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Occorre riempire il territorio di nuove attività, che riproducano beni relazionali come condizione per tutelare le risorse naturali. Si tratterebbe di trasformare bisogni diffusi di socialità in domanda strutturata di beni materiali e immateriali per costruire forme di vivibilità, cura, produzione, scambio e consumo, capaci di creare nuovo sviluppo. Le aree agricole del terzo millennio si preservano insediando e diffondendo un terziario civile innovativo
L’approvazione a larga maggioranza della legge sul cosiddetto consumo di suolo ha riaperto il dibattito sul governo del territorio. Con le nuove norme non ci saranno cambiamenti reali perché mancano politiche attive di gestione dei suoli. Si annunciano obiettivi, come l’azzeramento della cementificazione entro il 2050, difficilmente raggiungibili se non si mettono in opera nuovi strumenti e non si promuovono nuove attività nelle aree agricole.
Ricostruire il rapporto tra l’uomo e il territorio è un problema complicato da affrontare perché si tratta di ridare un senso al luogo, per usare una bella espressione di Franco Ferrarotti. Non si ottengono risultati significativi lottando contro il cosiddetto consumo di suolo. Consumare non significa solo distruggere, non richiama solo l’idea dello spreco. Tale accezione rinvia ad un’immagine prettamente materiale del consumo e, questa a sua volta, ad una cultura della produzione industriale fordista che si rivela assai persistente, nonostante il frequente richiamo alla terziarizzazione della società e al peso crescente della dimensione immateriale dei beni.
Una pluralità di esperienze di consumo enfatizza, invece, un nuovo modo di possedere in un’accezione più ricca del semplice logoramento. Si parla sempre più di consumo critico, responsabile, riflessivo. Si torna, in un certo senso, a modi di essere e di pensare, precipui della cultura rurale, che accompagnavano l’appropriazione e la consumazione di un bene con riti conviviali e consuetudini sociali atte a garantirne anche la riproducibilità. Consumare e fruire tornano ad essere sinonimi perché costituiscono un insieme di atti attraverso i quali definiamo ed esprimiamo la nostra identità, costruiamo la nostra vita quotidiana, entriamo in relazione con altri individui. L’idea spregiativa di consumo riferita al territorio è figlia di una visione urbanocentrica che ancora influenza gli approcci prevalenti alle politiche territoriali. Si fa fatica a capire che il territorio non si divide più con l’accetta in aree cementificate, da una parte, e in aree agricole adibite alla produzione agroalimentare, dall’altra.
Le campagne urbane si vanno spontaneamente attrezzando in funzione di una nuova domanda di servizi che i cittadini richiedono: fattorie sociali, centri didattico-educativi, orti. Si guarda all’agricoltura “sui tetti” in serre fotovoltaiche come ad una innovazione per bonificare le croste urbane. Sorgono comunità di cibo, gruppi di acquisto solidale, farmer’s market, co-housing, ecovillaggi. La ricerca di senso e di nuovi stili di vita, da parte di persone provate dal disagio urbano, s’incrocia coi bisogni abitativi di giovani coppie e di nuovi poveri. Di fronte a fenomeni siffatti occorrerebbe battersi per riempire il territorio di nuove attività, che riproducano beni relazionali come condizione per tutelare le risorse naturali. Si tratterebbe di trasformare bisogni diffusi di socialità in domanda strutturata di beni materiali e immateriali per costruire forme di vivibilità, cura, produzione, scambio e consumo, capaci di creare nuovo sviluppo. Questo può avvenire mediante la rigenerazione di un’agricoltura relazionale e di territorio, la fioritura di una leva di neo-agricoltori il cui obiettivo non dovrebbe essere quello di produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni pubblici capaci di soddisfare bisogni collettivi. Le aree agricole del terzo millennio si preservano insediando e diffondendo un terziario civile innovativo.
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