorno alla domanda iniziale: “Quale agricoltura possiamo immaginare per il futuro?” Per immaginare e anticipare l’agricoltura del futuro occorrerebbe ripensare l’idea stessa di innovazione. Oggi si tende a concepirla come creazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli) capaci di incontrare in maniera più efficace bisogni sociali e, allo stesso tempo, promuovere nuove relazioni sociali o nuove collaborazioni. In sostanza, la produzione dell’innovazione diventa una sorta di pratica sociale, collettiva, in cui l’utilizzatore finale non solo condivide ma propone la forma dell’innovazione.
Attorno a questa idea è possibile ricomporre la frattura che ha portato, contestualmente, alla crisi delle relazioni tra gli individui e alla crisi ecologica. Rispetto a questa crisi, l’Enciclica Laudato sì riconosce “che si sono sviluppate diverse visioni e linee di pensiero in merito alla situazione e alle possibili soluzioni”. C’è chi afferma – ricorda il pontefice – che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, possa essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui converrebbe ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento. “Fra questi estremi – afferma Papa Francesco – la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali”.
Occorrerebbe favorire il reciproco ascolto e lo spirito di collaborazione e, nello stesso tempo, rivalutare i beni relazionali e il capitale sociale nei processi di sviluppo, cioè quei valori su cui la nuova ruralità ha inteso rifondare la funzione dell’agricoltura come generatrice di comunità. E si tratterebbe anche di educarci ad adottare comportamenti e stili di vita responsabili con cui possiamo, personalmente e come gruppi di individui, contribuire ad affrontare i complessi problemi che sono dinanzi all’umanità.
Questo approccio aperto al dialogo è l’esatto contrario di un approccio che privilegia la contrapposizione e il conflitto tra i differenti modelli di produzione e consumo, tra i diversi ethos del mercato. Si tratta di permettere ad essi di influenzarsi reciprocamente facendo emergere gli aspetti positivi e operare per ridurre gli elementi negativi, introducendo la cultura della responsabilità condivisa.
Negli Usa si è avviato un nuovo ciclo di sviluppo fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro e su forme nuove dell’abitare. Il governo cinese ha varato un programma di costruzione di nuove città dove si trasferiranno entro il 2020 cento milioni di contadini che lasceranno le campagne. I nuovi centri urbani che stanno per nascere non saranno le metropoli fordiste che si sono sviluppate in Occidente tra l’Ottocento e il Novecento ma città-territorio che assorbono gli antichi conflitti tra città e campagna in nuovi equilibri, in nuove modalità dell’abitare, mettendo insieme tecnologie digitali, robotica, biotecnologie.
La bioeconomia si fonda sull’utilizzo multifunzionale di risorse biologiche per la produzione di alimenti, mangimi, energia, ecc. L’agricoltura di precisione è utilizzabile a tutte le altitudini e in tutti i settori. La visione IoT (internet degli oggetti) è applicabile nell’agroalimentare, nel turismo, nell’artigianato, nei servizi socio-sanitari, nell’industria culturale. Queste tecnologie sono in grado di connettere aree urbane e rurali, creando un continuum di opportunità.
L’Europa supererà la crisi economica se le sue istituzioni e la sua società civile sapranno accompagnare e accelerare la rivoluzione tecnologica in atto. Occorrerebbe invertire l’ordine di priorità tra sviluppo e coesione sociale, anticipando la seconda come premessa del primo per civilizzarlo. Bisognerebbe puntare sulla responsabilità delle classi dirigenti locali che dovrebbero poter scegliere poche cose da fare e farle bene. Combattendo le povertà, l’evasione scolastica, il disagio giovanile, l’esclusione sociale. Mettendo fine alla corruzione e alle mafie. Si tratterebbe di ridisegnare completamente il rapporto tra legame con il territorio e presenza nei mercati internazionali che non sono strategie alternative. Occorrerebbero politiche per l’internazionalizzazione fondate sul “fare squadra” in Europa e nel mondo, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla nostra capacità di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato e sul rendiconto alle comunità territoriali dei risultati conseguiti. L’innovazione sociale da realizzare è la reinvenzione di comunità, territori e istituzioni che sappiano guardare alle persone nella loro interezza. Si tratta di produrre un nuovo salto di civiltà della stessa portata di quello compiuto diecimila anni fa quando fu inventata per la prima volta l’agricoltura.