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Giuseppe Oddo ricostruisce in un volume la vicenda dei contadini siciliani dalla belle époque al fascismo, aiutandoci a comprendere che ogni processo innovativo produce benessere solo quando è frutto di responsabilità e impegno ed è capace di creare senso ed effettività e non illusioni
Renato Guttuso, Contadini al lavoro, 1951
Giovedì 24 maggio 2018 sarà presentato a Palermo il volume di Giuseppe Oddo intitolato Il miraggio della terra in Sicilia. Dalla belle époque al fascismo (1894-1943). L’opera è edita dall’Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2017, e patrocinata dalla Cgil Sicilia. Si tratta del terzo di quattro volumi dedicati alla storia dei contadini siciliani in età contemporanea. I primi due, editi, sono: Il miraggio della terra. Risorgimento e masse contadine in Sicilia (1767-1860), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2010 (Attestato della giuria del Premio Nabokov 2012); Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale (1861-1894), Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2013. Il quarto – “ancora tutto da scrivere”, avverte l’autore nell’introduzione – avrà come titolo: Il miraggio della terra in Sicilia. Dallo sbarco alleato alla scomparsa delle lucciole (1943-1970).
Il filo conduttore dell’opera è l’evoluzione altalenante del latifondo siciliano, coi suoi rapporti produttivi penalizzanti per i contadini poveri dell’isola e con le lotte che si sviluppano per iniziativa soprattutto dei socialisti e dei cattolici democratici e si reprimono con la violenza di Stato e quella mafiosa, dal movimento dei Fasci dei lavoratori fino alle mobilitazioni contadine degli anni Venti del Novecento che il fascismo soffoca definitivamente.
Crispi li fici e Crispi li disfici è la risposta di un contadino alla domanda dell’autore, volta a conoscere cosa sapesse dei Fasci dei lavoratori. Si avvia così il racconto della ricostruzione del partito socialista dopo che lo statista siciliano Francesco Crispi aveva decretato la sanguinosa repressione del movimento sviluppatosi, tra il 1891 e il 1894, in forme composite a metà strada tra le società politiche e sindacali, le leghe di resistenza, il mutualismo e la cooperazione. In tali esperienze si erano fusi sentimenti antichi di riscatto, talvolta anche religiosi, sempre presenti nelle campagne, e consapevolezze moderne, frutto di una matura cultura socialista. Nei cortei si erano viste madonne assieme alle bandiere rosse, ritratti di santi e busti di Marx. Alle pareti delle sedi di molti fasci erano appesi i crocifissi. Venivano avanzate rivendicazioni organiche, come i miglioranti contrattuali e la proprietà individuale della terra mediante la divisione dei demani usurpati e delle proprietà latifondistiche.
Per iniziativa dei dirigenti dei Fasci che erano stati condannati e successivamente amnistiati si ricostituisce la federazione del partito socialista di Palermo. Ma dopo alcuni anni viene sciolta perché ritenuta simile ai Fasci. Nonostante vi fosse un clima repressivo, i socialisti conquistano alcune amministrazioni comunali e fondano le prime camere del lavoro. Un’attività che s’intreccia con la costituzione di organizzazioni sindacali e politiche nei paesi d’emigrazione (Americhe e Tunisia). In Argentina sono numerosi i siciliani che partono per colonizzare interi territori e portano con sé l’idea di associarsi.
Il volume ha il merito di dedicare ampio spazio alle problematiche dell’emigrazione che, in quel periodo, è fonte di arricchimento per i mafiosi e di grandi disagi per i contadini, pochi dei quali possono realizzare il sogno di mettere insieme il denaro per acquistare un buon fondo agricolo al paese d’origine. I contadini siciliani vengono ridotti quasi in stato di schiavitù (anche dai paesani) in Brasile, in Argentina e negli Stati uniti, Paesi che gli imbonitori del sogno americano avevano loro descritto come paradisi terrestri. Si tratta di un’ondata migratoria imponente che durerà fino alla prima guerra mondiale. Questa prima internazionalizzazione dell’Italia è fatta dal basso ed è un merito dei ceti contadini che mostrano coraggio e intraprendenza.
Nel volume si ricorda come, accanto alle organizzazioni socialiste, nascono anche in Sicilia numerosi sodalizi cattolici (circoli, leghe bianche, casse rurali e affittanze collettive). Proprio in quegli anni, infatti, Leone XIII emana l’Enciclica Rerum Novarum, con cui il pontefice apre gli occhi della Chiesa dinanzi alla grande questione sociale. Si vanno a rispolverare gli insegnamenti di due francescani del XIII secolo, Pietro di Giovanni Olivi e Alessandro di Alessandria, che erano stati i primi a riconoscere nel mondo cristiano la produttività del denaro e a superare sul piano teologico le difficoltà giuridico-morali sorte a seguito della condanna canonica dell’usura, distinguendo “tra guadagno usuraio e compenso per l’utilità di chi scambia le monete per favorire lo scambio delle cose, senza il quale non c’è vita sociale”. E così con la costituzione della casse rurali viene creata una solidarietà economica tra tutti coloro che, fornendo il capitale su cui erogare i prestiti, ne assumono una responsabilità illimitata, col risultato di stimolare un democratico controllo su tutte le operazioni decise dal vertice dell’istituto, visto che gli errori sono ripianati dalle confiscate proprietà dei soci.
