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L’antefatto del condominio di strada

Il progetto segna una discontinuità nel modo di fare rappresentanza nel campo dell’abitare, riconoscendo il diritto primario degli individui e dei gruppi all'autogoverno e trasformando il condominio in una cellula fondamentale della comunità, capace di assolvere una serie di compiti di interesse collettivo a beneficio dei proprietari di case, degli inquilini e in generale delle comunità locali

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Il Progetto Condominio di Strada promosso da UNIAT e UPPI segna una discontinuità nel modo di fare rappresentanza nel campo dell’abitare. Da una tutela dei diritti dei proprietari di immobili e degli inquilini, esercitati individualmente, si passa alla rappresentanza e tutela dei cittadini che intendono espletare i diritti e i doveri nel campo dell’abitare, sia come individui che come formazioni sociali e comunità di persone.

Le due Associazioni intendono collocare il Progetto nell’ambito di un’offerta efficiente, ordinata ed economica di servizi per supportare la capacità dei cittadini di autoregolarsi e gestire una serie di problematiche che riguardano la loro vita quotidiana, il condominio, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati.

Per comprendere il senso di questa discontinuità bisogna rifarsi alla funzione assolta dalla condizione di “proprietario della propria abitazione” nella società di massa  e nel suo assetto corporativo. Le corporazioni del Novecento non hanno nulla a che vedere con quelle medievali di arti e mestieri, che nell’Italia centro-settentrionale proliferarono spontaneamente per incardinarsi nella civiltà dei Comuni. Stiamo parlando della particolare forma di corporazione inventata dalla società di massa. Si tratta dell’organizzazione professionale che subentra – con funzioni di mediazione – nel rapporto diretto tra il cittadino e lo Stato. Corporazione capace di inquadrare tutti in un’unica volontà e di far esprimere al potere la sua intima vocazione: farsi tutto a tutti. Solo così il potere riesce ad essere se stesso, cioè totalitario, fatto di tante cose, anche tra loro contraddittorie. Alcuni tratti caratteristici della corporazione sono una professione; la proprietà di un’abitazione, le cui caratteristiche definiscano uno status sociale; un livello di reddito che incida nella gerarchia sociale; un’uniforme o, semplicemente, un foulard da indossare e una bandiera da sventolare nelle manifestazioni pubbliche; uno stile di vivere, abitare e lavorare, fondato sull’orgoglio dell’anonimato unanime; un sentirsi al sicuro e protetto tra la “propria gente”; una comunanza di ideali politico-ideologici; un senso di appartenenza a qualcosa che si ritiene unico, eccellente. E questa mentalità corporativa non riguarda solo l’organizzazione professionale, ma permea e corrobora anche il partito di massa: partito supermarket, dove ogni avventore sa di trovare un conveniente articolo.  La condizione di “proprietario dell’abitazione”, intesa come status sociale, è un complemento essenziale della corporativizzazione della società.

Durante il fascismo, la legislazione volta a fronteggiare il disagio abitativo non riguarda solo i meno abbienti, come in età giolittiana, ma anche determinate categorie, come gli invalidi, i veterani di guerra, i funzionari pubblici, ecc. Nei territori rurali, la bonifica integrale è prima di tutto edificazione di centri abitati e realizzazione di opere civili nelle campagne come condizione per promuovere uno specifico ceto sociale: i coltivatori diretti.

In età repubblicana, il legame tra la proprietà della casa e l’edificazione di ceti intermedi si fa sempre più evidente.  Ed è proprio l’esasperazione di questo legame la causa di fondo del fallimento delle politiche della casa nel nostro Paese. Avendo considerato l’abitazione esclusivamente un bene economico complementare di uno status e non già un servizio sociale e, dunque, un diritto fondamentale strettamente legato alla dignità umana e a cui accedere indipendentemente dalla condizione professionale o lavorativa, è mancata la possibilità di un intervento pubblico efficace e sottratto alle logiche della competizione spinta di mercato. Tale limite appare oggi in tutta la sua crudezza se si guarda al problema dell’abitazione nell’ambito del fenomeno dell’immigrazione. La disponibilità di una casa come condizione posta in capo all’immigrato per provare il requisito di residenza continuativa e, dunque, il suo pieno inserimento nella società italiana  diventa un elemento pesante di discriminazione. Escludere il non cittadino dall’accesso al diritto all’abitazione significa escluderlo dall’accesso a tanti altri diritti sociali che limitano fortemente l’integrazione.

