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Relazione presentata al Convegno "Il Sessantotto nelle campagne" organizzato dalla Fondazione Basilicata Futuro e svoltosi a Matera il 14 dicembre 2018 presso la sala conferenze del Museo "Domenico Ridola"
Per comprendere alcuni tratti significativi del Sessantotto italiano – rimasti per lo più trascurati dal caleidoscopio di saggi e dibattiti in occasione del cinquantenario – occorre succintamente ricostruire la transizione dall’antica alla nuova ruralità, così come si è manifestata nell’evoluzione della società italiana dagli anni Cinquanta ai nostri giorni. Si potrà così scorgere la faglia che si creò durante la fase di modernizzazione dell’agricoltura e che impedì di affrontare positivamente il nodo storico del dualismo Nord-Sud dell’Italia. Una frattura nell’osmosi che si era realizzata tra la cultura tecnico-agronomica ed economico-agraria e la sapienza esperienziale dei contadini e dei proprietari terrieri – a partire dal Rinascimento e strutturatasi dalla seconda metà dell’Ottocento in una efficiente organizzazione pubblica della conoscenza agricola – e che aveva accompagnato l’antica aspirazione delle campagne a trasformarsi attraverso i ritrovati della scienza e della tecnica. La rottura cognitiva ebbe un impatto sociale ed ecologico devastante perché travolse anche le forme di collaborazione e integrazione che si erano avviate tra i tecnici, gli ingegneri e gli economisti agrari (coinvolti nel primo periodo di attuazione della riforma agraria e del programma di interventi della Cassa del Mezzogiorno), da una parte, e il mondo degli operatori sociali, dell’istruzione e dell’educazione, dall’altra.
L’abbandono dell’idea dello sviluppo mediante lo studio di comunità e l’accompagnamento dell’innovazione tecnologica fu l’esito della scelta trasversale – compiuta dai governi, dai partiti e dai sindacati – dell’industrializzazione forzata dall’alto in una logica fordista, che metteva ai margini la dimensione territoriale dei processi economici e la considerazione della conoscenza – che aveva acquisito, nel frattempo, con la rivoluzione scientifico-tecnologica il ruolo di fattore immediatamente produttivo – come bene comune da socializzare. Il disagio profondo provocato da quella faglia, che metteva in discussione antichi assetti senza predisporre nuovi rapporti sociali e comunitari è una delle cause dei movimenti del Sessantotto. Ma in pochissimi lo compresero, mentre quei moti si svolgevano. E l’incapacità di leggere correttamente quella vicenda ha impedito finora di ricomporre quella frattura, condannando il Mezzogiorno e l’agricoltura a un destino assistenzialistico e periferico.
Nonostante tutto, una nuova ruralità si è andata a formare spontaneamente. E oggi costituisce, nella molteplicità dei suoi volti e delle sue motivazioni e idealità, uno degli ambiti più innovativi della nostra economia. Un ambito che potrebbe sprigionare tutte le sue potenzialità ed estendersi in tutti i territori del Paese, se si creassero le condizioni per mobilitare le istituzioni della conoscenza e accompagnare, con nuove politiche e percorsi partecipativi, l’innovazione sociale e, al tempo stesso, tecnologica.
Dalla riforma agraria alla scelta industrialista
Tutto iniziò con la riforma agraria che agì come un «colpo d’ariete» – prendendo in prestito la suggestiva interpretazione di Giuseppe Medici, fatta propria da Luigi Einaudi – delle ondate di trasformazioni che investirono il tessuto economico del Paese nel secondo dopoguerra. Si realizzarono infatti, da una parte, un nuovo e più esteso processo di industrializzazione e, dall’altra, l’innesto su una proprietà più diffusa della terra di un’agricoltura più moderna, come due facce della stessa medaglia. Già nel 1958 gli occupati in agricoltura cedettero il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria. Questo dato ci fa comprendere la dirompenza del processo che si era innescato.
Mentre prendeva vigore un percorso virtuoso di sviluppo, si avviava, per iniziativa della Svimez, l’elaborazione di una nuova impostazione di politica economica che, nell’imprimere alla Casmez una svolta industrialista, avrebbe provocato, nel giro di pochi anni, un vero e proprio disastro. La proposta era dettata dalla volontà di assicurare subito la crescita e non era inserita in una visione strategica dello sviluppo. Si fondava sulla certezza cieca che la presenza di grandi impianti industriali di Stato nel Mezzogiorno avrebbe stimolato la diffusione di una prassi e di una cultura imprenditoriale. Non prevedeva alcun impegno concreto nell’attivare l’iniziativa privata e le risorse locali. Si nutriva della fiducia taumaturgica nella capacità dei grandi gruppi industriali di creare in pochissimi punti ben delineati i fattori esterni richiesti dall’impianto di un grande stabilimento. E dunque non lasciava trasparire alcuna volontà di creare, in modo diffuso, condizioni propizie allo sviluppo economico.
