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La natura tra miti e scienza

Divagazioni sulla transizione ecologica e digitale partendo da un paio di articoli di Enrico Bucci

Miccia

Il biologo Enrico Bucci, darwinista e leopardiano, ha scritto un saggio molto interessante, apparso sul “Foglio” del 26 luglio scorso. Si può definirlo una rassegna ragionata di miti, pregiudizi, luoghi comuni e modi di pensare che hanno a che fare con la ‘natura’. Chi conosce l’autore sa che non è un eco-scettico o un negazionista dell’origine antropica del cambiamento climatico. Anzi è uno scienziato assolutamente consapevole delle nostre responsabilità nei confronti degli ecosistemi. “Siamo perfettamente capaci – egli scrive – di distruggere il pianeta sia a causa del nostro enorme consumo di risorse, che a causa del potenziale di devastazione insito nelle tecnologie sempre più potenti che abbiamo sviluppato e che usiamo”. Ma è anche convinto che molte idee intorno alla ‘natura’ – a cui spesso viene data impropriamente una veste scientifica – ci inducono a utilizzare, per la nostra azione a tutela dell’ambiente, strumenti spesso in conflitto con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile.

Lo studioso ritiene, infatti, che “il contrasto al cambiamento climatico, l’utilizzo di tecnologie meno energivore, la rivoluzione verde che tutti auspichiamo”, non passino solo “attraverso il riconoscimento dei dati scientifici che dimostrano l’insostenibilità del nostro modo attuale di agire”, ma “anche attraverso il ripudio di accecanti miti verdi ed idee sbagliate, che portano al perseguimento di strade inefficaci, erronee e aggravanti i problemi che si vorrebbero risolvere”.

Per precisare ulteriormente il suo pensiero, Bucci è tornato sull’argomento in un articolo, pubblicato sullo stesso giornale il 28 luglio. Egli scrive: “Utilizziamo lo strumento potentissimo del metodo scientifico principalmente per continuare a sfruttare meglio il pianeta – dove meglio non vuol dire garantendoci un futuro, ma massimizzando il guadagno immediato, proprio come facevano i nostri progenitori che di metodo scientifico erano privi (anche se non di tecnologia). È indispensabile applicare il metodo scientifico alla valutazione del nostro agire e degli scopi che ci prefiggiamo per quel che riguarda le conseguenze su scale geografiche e temporali estese, ivi inclusa la prioritizzazione delle azioni necessarie per evitare i pericoli più imminenti e gravi che sappiamo si concretizzeranno, dal clima al consumo delle risorse, dalla sicurezza alimentare fino alla salute globale degli ecosistemi, non scindibile da quella umana”. Per poi concludere nelle righe successive: “Niente miti verdi, dunque; ma nemmeno nessun mito di progresso necessario e infinito e nessun negazionismo di ciò che stiamo causando al pianeta e a noi stessi. Se chiediamo il coraggio di abbracciare le soluzioni che la scienza indica, bisogna avere anche il coraggio di affrontare con il metodo della scienza tutti i problemi, senza nascondere nulla, e il coraggio di assumerci la responsabilità che la consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni globali comporta”.

Tutto bene. Concordo con Bucci. Ma ho l’impressione che il problema sia, in gran misura, dentro la stessa comunità scientifica. La confusione tra argomenti scientifici e riflessioni che derivano dalla nostra storia antropologica e culturale viene fatta o avallata anche da chi parla e scrive in nome della scienza. Allora, siccome la questione sollevata dallo scienziato è rilevante, vorrei chiarirmi le idee. Pertanto, metterò sul tavolo, accanto a quelli dello studioso, qualche ulteriore argomento, un po’ alla rinfusa e senza il necessario approfondimento, come, del resto, è possibile fare in un post da diffondere sui social. Non sono sicuro che alla fine avrò le idee meno confuse, anche perché la prenderò un po’ alla larga.

