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Con la riforma agraria e la prima fase dell'attività della Cassa per il Mezzogiorno non finisce la storia dell'agricoltura italiana ma se ne completa la modernizzazione. La cultura italiana ha ignorato per un lungo periodo questo dato e così non si percepisce una specificità della realtà agricola: crescita culturale e imprenditoriale del ceto contadino e industrializzazione sono processi che non si annullano reciprocamente ma sono sinergici, già inscritti, peraltro, nelle vicende socio-economiche che avevano segnato alcune realtà del Paese nell'Ottocento e nel primo Novecento.
La riforma agraria avviata nel 1950 riguarda esclusivamente il Molise, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e alcune province di altre regioni: il Delta padano, la Maremma e il Fucino. Vengono espropriate le proprietà superiori ai 300 ettari. Sono indennizzati 2.800 proprietari. I 700 mila ettari espropriati costituiscono la massa delle terre assegnate poi in poderi ai contadini. Al tempo stesso si creano gli Enti di riforma, destinati non solo a governare la redistribuzione delle terre, ma anche a fornire assistenza tecnica e finanziaria ai contadini assegnatari, tenuti peraltro al pagamento delle rispettive rate per il fondo ottenuto. Si calcola che fra il 1950 e il 1960, quando già il grosso delle operazioni di assegnazione è esaurito, oltre 417 mila ettari di terra siano passati in mano a contadini e braccianti poveri. Un trasferimento di beni fondiari di notevole ampiezza deciso e governato direttamente dall’autorità pubblica.
Ad esso va aggiunto un moto spontaneo di accesso alla terra favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali poste in essere dallo Stato. In virtù di tali misure – tra il 1948 e il 1968 – passano nelle mani dei contadini un altro milione e 600 mila ettari. Quindi, in un paio di decenni, la proprietà coltivatrice si allarga su altri due milioni di ettari. Nonostante i suoi limiti, la riforma sancisce la fine delle grandi aristocrazie terriere che, in verità, già sopravvivevano a se stesse e non avevano più il potere esercitato in passato. Permette ad un numero considerevole di famiglie contadine di coronare il sogno di possedere un fondo da cui ricavare un reddito sufficiente. Ed apre la strada a nuovi gruppi sociali ed a nuove classi dirigenti.
Ma di questi processi fortemente innovativi la sinistra non sa avvantaggiarsi. Pur avendo guidato il movimento per ottenere la riforma, essa commette l’errore di votare contro queste leggi. Tale atteggiamento non è reso obbligatorio dalla contrapposizione derivante dalla “guerra fredda”. Come si è visto, la riforma dei contratti agrari è approvata anche dalla sinistra quando se ne presenta l’occasione in un ramo del Parlamento.
Comunisti e socialisti non comprendono che i provvedimenti di riforma agraria, nonostante l’ambito ristretto della loro applicazione, sono in ogni caso di una portata tale che arrecheranno di lì a poco modifiche profonde all’intera struttura produttiva nazionale e riscuoteranno un largo consenso nella società.
La riforma agraria e più ancora le leggi che permettono a centinaia di migliaia di mezzadri e affittuari di diventare proprietari agiscono, infatti, come un “colpo d’ariete”, prendendo in prestito la suggestiva interpretazione di Giuseppe Medici – e fatta propria da Luigi Einaudi – delle ondate di trasformazioni che tali provvedimenti provocano sul tessuto economico del Paese.
Si realizzano infatti, da una parte, un nuovo e più esteso processo di industrializzazione e, dall’altra, l’innesto su una proprietà più diffusa della terra di un’agricoltura più moderna, come due facce della stessa medaglia.
In altre parole, lo sviluppo di imprese agricole più vivaci produce una nuova e più consistente domanda di mezzi tecnici per l’agricoltura che viene soddisfatta dalla creazione di nuove imprese industriali. E nello stesso tempo si sviluppa ulteriormente l’industria manifatturiera nel settore alimentare. In sostanza, l’Italia può definirsi effettivamente un Paese industriale solo quando con la riforma agraria si crea – in modo più consistente rispetto al passato – una proprietà diffusa della terra e si rafforzano le condizioni per ammodernare ancor più l’agricoltura.