La rappresentanza dei proprietari di immobili e degli inquilini è esercitata nel quadro di tale visione corporativa. Ed è questo il motivo per il quale la funzione di rappresentanza si è mantenuta sul terreno della mera tutela dei diritti degli uni e degli altri, senza guardare all’insieme dei servizi legati alla casa.

Oggi, la società di massa, che si è caratterizzata nella seconda metà del Novecento come società dei consumi, sta subendo un nuovo cambiamento. La globalizzazione aveva prodotto due fenomeni del tutto sottovalutati: il processo di smaterializzazione che, annullando l’importanza della presenza fisica, fa sì che i luoghi e i paesaggi tendano ad equivalersi e a stemperarsi l’uno nell’altro e la “a-territorialità” dei grandi capitali che agiscono in modo irresponsabile verso la realtà comunitaria. A tali effetti della globalizzazione si sta reagendo mediante la ricerca del senso del luogo e la ricostituzione delle comunità. E, in tale evoluzione, l’assetto corporativo, tipico della società di massa, sta subendo un forte scossone.

In tale cambiamento, il diritto di accesso alla casa, da un’accezione prettamente patrimoniale, finalizzata a completare e caratterizzare uno status sociale, viene a collocarsi nell’ambito del più generale diritto degli individui e dei gruppi all’autogoverno. Nelle comunità-territori che si stanno reinventando, la gestione dei servizi alle abitazioni e ai caseggiati diventa un ambito strategico di tale riorganizzazione degli assetti sociali e non può non influenzare anche la funzione di rappresentanza dei proprietari di immobili e degli inquilini.

Caratteri peculiari dell’associazionismo nel settore dei servizi per la casa

L’associazionismo nel settore dei servizi per la casa si sviluppa dopo la prima guerra mondiale coi programmi iniziali di edilizia popolare volti ad agevolare la proprietà familiare dell’abitazione. Nelle grandi città esistevano già le prime associazioni di proprietari di immobili. Quella di Milano è fondata nel 1893 e raccoglie tra i suoi membri i principali esponenti del notabilato locale, giocando un ruolo determinante nelle dinamiche politiche cittadine. Nel tempo esse agiranno anche a livello nazionale come gruppo di pressione nell’ambito della Federazione delle associazioni dei proprietari di case.

Soprattutto attorno al 1910 si sviluppano diverse iniziative associative. Ad Asti nel 1911 sono i socialisti a promuovere l’Associazione piccoli proprietari per impulso di un tecnico assai noto, il Samoggia, e di un ex deputato, Vigna, al quale l’iniziativa costò l’espulsione dal partito. Nel 1912, un pioniere dell’Azione cattolica, Angelo Mauri, fonda a Milano la Federazione italiana dei piccoli proprietari. Nel maggio 1913 si svolge a Piacenza un memorabile congresso in difesa della piccola proprietà. A organizzarlo è l’ex presidente del Consiglio, Luigi Luzzatti, ebreo e massone, ispiratore della legge n. 251 del 31 maggio 1903 che istituiva l’Istituto Autonomo delle Case Popolari, destinato a sovvenire alle necessità abitative dei ceti italiani meno abbienti. Il soffocamento dell’associazione operato dal regime fascista, che la ingloba nelle proprie strutture corporative, trasformandola prima nell’Associazione fascista della proprietà edilizia (1928) e successivamente nel Sindacato fascista dei proprietari di fabbricati (1934), testimonia il peso raggiunto negli anni da questo sodalizio. Il quale risorge nel secondo dopoguerra come Confedilizia (1945).