Sempre sul “Foglio” (il 25 luglio scorso), lo storico della medicina Gilberto Corbellini e lo storico del pensiero politico Alberto Mingardi hanno scritto un articolo dal titolo intrigante “Il tradimento dei nuovi chierici”. Il riferimento è ad un’opera del filosofo Julien Benda, pubblicata nel 1927, che se la prendeva con gli intellettuali impegnati in politica al riparo della loro presunta superiorità e imparzialità, ma in realtà asserviti ad ogni regime o ideologia, anche quando mossi dalle migliori intenzioni. Scrivono i due storici: “Negli ultimi decenni gli scienziati tendono ad accentuare le dimensioni e gli effetti polarizzanti, culturali e sociali delle questioni scientificamente controverse, cioè a ignorare l’etica della conoscenza scientifica. È paradossale, ma sembra quasi che gli scienziati siano diventati i nuovi intellettuali organici al potere, e che di fronte a situazioni di emergenza e controverse stiano tradendo i valori che ne dovrebbero ispirare il lavoro”. E concludono: “Negli anni di Julien Benda, il tradimento degli intellettuali consisteva nell’aver abbracciato i nazionalismi, abbandonando l’ethos cosmopolita dell’illuminismo. Oggi la sfida è difendere la razionalità nelle scelte e decisioni che interessano il funzionamento di società divenute molto più complesse, e per questo ci si dovrebbe guardare dall’illusione di poterle governare e ricavare i benefici che producono usando un pensiero semplice”.

A me pare che per affrontare i drammatici problemi ambientali della società contemporanea abbiamo bisogno di un approccio razionale che può scaturire dal dialogo fecondo tra gli scienziati, mossi dall’etica della conoscenza scientifica, e i politici, ispirati dall’etica della responsabilità.

 

La laicità di Galileo

Il mio amico sociologo Mario Campli – con cui discuto spesso di miti, religioni e ideologie di vario tipo nel gruppo di lavoro “Laicità vo cercando” (con relativa pagina Facebook per chi vuole seguirci) – ricordava qualche giorno fa che Galileo Galilei era solito dire: “La Bibbia fu scritta per insegnarci come andare in cielo e non come vanno i cieli”. Un’affermazione che permetteva al grande scienziato di mantenere distinta la sua fede religiosa dalla scienza e dal metodo scientifico. Galileo non poteva accettare che le sacre scritture, in cui affermava di credere, fossero in contrasto con la realtà fisica osservabile e quindi sottolineava la necessità di non accettare in modo letterale ciò che esse sostenevano. Era forse un modo per tutelarsi dalle accuse di eresia o piuttosto un metodo laico per discutere meglio di cose complesse? Propenderei per questa seconda ipotesi: la sua appare una pratica esemplare di laicità.

Dinanzi alla rivoluzione ecologica e digitale che sta per iniziare forse vale la pena tornare a riflettere sulla rivoluzione scientifica che lega Copernico, Galileo, Keplero e Newton e che inaugura la modernità.

“Revolutio” in latino vuol dire il ritorno del pianeta nell’orbita alla posizione iniziale. Quando Copernico scrive il “De revolutionibus” si presenta come il restauratore della purezza astronomica classica, pur sapendo benissimo che avrebbe introdotto una rottura “distruttiva” nella costellazione delle credenze stabilite.

Commentando la rivoluzione copernicana, il filosofo della scienza Giulio Giorello precisa che si tratta non di ‘conservazione’ ma di ‘restaurazione’ e che l’astronomo di Toruń utilizza in modo intenzionale quel termine e lo fa capire tra le righe della lettera dedicatoria a papa Paolo III. L’enfasi sul ritorno al passato forse vuole coprire il bisogno di novità, soprattutto in tempi in cui l’essere esplicitamente “rerum novarum cupidi” appare pericoloso.

Dunque, un espediente? Certo, ma non del tutto. Se una rivoluzione può essere razionale, dice il filosofo della scienza Karl Popper, deve giustificare non tutte le tradizioni, ma certe tradizioni contro le altre. Si dovrebbe approntare, in qualche modo, una teoria razionale della tradizione. E, in tale quadro, anche i miti andrebbero studiati per individuare una loro eventuale utilità nella rivoluzione che si intende compiere. La parola deriva dal greco ‘mýthos’, traducibile con ‘parola originaria’, cioè narrazione che comunica il segreto proprio delle origini.

 

Il pensiero mitico

Nella cultura dell’Occidente la forma del pensiero mitico, che è simbolica e non oggettivante, è stata opposta alla forma del pensiero logico e argomentativo e quindi accantonata dall’affermarsi della razionalità, considerata come unica via d’accesso alla verità. La conseguente riduzione del mito a storia fiabesca e leggendaria, imperante in epoca patristica e medievale, portò la Chiesa a negare la presenza di miti nella Bibbia, difendendo la natura storica di tutti i suoi racconti.