La narrazione prosegue con le vicende dei primi anni del Novecento. Si svolge a Catania un affollato congresso contadino che pone all’ordine del giorno la sistemazione dei demani civici e i latifondi di opere pie. Incominciano anche gli scioperi nei feudi. E non ci sono soltanto i socialisti a guidare le lotte. Ci sono anche i cattolici dell’Opera dei congressi, i radicali e i repubblicani. Il tutto sfocia nell’”autunno caldo” del 1901 in manifestazioni e scioperi di mezzadri e braccianti. Nascono società agricole operaie di mutuo soccorso, leghe di miglioramento e resistenza e le loro federazioni. Si adottano le affittanze collettive, cioè i contratti di affitto stipulati tra i proprietari terrieri e cooperative contadine. Questa forma contrattuale ha lo scopo di sostituire il gabellotto parassitario, quasi sempre coincidente con soggetti mafiosi.
L’autore racconta come, accanto alle lotte agrarie, si sviluppano anche iniziative su temi civili (legge sul divorzio) che dividono cattolici e laici anticlericali. Antiche tradizioni come quelle del “Palo fiorito di maggio”, “che aveva lo scopo di portare nel villaggio lo spirito fecondatore della vegetazione che si risvegliava ogni anno in primavera”, diventano (come a Prizzi) riti socialisti. “Il primo maggio è la festa dei poveri – scrive in un manifesto la Camera del lavoro di Crema –, degli umili, del lavoro. È la gioia del sole che feconda la terra, è il desiderio di giustizia che sola potrà dare pane a tutte le bocche affamate”. Non è più il tempo dei Fasci. Adesso i motivi religiosi dividono i movimenti e tra le organizzazioni socialiste e quelle cattoliche la concorrenza si fa spietata.
Il cuore del saggio è la vicenda di Bernardino Verro, un socialista che si fa protagonista di diversi episodi di antimafia sociale, sempre in prima linea dal marzo 1896 al 3 novembre 1915, quando viene ucciso da sicari mafiosi. E di tanti altri con lui. Un’ecatombe di contadini, cooperatori e dirigenti sindacali, abbattuti dalla mafia e dal piombo di Stato tra il 1898 e il 1922. E nessuno dei responsabili viene condannato per i delitti compiuti.
È ucciso per mano mafiosa anche il sindacalista Cola Alongi, colpevole di aver organizzato nel 1920 le occupazioni con le parole d’ordine “la terra ai contadini” e “socializzazione della terra”. Concetti che Alongi non associa a “collettivizzazione” e men che mai a “gestione pubblica e burocratizzata della terra da parte di enti statali o comunali” come voleva l’ortodossia marxista. Per il sindacalista lo slogan “la terra ai contadini” racchiude un programma politico che riconduce all’aspirazione profonda alla proprietà privata della terra di cui vivere. La differenza di fondo tra la percezione del diritto privatistico al godimento della terra da parte dei contadini e quella dei ceti borghesi sta nelle finalità che deve avere l’uso del bene. Nella cultura contadina, la terra è sempre stata considerata un bene particolare perché, a differenza di altri beni, essa va utilizzata senza mai impoverirla al punto tale da pregiudicarne l’uso futuro e ripartendo sempre la fruizione dei suoi benefici tra tutti per conseguire il fine della giustizia sociale. Il regime “inclusivo” che si ritrova in pratiche agronomiche autoriproduttive e in forme di scambio improntate a criteri di reciprocità e solidarietà, proprie della cultura contadina, è perfettamente complementare al regime “escludente” dei diritti di proprietà che opera su un altro piano. Alongi è interprete fedele di questa antica cultura e i contadini senza terra lo seguono con fiducia nelle lotte che egli organizza. Ed è anche per questa sua capacità di stare in piena sintonia con le aspirazioni profonde dei contadini, che la mafia lo elimina.
Il volume si chiude con il capitolo sulla morte della democrazia liberale e sulla corporativizzazione della società civile da parte del fascismo. L’agricoltura siciliana paga più delle altre le conseguenze della politica autarchica che porta a un incremento della produzione granaria ma i cui costi sono pagati dai contribuenti. Sarebbe stato più conveniente importare da altri Paesi e produrre noi altre colture che potevano avere un mercato all’estero. Ma l’autarchia è un connotato dei regimi totalitari e il fascismo per questo la pratica. E con l’autarchia il gracile tessuto associativo agricolo, faticosamente edificato in età giolittiana, viene assorbito all’interno del regime.
Attendiamo ora con ansia l’ultimo volume dell’opera di Giuseppe Oddo per avere l’affresco completo della vicenda dei contadini siciliani dal Risorgimento all’estinzione della cultura rurale negli anni Sessanta del secolo scorso a seguito della fallimentare politica di industrializzazione forzata dall’alto. Fallimentare perché non inserita in una rigorosa programmazione, tale da rispettare i logici ed ineludibili collegamenti tra passato, presente e futuro e così accompagnare l’opera di connessione della riforma agraria realizzata nella prima metà degli anni Cinquanta (con cui per la prima volta nella storia i poderi e le quote ricavati dalla divisione del latifondo vengono effettivamente assegnati in proprietà ai contadini) con lo sviluppo endogeno delle comunità locali.
È utile alle nuove generazioni – in special modo a quelle che vivono le esperienze della ruralità post-fordista avviatasi in forme molteplici dagli anni Settanta in poi – conoscere la storia delle campagne e della modernizzazione solo apparente o, peggio, tradita del Mezzogiorno. Dobbiamo essere grati a Giuseppe Oddo per questo lavoro che ci offre le conoscenze necessarie per non ripetere gli errori del passato e per comprendere che ogni processo innovativo produce benessere solo se è frutto di impegno e responsabilità; solo se è effettivo e non di facciata; solo se è capace di produrre senso e non illusioni.