L’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto passava trasversalmente in tutti i partiti che temevano, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale, causa di forti disagi sociali e imprevedibili mutamenti politici. La Dc vedeva nell’insediamento dell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci vedeva nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni[1].
Le voci che si levarono contro quell’idea, tra cui quelle di Adriano Olivetti, Manlio Rossi-Doria, Giorgio Ceriani-Sebregondi[2], Achille Ardigò, Carlo Levi e Danilo Dolci furono messe a tacere. E nel momento in cui la proposta diveniva la grande scelta strategica per il Sud, si delegittimava e progressivamente marginalizzava un’intera cultura economica, sociale e politica – affermatasi in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento – che considerava lo sviluppo inevitabilmente autoctono, cioè fondato sulla migliore combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio e capace di tener conto dei condizionamenti sociali, politici e istituzionali. Veniva, in sostanza, scartata l’idea di articolare l’intervento nel Mezzogiorno per contesti e per aree di sperimentazione, attraverso una maturazione guidata dalla ricerca e dalla crescita dei processi educativi e formativi, mediante il costante coinvolgimento della società civile[3]. Si faceva leva sull’emotività, agitando le previsioni dei flussi migratori che erano indubbiamente allarmanti. Ma si evitava di spiegare che l’esodo rurale era un processo sostanzialmente «liberatore» – per usare un’espressione di Rossi-Doria – che avrebbe messo definitivamente in crisi l’intera organizzazione tradizionale dell’agricoltura meridionale e obbligato a porre in termini completamente nuovi i problemi agricoli nel Mezzogiorno[4]. La fase dell’esodo dalle campagne, qualora fosse stata accompagnata da efficaci politiche territoriali di sviluppo, avrebbe indotto spontaneamente e nel giro di poco tempo un controesodo, cioè un esodo urbano, da sostenere e accelerare per raggiungere un riequilibrio. Ma sarebbe stato necessario salvaguardare e rielaborare la cultura agricola e rurale, per evitare che subisse un processo di erosione e prevaricazione da parte della cultura urbana e industriale[5].
Fu Ardigò a respingere più di tutti l’atteggiamento prevalente della cultura italiana nei confronti del mondo contadino. Egli contestava l’ideologia di chi percepiva la trasformazione di quella forza sociale, che era portatrice di una cultura non riducibile alla cultura urbana e industriale, come un processo necessario e ineludibile della modernizzazione, senza alcuna possibilità di mediazione e adattamento. Una tesi ritenuta aberrante dal sociologo poiché portava a considerare la stessa modernizzazione dell’agricoltura, laddove veniva colta e considerata come elemento capace di contribuire allo sviluppo del Paese, necessariamente in conflitto con la tradizione e, soprattutto, con il bagaglio di valori comunitari e relazionali e di conoscenze riferite al rapporto uomo-natura, di cui la cultura contadina era portatrice. E nel contestare tali opinioni prevalenti, Ardigò invitava a favorire l’incontro fecondo tra la cultura urbana e industriale con quella rurale in forme innovative da progettare e realizzare, collegandosi idealmente ad analoghe transizioni già avvenute nella storia[6].
Il disinvestimento nell’istruzione agricola tra le cause della rottura ecologica
La deriva dell’industrializzazione forzata dall’alto e l’abbandono dell’approccio dello studio di comunità per le politiche di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico, psicologico ed educativo, ebbero conseguenze catastrofiche nell’impegno dei governi sui problemi dell’agricoltura. Non avendo a disposizione strumenti scientifici essenziali per leggere la realtà, la classe dirigente non comprese che l’agricoltura e la ruralità non stavano scomparendo ma erano alle prese con profonde trasformazioni.
Iniziò allora un fatto gravissimo: veniva sempre più ridotto il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. La gran parte dei tecnici che uscivano dalle scuole e dalle facoltà di agraria venivano assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventavano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra questi e le industrie produttrici di mezzi tecnici.
La cultura agronomica ed economico-agraria, nonché quella nel campo dell’ingegneria idraulica, si erano fatte carico, fino a quel frangente, di una funzione decisiva nell’influenzare le decisioni politiche che avevano guidato l’elaborazione e l’attuazione delle leggi di riforma agraria e la realizzazione delle opere infrastrutturali nelle campagne meridionali mediante l’intervento straordinario nel Mezzogiorno. I tecnici agricoli avevano espletato questa funzione convinti di portare una responsabilità intellettuale e civile ben superiore alla semplice erogazione di specifiche competenze. Essi avevano ritrovato nel secondo dopoguerra, così come era avvenuto prima e durante il fascismo, una compattezza di gruppo e una capacità decisionale che stupisce se rapportate alla consistenza numerica della categoria. Avevano mostrato un’attenzione alla dimensione etico-politica dell’agire sociale ed erano stati attenti al consolidamento di una reputazione che avevano coltivato nei decenni precedenti legata ad una loro propria specifica funzione: quella di espandere il progresso, affermare la centralità dell’agricoltura nell’economia e attribuire una specificità di valori al mondo rurale[7].