I fatti biblici, come la storia di Abramo e di suo figlio Isacco, sono racconti in cui – scrive il filologo Erich Auerbach – “il fine religioso determina […] una pretesa assoluta di verità storica […]. Il mondo delle storie della sacra scrittura non s’accontenta di voler essere la vera realtà storica, ma afferma d’essere l’unica vera”.

A partire soprattutto dalla metà del novecento, la riscoperta del valore positivo del mito ha modificato il precedente quadro di rifiuto. E così nei recenti studi biblici, i miti nelle sacre scritture sono considerati espressioni simbolico-drammatiche che intendono far luce sui problemi ultimi del reale. In questa prospettiva storia e mito non si escludono a vicenda; anzi il mito è uno dei modi con i quali la storia salvifica può essere fatta percepire dal mondo contemporaneo. Naturalmente, gli inserimenti mitologici nella Bibbia dovrebbero essere storicizzati e purificati da ogni elemento di grossolano antropomorfismo e assumere una funzione puramente simbolica e analogica.

I miti biblici sono stati, dunque, ricondotti alla loro originaria valenza, a cui Galileo si atteneva scrupolosamente nel leggerli senza dare un significato letterale a quanto essi affermavano. Ma oggi si continua ad inventare nuovi miti. Roland Barthes afferma che “il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio”. E l’”Enciclopedia della Bibbia” alla voce ‘mito’ afferma che “il mito è una sorta di filosofia naturale, spesso molto rudimentale che rivela quanto meno una forma logico-razionale del pensiero, la quale non è in sé né religiosa né antireligiosa, bensì a-religiosa”. Scrive il semiologo Umberto Eco che la mitizzazione odierna va intesa “come simbolizzazione inconscia, identificazione dell’oggetto con una somma di finalità non sempre razionalizzabili, proiezione nell’immagine di tendenze, aspirazioni, timori particolarmente emergenti in un individuo, in una comunità, in un’intera epoca storica”. Continueremo, dunque, ad essere sempre più invasi da miti.

Per districarci, dovremmo forse imparare a ricercare gli obiettivi che il mito intende incarnare, cioè quello che sta dietro il mito. Inoltre, dovremmo essere in grado di demistificarlo, individuando non solo le esigenze inconsce che l’hanno promosso, ma anche le esigenze consce di finalità che il più delle volte non vengono dichiarate. E queste finalità possono essere di vario tipo: creare proseliti di un movimento, alimentare una persuasione occulta per acquistare determinati prodotti o servizi, creare occasioni per sperimentare percorsi innovativi e così via. Insomma, dovremmo esercitare il senso critico nel leggere i miti.

 

La frattura tra tecnologia e pensiero

Non vi è dubbio che alcuni gruppi e movimenti aderiscono alla rivoluzione ecologica e digitale sulla base di azioni culturali, sociali ed economiche che poggiano su mitizzazioni e idealizzazioni. E c’è il rischio di una contrapposizione o, comunque, di una incomunicabilità con altri soggetti che aderiscono o intendono farlo sulla base di una progettualità razionale, priva di elementi trascendentali. E tali polarizzazioni, anziché attenuate e governate, vengono alimentate da esponenti sia del mondo scientifico sia di quello politico. Forse vale la pena chiedersi perché questo avviene.

Una spiegazione plausibile di tale fenomeno potrebbe essere individuata nella forte frattura che si è creata tra la velocità e l’intensità del progresso tecnologico che detta i parametri di una nuova economia, da un versante, e il controllo politico, le forme democratiche, la responsabilità etica, i quadri di interpretazione, la progettazione e i legami sociali, dall’altro. Una frattura resa visibile dal senso di spiazzamento che vivono le istituzioni politiche, sociali e culturali e dalla condizione di forte incertezza e fragilità che si è impossessata delle persone.