A Bologna nasce nel 1948 l’Associazione sindacale dei piccoli proprietari immobiliari per iniziativa di un gruppo di lavoratori e di pensionati, cui presto si uniscono giovani carichi di entusiasmo, che abitano nei quartieri di Levante e di S. Viola. Un fermento associativo e un’atmosfera da “sottosuolo” sociale che rimbalzano nell’Assemblea costituente. La quale ne recepisce le istanze nell’art. 47 della Costituzione:  “…(La Repubblica) favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione…”. È il frutto di una comunanza di interessi tra gli inquilini delle classi inferiori e i grandi proprietari, i primi desiderosi di acquistare una casa propria, i secondi per disfarsi di un patrimonio non più remunerativo per la tassazione più elevata e il blocco dei canoni.

Anche quando, negli anni settanta, nasceranno dai movimenti e dalle consulte per la casa le attuali associazioni di inquilini, il sistema della rappresentanza resterà rigidamente ancorato ad un approccio di tipo “sindacale”, teso cioè a presidiare esclusivamente l’evoluzione delle politiche per la casa e la gestione dei rapporti contrattuali tra proprietari e inquilini. L’offerta di ulteriori servizi richiesti dai cittadini, nell’ambito del settore privato dei servizi per la casa, si svilupperà sulla base di modelli costosi e non aperti alla partecipazione e alla condivisione.

In tale contesto, l’iniziativa di UPPI e UNIAT ha l’ambizione di superare tali limiti offrendo un modello di servizi efficiente, sicuro, meno costoso, soprattutto aperto alla partecipazione dei residenti per la gestione delle strade delle città, riorganizzando le regole di civile convivenza aldilà del tornaconto personale e del mutuo vantaggio.

Il condominio e la legge: dalla stesura del Codice Civile alla riforma del 2012

La parola condominio deriva dal latino medievale condominium (con = insieme e dominium = possesso) che significa: “diritto di possesso esercitato insieme con altri”.  Il condominio è una forma di comunione forzosa, necessaria e permanente, cioè imposta dalla legge al verificarsi di determinati presupposti: il primo è che vi siano due o più unità immobiliari nello stesso edificio; l’altro presupposto è la necessaria correlazione tra diritto di proprietà esclusiva e diritti (e obblighi) sulle parti comuni.

Oggi il principio generale che informa le norme sul condominio è quello di solidarietà, garantito dall’articolo 2 della Costituzione, che impone un costante equilibrio tra i diritti inviolabili dell’uomo (compresa la libertà economica e la tutela della proprietà privata), sia come singolo sia nelle formazioni sociali, e i doveri inderogabili di solidarietà (compresi i doveri reciproci dei partecipanti alla comunione).

Il condominio ha un inquadramento giuridico molto particolare. Può nascere anche senza un formale atto costitutivo. Appena il costruttore proprietario vende a terzi una porzione di fabbricato suscettibile di uso autonomo, si profila una situazione di condominio. Si tratta, dunque, di uno stato di diritto dipendente da uno stato di fatto puramente naturale, che non scaturisce dalla volontà dei partecipanti ma dalla situazione dei luoghi.

È significativo che quando fu approvato il Codice Civile venisse respinta la proposta del relatore Rossi della Commissione di studio per il progetto del terzo libro di introdurre una disposizione di questo tipo: “A ciascuno dei condomini spetta il diritto di proprietà sulla quota rispettiva, mentre alla collettività dei condomini spetta il diritto di proprietà sull’intero fabbricato. La collettività dei condomini si considera ente distinto dalle persone dei singoli condomini”. La bocciatura di questa norma fece mancare nella legislazione un esplicito legame del condominio alla proprietà collettiva.

Non c’è dunque la possibilità di assimilare questa forma di possedere ai domini collettivi, i cui enti, benché non siano proprietari dei beni comuni, sono rappresentanti della collettività e titolari di poteri amministrativi. In Italia esiste una lunga tradizione di questi enti riguardanti i terreni coltivati e i boschi, le cui reliquie si conservano ancora oggi in quasi tutte le regioni. In base alla normativa vigente, il condominio sembrerebbe estraneo a questa forma di possesso.

