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Bisogna rompere la convergenza di interessi tra malavita organizzata e illegalità diffusa. La condizione di clandestinità è funzionale ad un mercato del lavoro sommerso fondato sullo sfruttamento.
I migranti che arrivano clandestinamente sulle nostre sponde del Mediterraneo pagano alle organizzazioni criminali somme che si aggirano tra i tremila e i cinquemila dollari. Sono pochi gli africani che possono permettersi di spendere tali somme, se si considera che il reddito medio nei paesi d’origine oscilla tra i cinquanta e i cento dollari al mese. I migranti che arrivano dal sud del mondo non appartengono, pertanto, ai ceti sociali più poveri in assoluto ma a quelli che possono permettersi di pagare costi molto onerosi per spostarsi. Spesso sono persone che hanno studiato e guardano ai nostri paesi come ad una opportunità per dare una svolta alla propria vita.
Ma le organizzazioni criminali che gestiscono la tratta illegale di migranti impongono ad essi la condizione di clandestinità distruggendo i documenti d’identità e impedendo al paese di destinazione di individuare l’identità e la provenienza delle persone che arrivano.
La condizione di clandestinità è funzionale ad un mercato del lavoro sommerso fondato sullo sfruttamento. Le retribuzioni sono così molto più basse rispetto ai parametri in vigore, i contributi previdenziali e gli oneri fiscali non sono versati, le condizioni di lavoro sono schiavistiche. E pende su questi lavoratori il ricatto di essere ricacciati nei paesi d’origine qualora non dovessero accettare tutte le condizioni che gli vengono imposte.
La manodopera nigeriana e senegalese utilizzata per la raccolta stagionale dei pomodori nel casertano, ne è una chiara testimonianza. Ma anche nel nord-est si attua lo stesso meccanismo perverso che vede gruppi di piccoli e medi imprenditori fomentare le campagne xenofobe contro gli immigrati, per impedire ogni legalizzazione che toglierebbe loro la possibilità di potersene avvalere con l’arbitrio.
Con le somme pagate ai mercanti di morte, i migranti potrebbero tranquillamente acquistare un biglietto aereo, come turisti, per poi richiedere il visto di residenza una volta ottenuta l’opportunità di lavorare, evitando di rischiare la morte nelle tragiche traversate a bordo di barconi improvvisati che attraversano il Mediterraneo.
Ma l’ostacolo lo incontrerebbero nel momento di stipulare un contratto di lavoro regolare, condizione essenziale per ottenere il visto di residenza.
C’è dunque da sconfiggere la coincidenza di interessi tra mercato del lavoro volto a sfruttare illegalmente gli immigrati e le organizzazioni che lucrano per organizzare le tratte illegali.
Bisogna intervenire necessariamente su entrambi i versanti per arginare il fenomeno. E il nucleo del problema è la tutela della legalità.
Nel nuovo Rapporto Ocse sull’immigrazione in Italia, si rileva in tutti i settori una vasta area di lavoro in nero, che l’organizzazione stima al 10% dell’economia nazionale, con vaste aree di precariato.
Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma, afferma che “nel nostro paese si può azzardare una stima di 100 mila braccianti gravemente sfruttati, in cinquemila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio. Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati: i caporali hanno una fortissima capacità di intimidazione nei loro confronti e prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati”.
Secondo i dati ISTAT, i lavoratori agricoli a rischio sfruttamento sono almeno 400 mila. A migliaia restano sui campi anche 12 o 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l’ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60.
“È una partita molto ricca – aggiunge Carchedi – un raccolto delle angurie fatta con gli immigrati sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di lavoratori italiani, il raccolto costerebbe almeno 70 euro per ogni lavoratore e durerebbe un mese e mezzo”.Il giro d’affari legato al bisiness delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 milardi di euro all’anno. L’evasione contributiva legata solo al caporalato è stimata intorno ai 600 milioni di euro.La giornalista Valeria Teodonio che ha svolto un’inchiesta sull’agromafia, sostiene che “il caporale è solo l’ultimo anello di questa catena di sfruttamento. Sopra di lui – nel 90% dei casi c’è un’italiano – spesso un faccendiere, un avvocato o un commercialista, che gestisce il giro delle case e degli affitti. Al di sopra del faccendiere c’è il capo vero e proprio dell’organizzazione, quasi sempre un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini”.
Ciò che manca per fronteggiare il fenomeno migratorio è una strategia condivisa e un sistema di coordinamento della comunità internazionale, in grado di assicurare una gestione trasparente che tolga spazio alle organizzazioni criminali di speculare sulla vita di migliaia di persone ignare del destino cui vanno incontro. Bisognerebbe rendere le strutture di prima accoglienza più idonee e meglio attrezzate nei loro compiti.
Lo “Jus soli” (diritto di cittadinanza alla nascita) dovrebbe rientrare nell’ambito di una norma della Comunità Europea, che stabilisca le condizioni in base alle quali i migranti che vivono nel rispetto della legalità e i loro figli nati nel territorio dello stato, ottengono il diritto di cittadinanza. Non ha alcun senso che gli stati membri dell’UE adottino normative diverse in una comunità sovranazionale che sancisce la libera circolazione dei propri cittadini.
Occorre, infine, sconfiggere la pratica dello sfruttamento da parte di imprenditori agricoli senza scrupoli. In alcune realtà del Mezzogiorno ci sono piccoli proprietari di terra che percepiscono aiuti diretti della Pac e indennità di disoccupazione per prestazioni di lavoro mai effettuate. Ma poi sfruttano gli immigrati senza alcun ritegno, spesso nella più completa indifferenza delle istituzioni e delle organizzazioni di categoria.
Il governo tedesco ha introdotto il vincolo giuridico del salario minimo di 8,50 euro l’ora. Si potrebbe fare qualcosa del genere anche da noi per tutelare il principio, sancito dal Testo Unico sull’immigrazione, della “parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”.
Ma se non si diffonde una cultura della legalità, è difficile che questo odioso fenomeno possa essere sconfitto.