Eppure i due versanti che sembrano essersi staccati, in realtà non sono indipendenti. Vi è un legame, sottile ma decisivo, che li stringe in un unico nodo. Nel senso che è il progresso tecnologico a definire i limiti dell’orizzonte di possibilità entro il quale si muove il pensiero sull’umano che l’accompagna. Essa ne fissa per così dire i confini. Come scrive lo storico Aldo Schiavone: “La potenza della tecnica crea le condizioni perché il pensiero possa liberarsi, e concepire l’umano nella sua integrità e nell’infinita potenzialità racchiusa nella sua finitezza”. Nel nuovo spazio aperto dal progresso tecnologico sarebbe oggi possibile gettare le basi di una nuova teoria dell’umano – la fondazione di un’antropologia culturale, politica ed etica dell’uomo che ha integrato la tecnica dentro di sé – in grado di accompagnare e orientare la rivoluzione che stiamo vivendo. Siamo solo agli inizi: il progresso tecnologico va avanti spedito e il pensiero sull’umano, invece, appare immobile, bloccato, privo di energia. Potrebbe essere questa la causa della preponderanza dei miti legati all’odierna rivoluzione tecnologica?

Non è un problema marginale. La grande epoca della prima modernità industriale e capitalistica (il mondo che ormai è alle nostre spalle) fu accompagnata e orientata da una stagione intellettuale che mise in campo una nuova antropologia e una nuova teoria dell’umano. Penso al pensiero europeo da Hobbes a Hegel, sia pure con molte varianti, differenze e persino contraddizioni al loro interno. Al centro di quella costruzione campeggiava incontrastato il paradigma dell’individuale, collegato per mille fili alla concezione cristiana (nella versione luterana e calvinista fatta propria da Hegel) della persona. E anche la riflessione che ha cercato di opporgli il modello del collettivo – con il “noi” al posto dell’”io”: la linea che va da Rousseau a Marx e arriva dritto alle successive dottrine socialiste – ha finito con assumerne come immodificabili i tratti di fondo. Oggi è impossibile pensare il sociale senza partire dall’individuale. E tuttavia entrambi i filoni di pensiero si sono inariditi o, comunque, appaiono fortemente insufficienti dinanzi alla rivoluzione ecologica e digitale che si va aprendo.

Anche la ricerca storica, capace nel novecento di assumere un ruolo egemone nel disegno di un’alleanza con tutte le altre scienze umane (l’economia, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la geografia), oggi è in profonda crisi. Dal vasto e lungimirante disegno promosso da Marc Bloch e Lucien Febvre, il cui punto di riferimento è stata la rivista “Annales”, si è passati al dibattito di qualche anno fa se cancellare o meno l’intera materia dall’esame di maturità. Il nostro tempo – in cui tutti siamo bombardati, istante per istante, dal gettito continuo di informazioni – si caratterizza per la confusione tra verità e falsità. Il falso e il finto assediano il vero, lo intimidiscono e lo rendono flebile e soprattutto noioso. E tale confusione investe anche la storia. Così sembra tornare lo spettro dell’oblio del passato come risultato di una mancanza di speranza nel futuro. Se la speranza muore, al posto della storia si cerca l’illusione e ci si affida agli inganni di ideologie mitizzate prive di cultura.

 

L’esistenza della natura  

Il primo mito che Bucci indaga è quello riguardante l’esistenza stessa della natura. Preliminarmente, egli precisa che, ai fini della sua inchiesta, non interessa il modo come la nostra cultura trasforma e modella la nostra concezione di ‘natura’ e di ‘naturale’. E con questa saggia avvertenza evita di imboccare un vicolo cieco.

Non a caso Paolo Rossi, filosofo e storico della scienza, scrive che “il termine ‘natura’ non è un genere naturale, ma è un genere culturale”. Sembra un gioco di parole ma, in realtà, lo studioso ci vuole dire che la natura è un oggetto non facilmente determinabile.

Il filosofo Nicola Abbagnano distingue quattro concetti. La natura come principio di vita e di movimento (Aristotele definisce la natura come “la sostanza delle cose che hanno il principio di movimento in sé stesse”); la natura come ordine e necessità con la connessa idea di una legge naturale; la natura come spirito diminuito o imperfetto, come mondo dell’esteriorità, dell’accidentalità, del meccanismo; la natura come campo delle tecniche percettive e di osservazione delle quali dispone il sapere. Imbarcarsi in una simile disamina non ha alcun senso. C’è una sterminata letteratura su tale argomento che inizia nella Grecia arcaica e continua, con immutato fervore, in questi nostri giorni.

Il concetto di ‘natura’ è carico di significati emotivi. Appartiene a quelle cose davvero importanti per tutti e per ciascuno, come ‘vita’, ‘amore’, ‘morte’, ‘progresso’, ‘decadenza’, ‘valori’. E di esse abbiamo idee abbastanza confuse e disponiamo di definizioni approssimative o, ben che vada, discutibili.