Il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali che guardavano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale ai fini di uno sviluppo della società locale inteso come autosviluppo delle popolazioni locali e come bisogno complesso di continua combinazione di più fattori, costituì una delle cause di fondo della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui fu lasciato l’agricoltore. Si può affermare che, almeno in Italia per le vicende che ho tentato di raccontare, la crisi ecologica è in parte da addebitare anche all’abbandono di quel filone di pensiero e di iniziativa che parte da Carlo Cattaneo e individua nella coesione sociale una premessa, non l’esito dello sviluppo[8].
L’incapacità di immaginare uno sviluppo industriale postfordista
Tra le vittime più significative della svolta industrialista e dell’abbandono dell’approccio allo sviluppo mediante lo studio di comunità è da considerare Olivetti[9], un imprenditore illuminato e creativo il quale aveva compreso per tempo che la sfida era il passaggio da una base sociale di tipo manifatturiero ad una di stampo cognitivo, come nuovo motore dell’economia. E aveva pensato che, mediante una simile transizione scientifico-tecnologica, si potesse perseguire l’obiettivo di umanizzare il potere politico ed economico, sciogliendo il dilemma di fondo del nostro tempo, che ci divide fra il bisogno di libertà individuale e le esigenze di giustizia collettiva. Egli non era l’«imprenditore innovatore e dinamico» teorizzato da Joseph Schumpeter. Era innanzitutto un operatore sociale, ossia un uomo politico nel senso pieno, che sul terreno dell’organizzazione industriale aveva trovato il primo campo su cui sperimentare un pensiero complesso, ma coerente in ogni sua parte, tale da abbracciare organicamente il piano della comunità territoriale, con i suoi problemi urbanistici e amministrativi, il problema delle funzioni fondamentali di una convivenza democratica, coordinata al centro e articolata alla base, e infine il problema della ristrutturazione dello Stato, ereditato dalla tradizione liberale, affetto ormai da crisi cronica di fronte alle nuove, crescenti esigenze della società moderna.
Per il Mezzogiorno, Olivetti aveva elaborato e proposto un piano organico per lo sviluppo industriale[10], piano che, oltre agli aspetti propriamente economici e finanziari, tipici di qualsiasi investimento produttivo, prendeva simultaneamente e coordinatamente un triplice ordine di esigenze: 1) l’esigenza democratica, per cui il piano veniva fatto proprio, attraverso la partecipazione popolare diretta, dai cittadini della zona interessata; 2) l’esigenza tecnica, ossia la ricerca scientifica come strumento di lavoro, allo scopo di sottrarre le decisioni rilevanti alle contraddittorie pressioni degli interessi sezionali e alle operazioni di sottogoverno; 3) l’esigenza culturale, infine, come funzione complementare di grande rilievo, mediante l’istituzione di scuole di organizzazione e di direzione aziendale, scuole professionali di primo e secondo grado, scuole d’arte applicata e di disegno industriale, istituti di psicologia vocazionale, scuole di pianificazione per amministratori locali.
A proposito di tale impostazione dello sviluppo industriale del Sud, Franco Ferrarotti scrive: «Tentativi siffatti si è voluto talvolta spacciarli come non realistici, come utopistici. In realtà, a me sembra che essi arrivino fino al cuore di uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, il problema della partecipazione popolare alla vita dello Stato e della socializzazione del potere. La pianificazione comunitaria è importante per la soluzione di questo problema perché è un tipo di pianificazione commisurata ai bisogni sperimentalmente veri delle persone, interrogate e attivamente coinvolte nell’opera di riforma dall’interno nel luogo stesso dove esse vivono, ossia in quella che Olivetti chiamava la “comunità naturale”»[11].
Attraverso la pianificazione comunitaria, Olivetti aveva pensato che fosse possibile orientare alla libertà delle persone e al bene comune i benefici della rivoluzione tecnologica. L’8 novembre 1959, nel discorso di presentazione al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi dell’ultimo modello di calcolatore Elea 9003, realizzato con l’aiuto dell’ingegner Mario Tchou a Borgo Lombardo, così si era espresso: «L’elettronica non solo ha reso possibile l’impiego dell’energia atomica e l’inizio dell’era spaziale, ma attraverso la moltiplicazione di sempre più complessi ed esatti apparati di automazione, sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di libertà e di conquiste. […] Con la realizzazione dell’Elea, la nostra società non estende semplicemente la sua tradizionale produzione ad un nuovo settore di vastissime possibilità, ma tocca una meta in cui direttamente si invera quello che penso sia l’inalienabile, più alto fine che un’industria deve porsi, di operare cioè non soltanto per l’affermazione del proprio nome e del proprio lavoro, ma per il progresso comune – economico, sociale, etico – della collettività»[12]. Una concezione controcorrente in un Paese dove prevaleva una cultura storicista assoluta, non importa se hegeliana o marxista. Una concezione da non confondere con il macchinismo e lo scientismo. Per Olivetti il nuovo mondo tecnologico – che egli stava contribuendo a preparare con l’esperimento elettronico “Programma 101”, il primo personal computer – nasceva per la libertà e le nuove conquiste dell’uomo.