I distretti industriali che caratterizzano l’Italia contemporanea nascono laddove la società locale incorpora la cultura, il saper fare, i valori di tante generazioni che sono vissute nei poderi mezzadrili ed hanno costruito forme molteplici di collaborazione tra le diverse unità produttive. La persistenza diffusa della famiglia contadino-operaia, con le sue particolari caratteristiche di comportamento, contribuisce all’industrializzazione di diverse realtà del Paese. Con la riforma agraria e le leggi sulla proprietà coltivatrice, si viene a consolidare e approfondire un processo che, lentamente e gradualmente, aveva investito fin dall’Ottocento l’Alto Milanese, la Brianza e il Comasco, trovando ora occasione di applicazione nel Veneto, in Toscana e nelle Marche, dove la società contadina, mantenendo le proprie caratteristiche, da una parte promuove una crescita dell’agricoltura e, dall’altra, si dissolve in piccole attività manifatturiere. La pluriattività individuale e familiare, da condizione necessaria, diventa un’abitudine e viene a costituirsi come il nerbo dell’economia italiana.
Alla sinistra nel suo complesso sfugge la portata generale dei provvedimenti strutturali per l’agricoltura. Non fanno eccezione nemmeno i suoi settori più innovativi che guardano con interesse ad un intervento pubblico in grado di edificare lo Stato sociale.
Non a caso il Piano del Lavoro presentato dalla Cgil di Di Vittorio, in un convegno del 1949, è tutto concentrato sulle opere pubbliche e non sulla riforma agraria. Ed è per questo motivo che l’anno successivo il dirigente comunista, che è segretario del più grande sindacato italiano ma anche parlamentare, in disaccordo con il suo partito, vota coraggiosamente a favore della legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno, a cui si affida la gestione di un’imponente mole di opere pubbliche, ma non ci pensa nemmeno un istante a contravvenire alla disciplina di partito quando si tratta di votare i provvedimenti di riforma agraria.
Di Vittorio ammetterà l’errore nella riunione della direzione del Pci del 28 ottobre 1954: “Sono persuaso che il nostro voto sulla Cassa e la riforma agraria ha reso più difficile la nostra azione. Quando c’è un passo avanti determinato dalla nostra lotta dobbiamo votare a favore con chiare dichiarazioni di voto”.
Nei settori prevalenti della sinistra manca la percezione di un dato specifico della realtà agricola italiana: crescita del ceto contadino e industrializzazione sono processi che non si annullano reciprocamente ma sono sinergici, già inscritti, peraltro, nelle vicende socio-economiche che avevano segnato alcune realtà del Paese.
Non solo una maggiore produttività agricola induce una più sostenuta domanda di mezzi tecnici e, dunque, nuovi investimenti industriali. Non solo un maggiore risparmio conseguito con le indennità di esproprio provoca investimenti produttivi in altri settori. Ma anche una maggiore diffusione della pluriattività e dei legami sociali territoriali, indotta dalla proprietà contadina, crea convenienze e opportunità per la crescita di un tessuto di piccole e medie imprese industriali.
Si tratta di uno strabismo che la cultura predominante nel Paese porterà con sé per lungo tempo e che si rifletterà anche nelle opere letterarie e cinematografiche dei decenni successivi fino agli anni Ottanta, le quali non dipingeranno quasi mai le campagne e, quando sporadicamente accade, non sono mai quelle venute fuori dai provvedimenti di riforma, ma sempre e soltanto i paesaggi agrari dei periodi precedenti. Basti citare romanzi come Il taglio del bosco e La ragazza di Bube di Carlo Cassola. Oppure film come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, Novecento di Bernardo Bertolucci e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Nell’immaginario di ampi strati della cultura italiana resterà fisso lo schema della società pienamente industriale come conclusione della vicenda dei contadini e dell’agricoltura e come esordio nella scena politica e sociale di un nuovo ceto, quello operaio, inteso in modo salvifico come classe generale e guida delle trasformazioni sociali.