Le visioni generali del mondo entro le quali si collocano i concetti o le idee sono attraversate da un pathos metafisico, da tonalità religiose, oltre che da motivazioni psicologiche inconsce. Di queste ultime, per definizione, non siamo per nulla consapevoli.

Una larga parte della nozione comune o corrente di ‘natura’ è infatti ancora oggi, come era alle origini, il risultato di proiezioni antropomorfe, è intessuta di miti, è legata a istinti e impulsi non razionali. La ‘natura’ continuerà di volta in volta ad apparirci come una benefica forza creatrice, come una continua e meravigliosa invenzione di forme e, insieme, come un’energia pericolosa, capace di produrre il male, priva di pietà, continuamente in procinto di annientarci e di suscitare i demoni della distruzione. È molto probabile che nessuna filosofia potrà davvero sradicare dalle menti quell’antica e profonda ambivalenza che trovò espressione nell’opera epico-filosofica di Lucrezio, intitolata “De rerum natura”. Questa è introdotta da un inno a Venere, con il quadro della primavera e dell’aperta luce del cielo, con il moltiplicarsi della vita e termina con il fiato di morte della peste che stermina le mandrie, copre di piaghe le membra degli uomini, li fa cadere a mucchi in preda al contagio, rende deserte le loro case e spinge i superstiti a lottare selvaggiamente tra loro.

Mi ha sempre affascinato l’alone di mistero che circonda la vita di Lucrezio. L’ipotesi del suo presunto stato depressivo e della sua morte suicida come tentativo bieco di screditarne il valore da parte di autori cristiani che non potevano ignorare l’opera del poeta-filosofo ribelle. ‘Ribelle’ nell’accezione del filosofo della scienza Ludovico Geymonat: colui che resiste di fronte al potere avvertito come iniquo e che soddisfa la sua sete di sincerità mettendo tutto lo scibile in discussione, al di là di ogni conformismo e principio di autorità.

Il poema di Lucrezio rimase sepolto nell’oblio per diversi secoli. Fu curiosando tra i manoscritti latini di un’abbazia nei pressi del lago di Costanza che l’umanista Poggio Bracciolini, uno degli appassionati cacciatori di opere dell’antichità pagana, trovò nel 1417 l’unica copia sopravvissuta dell’opera del poeta campano. Se ne diffuse immediatamente la fama, fu trascritta da molti (fra cui Niccolò Machiavelli) e fu subito per i suoi lettori la rivelazione non solo di un’opera stupenda ma anche della visione del mondo del materialismo antico.

Del senso di ribellione e della sete di sincerità, contenuta nel “De rerum natura” è intrisa la millenaria cultura rurale. Il rapporto del contadino con la terra è descritto con inarrivabile, splendida semplicità da Esiodo nel grande poema “Le opere e i giorni”. Un rapporto senza violenza, rispettoso dei ritmi naturali, quasi rituale. L’opera esiodea resta il punto di riferimento da cui partire per misurare i cambiamenti culturali e antropologici che sono intervenuti in Occidente, fino alla nostra società.

Parlando del rapporto che l’economista agrario Manlio Rossi-Doria aveva intrattenuto coi contadini, la figlia Anna, storica del femminismo, dei movimenti delle campagne, dell’antisemitismo e dell’Olocausto, annota: “Era come se tra i deboli, gli oppressi avesse scelto loro, non per dimenticare gli altri, ma per stare dalla parte dei più deboli, dei più oppressi. Sapeva che pochi capiscono i contadini. Per questo voleva bene a Nuto Revelli. Per questo, come si indignava per Bertolucci, così si commuoveva per ‘L’albero degli zoccoli’ e i suoi contadini cattolici lombardi. […] E ad ogni possibile occasione continuava a notare, con divertita meraviglia, quanto si somigliassero i contadini delle più diverse parti del mondo”. Tutta l’attività scientifica e politica del Professore di Portici sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto di questo suo tratto umano.