Le peculiarità del Sessantotto italiano
È utile ripercorrere le trame dello sviluppo italiano tra gli anni Cinquanta e Sessanta e delle sue distorsioni per comprendere meglio i caratteri del nostro Sessantotto. A differenza di quanto avveniva in altre parti del mondo, esso infatti vedeva protagonista, in forme originali, anche il mondo rurale. Il Sessantotto non fu, almeno in Italia, un fenomeno che riguardasse esclusivamente studenti e operai, università e fabbriche. Non fu un fatto meramente urbano. Averlo letto con le lenti urbanocentriche e operaiste è stato il motivo di fondo per il quale ancora oggi, a cinquant’anni da quell’evento, non siamo ancora riusciti a comprenderne il senso più profondo[13].
Manca ancora una ricostruzione storica basata su documentazione non episodica o limitata. E soprattutto manca un quadro d’insieme del fenomeno nel lungo periodo. La crisi culturale e politica che allora si aprì non si è mai risolta. Nonostante la domanda di profondi cambiamenti, in questi cinque decenni, non si è fatta alcuna riforma istituzionale seria, i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno per nulla rivisto i fondamenti dei propri statuti. La società civile ha dato vita a nuovi movimenti e organizzazioni sociali che però non hanno mai raggiunto un equilibrio con un sistema politico capace di rinnovarsi profondamente.
Perché la domanda di cambiamento espressa dal Sessantotto, dopo cinquant’anni non trova risposta? Per comprenderlo, bisognerebbe chiedersi: chi erano quegli studenti? chi erano quegli operai? Erano perlopiù i figli dei contadini fuggiti dalle campagne alle prese con la modernizzazione dell’agricoltura. Oppure i figli dei contadini che si erano appena trasformati in imprenditori. Era, dunque, tutta la società in ebollizione. E la storia di questo lungo Sessantotto va ricostruita esaminando tutti i gangli della società, l’insieme delle trasformazioni, se si vuole capire perché è una vicenda che non passa.
Il grande esodo dalle campagne verso le città e dal Mezzogiorno verso il triangolo industriale non aveva spento la voglia dei contadini di partecipare alla vita del Paese. Anzi era riemerso un protagonismo attento ai problemi nuovi e inediti, affiorati a seguito della “grande trasformazione”. E tale aspetto ora lo differenziava enormemente dal protagonismo che si era espresso in occasione delle lotte per la terra. Erano rimasti nelle campagne contadini che adesso possedevano finalmente il loro podere come veri imprenditori. L’avevano comprato o lo stavano riscattando oppure lo conducevano in affitto e pagavano un canone più equo. Ma si accorgevano che il maggior grado di autonomia e libertà che derivava dalle condizioni più stabili di possesso della terra non si traduceva in un’espansione soddisfacente dell’iniziativa economica.
La politica dei prezzi praticata da Bruxelles garantiva migliori condizioni di vita ma impediva di crescere dal punto di vista imprenditoriale. All’agricoltore veniva chiesto solo di produrre di più e se poi non vendeva quello che realizzava non importava, perché era in parte comunque garantito[14]. Non c’erano servizi che aiutassero gli agricoltori ad utilizzare meglio le risorse del territorio, a diversificare le attività aziendali, a costruire relazioni economiche con le industrie di trasformazione e le imprese di commercializzazione di reciproca soddisfazione. Non c’erano azioni formative con cui migliorare le proprie conoscenze e competenze. Mancavano rapporti stabili tra i centri di ricerca e sperimentazione e le aziende agricole per evitare che il progresso tecnico fosse frutto solo dell’iniziativa dell’industria produttrice di mezzi tecnici e delle strutture commerciali. Non c’erano strumenti capaci di cogliere nuovi bisogni sociali che l’agricoltura potesse soddisfare e tradurre in un’effettiva domanda di beni e servizi e in nuovi mercati da costruire.
L’associazionismo imposto dai regolamenti comunitari in Italia era gestito quasi interamente dal sistema di potere che gravitava intorno alla Coldiretti e alla Federconsorzi. Non costituiva, dunque, uno spazio di libera partecipazione per accrescere la dimensione economica della propria impresa. Si presentava, invece, sotto forma di un insieme di agenzie che gestivano le politiche protezionistiche ed erano fondate su meccanismi burocratici imposti dalla pubblica amministrazione[15].