Bisognerà attendere le storie di vita operaia raccolte da Franco Ferrarotti con Pietro Crespi e pubblicate a metà degli anni Novanta con il titolo La parola operaia, per apprendere che “i gruppi operai italiani sono fortemente radicati nella realtà contadina e, anzi, trovano puntualmente nelle specifiche situazioni locali e nell’ambito familiare quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio, che in altri contesti sociali e storici hanno dato luogo ai noti fenomeni di sradicamento e di alienazione operaia”. Utilizzando queste parole a commento delle storie di vita operaia, il decano della sociologia italiana tesse forse l’elogio più bello dell’agricoltura moderna, per le sue funzioni ammorbidenti e lenitive svolte nel corso di profonde trasformazioni sociali.
Come si è detto, con la riforma agraria nel 1950 si approva anche la legge che istituisce la Cassa per il Mezzogiorno. Il territorio compreso nella sua sfera di influenza sono tutte le regioni meridionali e alcune aree delle regioni Lazio, Marche e Toscana. La dotazione iniziale della Cassa ammonta a mille miliardi, da utilizzare nell’arco di dieci anni. La sua funzione è essenzialmente quella di costruire opere pubbliche. Con gli interventi della Cassa viene completata la bonifica ed estesa l’irrigazione su oltre 500 mila ettari. Si costruiscono nuovi acquedotti e si migliora ovunque la viabilità. Accompagna l’avvio delle attività della Cassa un’appassionata tensione ideale e progettuale che coinvolge gruppi e uomini anche esterni al Mezzogiorno.
L’idea è quella di creare i prerequisiti dello sviluppo industriale nell’Italia meridionale: cioè le condizioni materiali e ambientali, i servizi, su cui dovrebbe sorgere una moderna economia. Si applicano, dunque, anche in Italia le teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes, che sin dai primi anni Venti, aveva previsto il crollo del sistema monetario internazionale fondato sulla convertibilità in oro della valuta e si era espresso favorevolmente per alcuni “correttivi” da apportare al sistema capitalistico al fine di salvarlo dalla rovina. Tra questi aveva suggerito la capacità dello Stato non solo di dirigere gli investimenti e di sostenere le imprese, ma anche di programmare e realizzare le opere pubbliche e sostenere gli investimenti produttivi.
A tali teorie si era già ispirato il New Deal rooseveltiano, con il coinvolgimento di competenze interdisciplinari, dalle scienze agrarie a quelle economiche, statistiche, sociologiche, fino a quelle educative. Ed ora ad esse si richiama anche l’intervento straordinario per il Mezzogiorno d’Italia.
Con la realizzazione delle opere pubbliche, un fitto e crescente sistema viario penetra nelle aree interne, collegando centri piccoli e medi ai grandi assi stradali. Si rompe così l’isolamento tradizionale di tanti e tanti sperduti centri rurali. Ma occorre anche aggiungere che le strade sono spesso costruite senza tener conto delle condizioni geomorfologiche e ambientali. E tuttavia il tono della vita civile delle popolazioni viene elevato, grazie ai più facili rapporti col resto del mondo, alle migliori condizioni igieniche prodotte dalla diffusione dell’acqua potabile, alla realizzazione delle bonifiche, alla costruzione di moderni sistemi di fognatura.
L’infrastrutturazione dell’agricoltura meridionale migliora notevolmente il sistema produttivo. La produzione agricola si raddoppia. In molti comprensori di bonifica, come quello del Metapontino, la popolazione cresce addirittura di quattro volte e la disoccupazione è debellata.
In Basilicata, la modernizzazione delle aree rurali non riguarda solo le pianure. Anche le terre migliori della collina raggiungono notevoli livelli di progresso, grazie alla meccanizzazione, alle innovazioni varietali, alla migliore tecnica colturale.
A Tito decine e decine di affittuari e mezzadri acquistano le masserie coi benefici fiscali e creditizi della piccola proprietà contadina. Si irrobustisce così un ceto medio produttivo delle campagne. E nello stesso tempo si costruiscono strade, acquedotti, scuole, strutture per servizi sociali.
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