Anche in occasione del dibattito sulla riforma del condominio del 2012 è riaffiorato il confronto tra la tesi collettivista (la proprietà condominiale intesa come proprietà collettiva) e quella individualista (rigorosamente ancorata alle prerogative proprietarie dei singoli condomini) ed è stata confermata la scelta di non configurare il condominio come un ente autonomo di gestione, nonostante il favore accordato dalla giurisprudenza a questa soluzione. Molte pronunce della Cassazione individuano, infatti, nel condominio un tertium genus, non identificabile né con la persona fisica né con la persona giuridica,  quanto piuttosto con la collettività organizzata, con la persona giuridica collettiva. Ma nel dibattito parlamentare è stato affermato senza mezzi termini che la proprietà condominiale non è assimilabile alla proprietà collettiva. E il motivo è che la proprietà condominiale viene ancora ritenuta una modalità di possedere non finalizzata all’interesse generale. È questa anche la ragione addotta per non conferire al condominio una personalità giuridica.

In breve, la maggioranza del Parlamento non ha voluto fare aperture in questo senso e riconoscere, dunque, al condominio la funzione di espletare compiti e attività di interesse collettivo così come avviene in altri paesi occidentali. Negli Stati Uniti, 57 milioni di americani vivono in comunità autoregolate, in gran parte dei casi organizzate come grandi condomini. La loro legge è un regolamento contrattuale, approvato da tutti. Da noi, invece, il baricentro della vita condominiale non è il regolamento stabilito in modo condiviso dai condomini ma un complesso di norme calate dall’alto che riguardano aspetti minuti della vita delle persone. Un’impostazione che risente dell’epoca (statalismo e accentramento) in cui questa fu concepita e varata per la prima volta (1935 e 1942) e che il timido e neghittoso legislatore del 2012 non se l’è sentita di innovare favorendo l’autonoma capacità dei privati di operare nell’interesse collettivo.

A distanza ormai di due anni dall’entrata in vigore della “riformicchia”, le controversie nei condomini sono cresciute e il contrasto alla morosità, alimentata anche dalla crisi economica, non produce effetti perché mancano competenze adeguate nel dirimere le liti. Per non incorrere in responsabilità introdotte dirigisticamente dal legislatore, gli amministratori sono diventati più rapidi nell’avviare le azioni di recupero del credito nei confronti dei condomini morosi. Con la conseguenza di aggiungere l’aggravio delle spese legali ai bilanci familiari già in condizioni di estrema difficoltà.  C’è poi un ritardo enorme nella digitalizzazione del rapporto tra condòmini e condominio: poche realtà dispongono di un sito internet e rarissimi sono i casi in cui i condòmini possono accedere direttamente, con funzioni di mera consultazione, all’home banking del conto corrente condominiale, cosa che permetterebbe maggiore trasparenza e maggiore partecipazione alla vita del condominio.  Sono tutti problemi che si possono affrontare seriamente solo organizzando un modello efficiente e condiviso di servizi che vada oltre le mere prescrizioni normative.

Il condominio come gruppo che svolge funzioni di interesse generale: la sussidiarietà orizzontale

Le democrazie contemporanee riconoscono e tutelano il diritto fondamentale dei cittadini a disporre di una casa non come un diritto a se stante ma in modo strettamente collegato alla tutela di altri diritti umani. Nell’art. 2 della Costituzione italiana si riconoscono i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. E nel medesimo articolo sono prescritti i doveri di solidarietà politica, sociale ed economica, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile.

La collocazione del principio di solidarietà in tale contesto non è privo di significato. Esso è inserito in connessione con il principio personalista: lo sviluppo di ogni singola persona è il fine ultimo dell’organizzazione sociale. E tuttavia l’attuazione di tale principio va ottenuta non solo mediante i diritti dell’individuo, considerato in quanto singola persona o formazione sociale, ma anche mediante i doveri di solidarietà, dei quali “la Repubblica… richiede l’adempimento”. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.