Mancava in generale una preparazione adeguata degli amministratori locali per organizzare i servizi civili e migliorare la viabilità nelle campagne, per avvicinare le condizioni di vita delle aree rurali a quelle delle zone urbane. Le differenze che permanevano tra vita in città e vita in campagna venivano ora avvertite come un’ingiustizia non più motivabile nel nuovo contesto produttivo ed economico dell’agricoltura[16]. Non si coglievano le novità intervenute nella famiglia contadina che aveva perduto la dimensione di centro organizzatore di produzione, consumo e servizi, ma si proiettava ad essere aggregato aperto in cui le singole persone apportavano contributi diversi ed esprimevano bisogni differenziati. Come ebbe a dire con coraggio Adriana Zaccarelli, responsabile dell’Ufficio Femminile dell’Alleanza, “l’assicurazione di un reddito sufficiente e adeguato al lavoro svolto non è per se stesso elemento sufficiente alla presenza contadina nelle campagne, se non si assicurano nello stesso tempo condizioni più paritarie e democratiche nella famiglia, un minimo di vita civile e una prospettiva sufficiente per l’educazione e l’avviamento al lavoro dei figli”[17].
Non si avvertiva l’urgenza di politiche pubbliche volte a mitigare il rischio idrogeologico connesso alla “grande trasformazione” e alle profonde modifiche negli usi del suolo e delle acque che si concretizzavano a seguito della crescita dell’urbanizzazione e delle aree industriali nelle pianure e dei fenomeni di abbandono nelle alture collinari e montane[18].
E gli eventi catastrofici non si fecero attendere: l’alluvione del 1954 nel Salernitano che causò oltre 300 morti; la frana che nel 1963 precipitò nella diga idroelettrica del Vajont e provocò l’evento idrogeologico più grave nella storia dell’Italia unita, uccidendo duemila persone; la frana di Agrigento del 1966 che distrusse una parte consistente della città abusivamente edificata; l’alluvione del 1966 che colpì Firenze e che ebbe come causa principale la costruzione avventata di due dighe idroelettriche; l’alluvione del 1968 nel Biellese che provocò oltre 70 vittime e trascinò con violenza fino a Vercelli le spole dei lanifici Valmossesi incautamente edificati sugli argini di un corso d’acqua.
Tali episodi erano gli effetti luttuosi e distruttivi di un boom economico non governato[19]. La gestione del territorio era, difatti, un aspetto del tutto marginale nell’agenda politica. E tutto ciò produceva sgomento e spaesamento nelle campagne, dove invece era ancora viva la sensibilità alle pratiche secolari di manutenzione della terra. Sconcertava soprattutto l’incapacità delle classi dirigenti di ricordare che l’agricoltura è innanzitutto il grande archivio dove si conserva e si aggiorna la capacità degli uomini di riprodurre non solo gli agrosistemi ma anche l’insieme delle interrelazioni tra città e campagne.
La nuova condizione dei contadini
La condizione in cui molti contadini vennero a trovarsi metteva in discussione due elementi di fondo della loro condizione precedente. Il primo era l’autonomia nell’introdurre il progresso tecnico in azienda e nell’organizzare le proprie relazioni economiche. Il secondo era la libertà di scegliere processi produttivi e attività in un ventaglio ampio di opportunità offerte dalle economie locali e informali.
Ma questi condizionamenti derivavano direttamente dal progresso che si era realizzato nelle campagne e si potevano attenuare solo con un protagonismo degli agricoltori sul terreno economico e con politiche che accompagnassero e rafforzassero tale protagonismo[20]. In realtà, le politiche pubbliche che si realizzavano svolgevano proprio una funzione opposta perché erano improntate ad una logica assistenzialistica.
Le forme prevalenti d’intervento pubblico con riferimento ai mercati agivano solo come sistema di garanzia e non costituivano un’opportunità di crescita. Man mano che si rafforzavano sul piano professionale e imprenditoriale, gli agricoltori avvertivano sempre più l’importanza di questi nuovi problemi e facevano fatica a seguire le logiche della contrapposizione politica, che tra l’altro si riferivano a problemi che non esistevano più o che si erano molto attenuati. Del resto, la maggior parte dei “capipopolo” delle lotte contadine degli anni Quaranta, essendo i più svegli e intraprendenti, o erano emigrati definitamente, oppure si erano trasformati in artigiani o in piccoli imprenditori industriali.
Nel Mantovano, Steno Marcegaglia[21], figlio di un emigrante e impegnato nell’Alleanza dei contadini, nel 1959 aveva deciso di avviare l’attività imprenditoriale nella metallurgia. Trasformerà in un trentennio la piccola azienda in un gruppo internazionale, leader nella lavorazione dell’acciaio.
Nelle organizzazioni agricole molti dirigenti erano stati, pertanto, sostituiti da agricoltori più giovani e meno legati ideologicamente ai partiti di riferimento. Ciò permetteva uno scambio più libero a livello di base tra le organizzazioni professionali. E la conseguenza era una richiesta sempre più pressante che si levava dagli agricoltori verso le rispettive strutture di rappresentanza per realizzare una maggiore autonomia dai governi e dai partiti e organizzare la vita interna in modo tale che i gruppi dirigenti avrebbero dovuto rendere conto del proprio operato.