E ancora. Tutta l’opera sociologica di Franco Ferrarotti appare più nitida alla luce di uno dei suoi ultimi libri, intitolato “Atman”. Un testo autobiografico in cui lo studioso parla delle sue origini contadine, nella campagna vercellese. Il sociologo scrive nella prefazione: “Non c’era ancora la penicillina. Non si parlava di antibiotici. Dovessi rinascere, non mi spiacerebbe far parte del regno vegetale. […] Tagliare un ramo d’albero è come infliggere una ferita a un essere umano. Gli alberi parlano, chiacchierano tra loro, cantando e stormendo, vivono, nascono e muoiono come noi. Gli alberi sono nostri fratelli, o fratellastri, discreti, forse timidi ma, a modo loro, affettuosi. Vorrei tanto che, morendo, la decomposizione del mio corpo facesse almeno a loro da concime”.

E infine vorrei citare una filosofa che ha passato gran parte della sua vita intellettuale a integrare la teoria del contratto sociale di John Rawls per risolverne i punti di labilità rispetto a diverse asimmetrie sociali. Tra tali asimmetrie, Martha C. Nussbaum ha considerato anche la condizione degli animali non umani. Per Kant, soltanto l’umanità e la razionalità sono degne di rispetto e di ammirazione; il resto della natura non è altro che un insieme di strumenti. Nussbaum ritiene invece che, dal versante filosofico, il suo ‘approccio delle capacità’ si allinea “con l’Aristotele biologo nel sostenere che in ognuna delle forme complesse di vita che troviamo in natura c’è qualcosa di meraviglioso e degno di ammirazione”. Va precisato che la filosofa americana concorda pienamente con John Stuart Mill quando questi osserva che la natura è ben lungi dall’essere moralmente normativa. “In realtà – scrive la studiosa – essa è violenta, noncurante delle norme morali, ingenerosa e piena di conflitti; e presenta tali aspetti negativi non soltanto dinanzi agli esseri umani, ma anche dinanzi agli altri animali, i cui rispettivi rapporti con l’ambiente naturale con sono affatto armonici”. E tuttavia questa posizione non le impedisce di elaborare un profilo generale dell’’approccio delle capacità’ agli altri esseri senzienti, le cui vite sono, in maniera inestricabile e complessa, legate alle nostre. Ne vien fuori una pluralità di liste riferite a diritti dell’animale non umano legati alle “diverse capacità per funzionare, quelle che sono particolarmente essenziali per una vita fiorente, una vita dignitosa per quella creatura”.

Questi ambiti del pensiero umano sono preziosi e vanno coltivati con cura. Non vanno confusi con la ‘superstitio’ che Lucrezio intendeva combattere mediante la ‘ratio’ (verità “che squarcia le tenebre dell’oscurità”), distinguendo quest’ultima dalla ‘religio’ (cieca ignoranza). Sono ambiti del pensiero umano che appartengono al ‘sacro’, a quella dimensione meta-individuale, fatta di scopi collettivi, capaci di dare un senso meta-utilitario alla convivenza umana, un vincolo inter-soggettivo profondo e non occasionale, il cui bisogno, avvertito oggi in modo diffuso dagli individui nelle pieghe della società, né le religioni, né i partiti sembrano più in grado di raccogliere.

“La secolarizzazione e la mondializzazione – scrive lo scienziato politico Olivier Roy – hanno spinto le religioni a distaccarsi dalla cultura, a pensarsi come autonome e a ristrutturarsi in uno spazio che, essendo territoriale, non risulta più soggetto alla politica […]. La ‘santa ignoranza’ è il mito di una purezza religiosa che si costruisce al di fuori delle culture. Questo mito anima i fondamentalismi moderni, in concorrenza tra loro su un mercato delle religioni che acuisce le loro divergenze e contemporaneamente standardizza le loro pratiche”. Insomma, la ricerca del ‘sacro’ si fa strada nelle odierne società senza la mediazione di un sapere teologico, linguistico o culturale e dà vita al gran bazar dei riti, dei segni e dei miti.