Va, inoltre, considerata la qualificazione che connota la solidarietà nella Costituzione. Non è solo politica e sociale ma anche economica. E anche questa caratterizzazione non è priva di conseguenze nell’assetto sociale del Paese. Nell’economia di mercato, qual è quella esistente in Italia, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale. Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile al “principio di restituzione” o “principio filantropico”, che vige negli Stati Uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza. In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va conseguito mediante ordinamenti e regole. L’idea che la sorregge è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società (istituzioni, società civile e singoli cittadini) rispettare e sostenere tali diritti. Per poter espletare tale dovere, anche le comunità di cittadini devono darsi ordinamenti e regole e svolgere attività di interesse generale.

Individuare nel condominio una comunità di persone che amplia in modo autonomo e condiviso il ventaglio  dei propri compiti e servizi d’interesse collettivo significa abbandonare sia la visione individualista che quella statalista del diritto alla casa e favorire un approccio relazionale, collaborativo, fraternizzante, di vicinato, di comunità. Si tratta di promuovere tra i proprietari di immobili e gli inquilini la capacità di esercitare il diritto di autoregolazione e autorganizzazione per la gestione di una serie di problematiche che riguardano i condomini, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati in cui essi vivono senza attendere che tale diritto sia concesso dallo Stato.  Un diritto siffatto è da sempre appartenuto agli individui e alle comunità di persone e adesso occorre rivitalizzarlo in forme nuove e con nuovi contenuti.

Tra le azioni urgenti per il rilancio dell’edilizia, cui è dedicato il decreto “Sblocca Italia”, figura un articolo rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”. Si tratta di una norma con la quale si consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici.  Questi soggetti  beneficiano di alcuni sgravi fiscali inerenti le attività da essi realizzate. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. I benefici fiscali sono concessi prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute. È facoltà dei comuni allargare l’elenco ad altri interventi realizzati dalle comunità di cittadini ritenute di interesse generale.

Questa norma fa seguito ad un’altra disposizione del 2013 che prevede la possibilità per i comuni di affidare la gestione di aree verdi o di determinati edifici di origine rurale ai cittadini residenti nei relativi comprensori mediante procedure di evidenza pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara. Condizione per la partecipazione a tali procedure, tuttavia, era la costituzione da parte dei cittadini di un consorzio del comprensorio che raggiungesse almeno i due terzi della proprietà della corrispondente lottizzazione. Pur commendevole nella finalità, la norma in questione sembra subire i limiti di un approccio segnatamente urbanistico che finisce per restringerne sensibilmente l’applicazione concreta.

Da questo punto di vista, lo “Sblocca Italia” compie una scelta diversa che apre ad una serie diversificata di formazioni sociali, sebbene non rinunci ad incentivare il ricorso, da parte delle comunità di cittadini, a “forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, cui viene accordata priorità nel riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Tale scelta sembra riprendere quella contenuta in una norma del 2008 che si riferiva a “gruppi di cittadini organizzati”, i quali, secondo tale norma, possono presentare microprogetti di arredo urbano e di realizzazione di opere di interesse locale senz’oneri per l’ente, ottenendo così una detrazione dall’imposta sul reddito delle spese da essi sostenute.

L’insieme di queste norme costituisce un’indicazione per le amministrazioni comunali rispetto ad una diversa politica di valorizzazione per via partecipativa degli spazi pubblici e uno strumento normativo utile a fornire supporto ad iniziative di questa natura. Prende finalmente corpo quel principio di sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, ultimo comma della nostra Costituzione. E l’orientamento sembra essere quello di riconoscere prioritariamente soggetti privati di natura associativa che svolgono attività e interventi di interesse generale.

Su questa scia, anche il condominio può diventare un soggetto capace di andare oltre quanto previsto dalle norme vigenti e assolvere una serie di compiti di interesse collettivo a beneficio dei proprietari di case, degli inquilini e in generale delle comunità locali.

2 Responses to L’antefatto del condominio di strada

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