Nella Coldiretti[22] soprattutto, ma anche nella Confagricoltura[23], dove vigevano pratiche verticistiche e gerarchiche, ciò che stava accadendo sconvolgeva la vita interna e generava crepe che si sarebbero fatte sempre più vistose negli anni a seguire.
Le intense trasformazioni che investivano le campagne incidevano enormemente anche sulla nuova condizione dei lavoratori agricoli dipendenti e sulle iniziative sindacali che li riguardavano. Per dibattere tali problemi nel 1961 era nata la rivista bimensile Lotte agrarie. L’iniziativa editoriale era stata assunta dalla Federbraccianti e dalla Federmezzadri. Angelo Ziccardi, che ne era l’ispiratore, ricopriva il ruolo di direttore responsabile. Compito della rivista era quello di contrastare una tesi emersa nella Cgil: l’unificazione capitalistica del Paese era da ritenersi ormai avvenuta, il salario andava considerato una variabile indipendente e ogni conflitto sociale doveva ridursi ad una sola contraddizione costituita dal capitale e dal lavoro. Da queste posizioni si faceva derivare che bisognava puntare solo sull’organizzazione sindacale nei posti di lavoro e che le leghe territoriali non avevano più ragione di esistere. Ma per gli animatori di Lotte agrarie, quelle idee fallaci non costituivano semplicemente un’astrazione. Avevano un impatto pratico dirompente: la cancellazione dei legami di massa che le leghe tessevano con le comunità-territori, l’abolizione del collocamento agricolo e degli elenchi anagrafici presuntivi. Di qui la reazione dei due sindacati agricoli che tentavano di andare controcorrente e di far comprendere che l’agricoltura non era un settore in estinzione ma una moderna realtà in rapida evoluzione. A ben vedere, quelle posizioni che si erano consolidate nella Cgil e destabilizzavano l’azione sindacale nelle campagne in profonda trasformazione erano figlie della svolta industrialista del 1957 che aveva influenzato trasversalmente i partiti e i sindacati[24].
La scuola di Barbiana e la ricerca critica sulla società industriale
Da una scuola di campagna, quella di Barbiana, e da una personalità del calibro di don Lorenzo Milani giunsero due strali contro gli equilibri tradizionali. Il primo fu la pubblicazione di Lettera a una professoressa che rappresentava la critica più spietata alle istituzioni scolastiche. Il libro ebbe immediatamente un impatto enorme nella società italiana e contribuì ad alimentare la protesta studentesca. Rivelava, infatti, l’arretratezza dell’”istituzione-scuola” e il permanere di pesanti ingiustizie: «Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa di questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi»[25]. Ed elogiava l’azione collettiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia»[26]. L’altro strale fu la difesa appassionata di un diritto relativamente nuovo, quello all’obiezione di coscienza. Fecero scalpore gli articoli di don Milani che affermavano senza mezzi termini: «L’obbedienza non è più una virtù!»[27].
Come osservò successivamente padre Ernesto Balducci, don Milani operò nel passaggio cruciale dalla civiltà contadina a quella industriale, «non per facilitarne il traghetto, ma per porre una ricerca critica che invest(iva) lo stesso mondo industriale trionfante. E questa (fu) la novità del suo contributo»[28]. Lo riconobbe anche Pier Paolo Pasolini quando esaltò lo «spirito critico» esercitato dal sacerdote di Barbiana «nei confronti degli uomini e della società» e definì la sua esperienza come «l’unico atto rivoluzionario di questi anni»[29].
Il Sessantotto delle campagne: la lunga primavera
Il Sessantotto delle campagne si espresse con iniziative di protesta che avevano una forte valenza simbolica, come la contestazione nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Alcune centinaia di aderenti alla Coldiretti, il primo marzo, alla Fiera internazionale di Verona, presero d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui erano stati sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Lanciando cartocci di tetrapak pieni di latte, uova e ortaggi di vario tipo e dimensione, non smisero il tiro a bersaglio fino a quando non intervennero le forze dell’ordine.
Essi provavano nei confronti della propria organizzazione un senso di delusione e, soprattutto, si sentivano ingannati per il fatto di essere stati a lungo sollecitati dalla stessa Coldiretti a votare un partito (la Dc), che non mostrava più di riservare la tradizionale attenzione verso il loro mondo. Gli agricoltori incominciavano a comprendere che la scelta di Bonomi di attrezzare la Coldiretti come una sorta di “partito contadino” associato alla Dc non pagava più. Alle manifestazioni che, da qualche anno e con crescente intensità, l’Alleanza dei contadini[30] organizzava in ogni parte d’Italia, partecipavano, sempre più numerosi, anche molti agricoltori aderenti alla Coldiretti. «Gruppi qualificati di dirigenti locali avevano premuto affinché essa in quanto tale assumesse iniziative e partecipasse alla direzione delle lotte insieme all’Alleanza»[31].