Ma torniamo a Bucci e alla sua proposta di delimitare il campo d’indagine del concetto di ‘natura’. Abbiamo visto quanto sia facile disperdersi, se rincorriamo la polisemia di un termine complesso. Lo studioso suggerisce di identificare la ‘natura’ con il ‘mondo fisico’, di cui fa parte anche il ‘mondo umano’. E così è più facile individuare cosa serve, da un punto di vista operativo, ai fini delle politiche concrete per lo sviluppo sostenibile. In sostanza, lo scienziato propone di distinguere, nell’ambito della ‘natura’ ciò che è prodotto dell’attività umana da ciò che non lo è. E tale distinzione diventa utile a individuare con precisione ciò che è necessario nell’attività concreta per affrontare i problemi ecologici: gli effetti ambientali di origine antropica. Ai nostri fini – afferma Bucci – non ha senso considerare la natura nei suoi molteplici significati. Ma esclusivamente l’ambiente più o meno antropizzato, le azioni e gli effetti più o meno antropogeni, i cambiamenti indotti dall’uomo. Se dobbiamo decidere gli interventi e gli strumenti per lo sviluppo sostenibile, bisogna lasciar perdere concetti difficilmente definibili, come ‘ambiente naturale’, ‘stato di natura’ o ‘naturalità’ di certi fenomeni osservati. Non ha senso, per quello che ci serve, ricorrere ai binomi ‘naturale’ / ‘innaturale’, ‘naturale’ / ‘artificiale’, che ci porterebbero fuori strada, in contrapposizioni artificiose e ingiustificabili tra buoni e cattivi.

 

L’equilibrio naturale

L’altro tema che Bucci affronta è se esiste o meno un ‘equilibrio naturale’ da rispettare o da ristabilire. In altre parole, si chiede se c’è effettivamente quello che viene denominato ‘equilibrio ecologico’, con cui gli umani interferirebbero, mettendo a rischio loro stessi e la sopravvivenza del bioma.

Per smontare questa convinzione, egli afferma: “Gli ecosistemi ed il bioma non sono in equilibrio, ma in continua, dinamica competizione, con estinzioni e nuove fioriture, senza che la sopravvivenza di nessuna specie sia garantita (piuttosto il contrario); non sappiamo se, alla fine, non vi sarà un’estinzione completa della vita sulla terra, vita che potrebbe essere un fenomeno effimero, o se invece i meccanismi darwiniani ed il fenotipo esteso riusciranno a prevalere su qualunque tipo di condizione avversa, fino ad immaginare la migrazione interplanetaria quando il nostro Sole si spegnerà; per cui smettiamola con il conveniente mito falso dell’equilibrio ecologico, utile per lo più a vendere prodotti ed ideologie”.

Ma questo non significa – avverte lo studioso – che non dobbiamo affrontare i drammatici problemi ambientali. Lo dobbiamo fare con maggiore convinzione, evitando tuttavia soluzioni che, nell’intento di rincorrere fantomatici equilibri ecologici, in realtà ci portano ad esiti catastrofici. E gli esempi che egli adduce sono diversi, da un ampliamento sconsiderato dell’agricoltura biologica alla pratica del chilometro zero come alternativa alla grande distribuzione organizzata.

Il mito dell’’equilibrio ecologico’ – continua lo scienziato – si trascina l’idea, anch’essa fallace, che la nostra salute si possa trovare con il ‘ritorno alla natura armoniosa e salubre’.  “Le altre specie – scrive Bucci – non esistono affinché noi possiamo essere in buona salute, ma competono per le nostre stesse risorse su questo pianeta, cercando di vincere la gara con noi; risorse che includono i costituenti del nostro stesso corpo, che fin troppi animali, funghi, batteri e virus mirano a utilizzare a proprio vantaggio, in un processo per cui più diventiamo gregge abbondante di potenziali prede e ospiti per parassiti, più emergeranno altri organismi in grado di sfruttare una così conveniente forma di materia organica pronta al riutilizzo”.

Lo stesso mito di una ‘natura regolare e prevedibile’ – scrive Bucci – ci porta a considerare fallacemente come ‘giusto’ e ‘buono’ qualsiasi azione o prodotto in qualche modo riconducibile ad un immaginario ‘ripristino dell’equilibrio’. Ma alla ‘natura’ – anche egli, sulla scia di Mill, ci avverte – non sono applicabili le categorie morali. Eppure, a farne largo uso sono “i denigratori della tecnologia, delle scienze, dell’industria, della modernità, tutte sul banco degli imputati perché lontane dall’immaginario stato di natura e, dunque, ingiuste”. Per questo la conclusione di Bucci è un appello alla vigilanza critica e a fare buon uso della scienza: “Abbiamo bisogno di aprire gli occhi, liberarci dalle ideologie ed utilizzare la nostra conoscenza al meglio, invece di rifiutarla, prima che sia troppo tardi per noi e per l’ambiente”.