Da alcuni mesi era scoppiata nella Valle Padana la crisi del prezzo del latte. L’Alleanza dei contadini aveva inviato a coordinare il comitato padano Ziccardi, che nel frattempo era passato dalla Federbraccianti all’organizzazione professionale dei coltivatori, diretta da Emilio Sereni. La proposta del comitato era quella di fissare un prezzo minimo del latte alla stalla, sia per le municipalizzate che per i trasformatori privati, non inferiore alle 60 lire al litro. La mobilitazione degli allevatori si concentrò a Lodi, dove operava la Polenghi Lombardo di proprietà della Federconsorzi. La vertenza fu vissuta con enorme disagio dalla Coldiretti perché i loro associati erano molto infastiditi dal disimpegno della loro organizzazione[32].
Sulla base delle indicazioni maturate nel Convegno svoltosi l’anno prima (21 aprile 1967) al Teatro Brancaccio, l’Alleanza, la Federmezzadri e l’Anca-Lega, con l’apporto della Federbraccianti – la cui partecipazione era giustificata dal fatto che, nel Mezzogiorno, essa organizzava migliaia di lavoratori produttori, le cosiddette “figure miste” – dettero vita al Centro nazionale per le forme associative e cooperative (CeNFAC), una struttura specializzata per promuovere soggetti economici in grado di assicurare ai produttori agricoli rapporti organizzati di mercato e accrescere il loro potere contrattuale nei confronti dell’industria e del commercio[33].
Mobilitazione e tentativi di sperimentazione di forme organizzative nuove andavano di pari passo. Nel mese di aprile si svolse a Milano un lungo corteo organizzato dal comitato padano dell’Alleanza – a cui parteciparono numerosi iscritti alla Coldiretti – che si concluse in un Teatro lirico stracolmo. Per tutta la primavera del 1968, la mobilitazione nelle campagne divenne sempre più viva ed estesa. E sfociò nella “manifestazione nazionale dei sessantamila”, che si svolse il 5 luglio a Roma. Le parole d’ordine andavano dal “riequilibrio dei rapporti economici tra l’agricoltura e l’industria” al “miglioramento delle condizioni civili nelle campagne”, dalla “parità delle prestazioni previdenziali e sanitarie” ai “contratti agrari più equi”. Ma al di là delle rivendicazioni più immediate, si avvertiva il senso di aspirazione profonda a cambiamenti significativi delle stesse modalità della politica e dei rapporti tra cittadini e governanti, la cui portata dirompente sfuggiva agli stessi organizzatori della manifestazione.
Grande fu l’impressione che suscitò nella capitale il lungo corteo di agricoltori coi canti, i prodotti, i colori, gli animali e i mezzi meccanici delle mille campagne italiane. Si affacciarono alle finestre e scesero in strada a salutarli centinaia di romani, che da quel mondo e dalle più disperse contrade, anche in anni recentissimi, erano giunti per occupare un posto di lavoro negli uffici pubblici.
Si fecero vedere anche gli studenti, che a febbraio avevano occupato la Facoltà di Architettura e si erano scontrati con la polizia a Valle Giulia. Distribuirono ai coltivatori volantini che contenevano parole d’ordine inneggianti alla socializzazione della terra; ma non già perché volessero trasferire nelle campagne italiane il modello collettivistico esistente in Unione sovietica. I movimenti studenteschi erano, infatti, fortemente critici con l’autoritarismo e la restrizione delle libertà individuali che caratterizzavano i Paesi comunisti. E non era a quel modello che essi guardavano nel formulare i loro slogan per la manifestazione contadina. Era piuttosto la lettura dei rappresentanti della Scuola di Francoforte ad influenzarli. In particolare, un loro esponente di spicco, Theodor Adorno, considerava la famiglia contadina e il villaggio come contesti intrinsecamente incapaci di favorire l’emancipazione e la sprovincializzazione degli individui[34]. Sicché per gli studenti solo un intervento esterno e una forma socializzante, come appunto la comune, avrebbero potuto permettere di superare i limiti delle forme di vita borghigiane e rurali.
Era un modo per ribadire la presa di distanza dalla società tradizionale e dalle sue forme sociali autoritarie, ma anche per evidenziare il significato emancipante e liberatorio della cultura e della formazione insiti nella loro scelta di frequentare l’università. E i contadini, venuti a Roma a manifestare, seppero cogliere quell’ansia di libertà e perciò dimostrarono nei loro confronti affetto e simpatia.
Del resto, tale ansia aveva molto a che fare con l’assillo dell’autonomia che permeava la cultura contadina più profonda[35]. Nei valori dell’individualità, dell’autonomia e della libertà, al di là dei contenuti specifici degli slogan utilizzati, avrebbero dunque potuto esserci i termini per saldare le ragioni più intime degli uni e degli altri, ma nessuno seppe trovare il modo per farlo[36]. Fu un’occasione mancata per costruire movimenti intergenerazionali duraturi e profondi, che nelle campagne italiane si ripeterà ancora una volta nel 1977 con i moti giovanili per utilizzare le terre incolte e mal coltivate e promuovere cooperative agricole[37].