 

La scienza, oggi

Quando si parla di scienza spesso si confonde il concetto attuale con quello in voga fino ai primi decenni del novecento. La scienza classica riteneva, infatti, di poter dare un’immagine totale del mondo e di poter, quindi, racchiudere l’intero sviluppo del mondo in alcune formule matematiche.

A confronto con quello della scienza classica, l’atteggiamento della scienza contemporanea, dopo il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg e i risultati conseguiti sulla base di astratte strutture puramente ipotetiche, è assai più guardingo.

Nicola Abbagnano ha descritto così la differenza tra i due approcci: “La scienza classica si credeva in possesso della razionalità assoluta e perfetta e attribuiva ad uno stato provvisorio di ignoranza o di dubbio le difficoltà e le antinomie che essa incontrava nella delucidazione di quella razionalità in sé perfetta. La scienza contemporanea ritiene che la razionalità sia un processo di faticosa formazione, nel quale le difficoltà e le antinomie rientrano come momenti critici di indecisione e di travaglio”.

La scienza classica parlava in termini di evidenze e di necessità; la scienza contemporanea parla in termini di convenzioni e di probabilità. Le conseguenze di rilievo dell’evoluzione del concetto di scienza si possono individuare e riassumere nei seguenti punti:

a) sostituzione del concetto metafisico-dogmatico di ‘legge’ con il concetto di ‘legge tendenziale’, in senso probabilistico;

b) una nuova metodologia scientifica, che non si limita più a lavorare ‘in vitro’, proponendosi come meta invalicabile la riproduzione in laboratorio della ‘natura’ e dei suoi processi, bensì ‘inventa’, per così dire, più che scoprire, la natura stessa, producendo direttamente fenomeni, a prescindere dal fatto che essi trovino o meno riscontro nella ‘natura’;

c) un nuovo concetto di spazio e di tempo come ‘continuum’ bidimensionale, con conseguente superamento delle forme schema ‘a priori’ dello schema trascendentalistico kantiano;

d) elaborazione del concetto di ‘campo’, che porta all’identificazione della massa con l’energia;

e) teoria della relatività, che considera appunto la scienza classica come un caso limite della relatività.

L’emergere di questi cinque punti implica l’abbandono delle concezioni meccanicistiche e metafisicizzanti insieme con tutte le forme di sapere scientifico che ad esse si richiamano sia nel campo della fisica e in genere delle scienze naturali che in quello della sociologia e delle altre scienze sociali.

Il progresso del sapere scientifico viene a dipendere essenzialmente da un’impostazione operazionistica, nella quale e per la quale esperimento e produzione di nuovi dati, prova di verifica e processo reale fondamentalmente coincidono.

E per concludere una considerazione sul rapporto tra scienza e democrazia. È stato detto autorevolmente che le questioni scientifiche non si decidono usando la regola della maggioranza. Hanno invece bisogno del tempo necessario alle nuove acquisizioni di essere rese sicure ed efficaci. Un conto è un fatto verificato e consolidato da prove e che potrà sempre essere messo in discussione da nuovi dati scientificamente acquisiti. Un altro conto sono le opinioni prive di prove o espresse da persone che esulino dal perimetro di coloro che utilizzano il metodo scientifico. Nella scienza non esiste il principio di autorità, ma è il metodo a determinare (pubblicamente) la validità o no di ciò che viene fatto. Questo procedimento garantisce che, nella costruzione della fiducia, tutti gli attori siano chiamati in causa.

Raccontare ai cittadini la scienza nel suo farsi dovrebbe essere, dunque, il nuovo compito degli scienziati e dei ricercatori. Compito che essi dovrebbero svolgere alimentando dentro di sé e contribuendo a far crescere negli altri una coscienza civile diffusa sull’importanza del metodo scientifico.

L’avvenire delle nostre società non dipende esclusivamente dallo sviluppo scientifico, bensì anche dalla capacità di valutazione critica globale, cioè da una cultura integrata in cui la scienza riscopra la sua funzione rispetto al significato dell’uomo senza pretendere di esaurirlo.

“Ho imparato che il ricercatore è sempre dentro, non fuori, della ricerca. Ho imparato, in altre parole, che il ricercatore è sempre, anche lui, un ricercato”. È una riflessione di Ferrarotti che mi pare possa chiudere bene queste divagazioni, leggere e disordinate, su temi di straordinaria importanza per noi e le generazioni future.

 

 

 

 

 

 

 

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