La riluttanza dei dirigenti dell’Alleanza a dialogare a tutto campo coi movimenti giovanili era il riflesso di una più generale incapacità della sinistra di offrire una sponda alla domanda di cambiamento, che le nuove generazioni esprimevano. Una domanda che, qualora fosse stata letta attentamente, si sarebbe potuta incanalare, finalmente con un consenso molto più ampio, verso quella rivoluzione liberale mai avvenuta nel nostro Paese e che poteva virtuosamente integrarsi con la visione olivettiana dell’approccio allo sviluppo mediante lo studio di comunità e l’associazionismo diffuso. Un’aspirazione storica che richiamava antichi intrecci valoriali tra primato della persona, forme libere di gestione dei beni comuni e scambi fondati su relazioni di mutuo aiuto e reciprocità. Valori che erano stati eclissati e in parte distrutti dalle culture stataliste, nazionaliste e autarchiche, fondamentalmente illiberali e autoritarie, ma anche da quelle visioni industrialiste e operaiste che riducevano le dinamiche sociali al conflitto tra capitale e lavoro.
Il Sessantotto delle campagne: l’originalità della riflessione di Sereni
In realtà, il tentativo di cucire un rapporto tra i movimenti contadini e i movimenti studenteschi fu espletato dal presidente dell’Alleanza, Sereni, che avviò senza fortuna un’elaborazione culturale e politica di tale incontro. Egli era una personalità di enorme talento, capace di vedere lontano rispetto al suo tempo e dotato di una cultura che pochi in quel momento storico in Italia possedevano. Insieme al greco e al latino, leggeva e parlava, spesso correntemente, numerose lingue. A parte l’ebraico e l’aramaico, la cui conoscenza gli derivava dalla sua primitiva passione per il sionismo, conosceva l’inglese, il tedesco, il francese, il russo, il giapponese e poi via via lingue sempre più insolite. Egli possedeva conoscenze approfondite su una molteplicità di argomenti, dalla linguistica all’archeologia, dalla storia antica fino alle più recenti acquisizioni dell’informatica, della scienza e così via. Questo bagaglio di conoscenze aveva permesso a Sereni di prendere coscienza che alcune modificazioni fondamentali erano in corso dopo la tumultuosa modernizzazione degli anni Cinquanta.
Di particolare importanza per comprendere alcune sue grandi intuizioni rispetto al nuovo che stava avanzando, sono i saggi che egli scrisse nel 1968 sulla rivista Critica marxista, di cui era direttore[38]. In questi scritti egli invitava la sinistra a cogliere le novità che si intravedevano nelle lotte studentesche e ad aprire una riflessione critica e autocritica per adeguare le proprie strategie. Sereni individuava nella contestazione degli studenti, prima ancora di una ripulsa del sistema sociale, un rifiuto della collocazione che i primi sviluppi della rivoluzione scientifico-tecnologica assegnava a studenti e ricercatori nell’ambito dei sistemi informatici e della scienza. Coglieva nelle inusitate forme di lotta dei contadini (latte rovesciato per le strade, lancio di pomodori e altri ortaggi verso le autorità, ecc.) non già lo scadimento verso forme qualunquiste, primitive o anarchiche ma elementi di analogia con le forme di lotta degli studenti. Naturalmente, non ne traeva affatto la conclusione che i contadini e gli studenti si fossero d’un tratto trasformati in forze rivoluzionarie. Ma riteneva che entrambe queste forze sociali reagivano inconsapevolmente agli effetti di una novità sconvolgente: la rivoluzione scientifico-tecnologica che si era appena avviata veniva ad incidere direttamente nei rapporti produttivi, aprendo sicuramente opportunità enormi di libertà e di progresso per tutti, ma a condizione che tutti vi potessero accedere. E coglieva, dunque, il dischiudersi di una dialettica nuova che avrebbe potuto preludere il superamento di una società divisa in classi e l’affermarsi del protagonismo di un mondo che stava per passare dal regno della necessità a quello della libertà.
Sereni, in sostanza, poneva la questione della scienza come forza direttamente produttiva. Come ha osservato Franco Cazzola[39], «questa non era una cosa scontata in quegli anni». «Da marxista “ortodosso” – rileva lo storico – Sereni impostava la questione della conoscenza come sovrastruttura, che però nelle nuove condizioni poteva diventare forza direttamente produttiva». Egli usciva così dalla sua ortodossia perché aveva già percepito come la rapidità della comunicazione e l’aumento esponenziale della capacità di calcolo nei processi informatici erano forze capaci di avere un impatto di grande rilievo sull’intera economia. Ma non solo: la sua biblioteca ospitava una serie numerosissima di libri e di studi sul tema dell’informatica[40]. In opere precedenti, egli aveva sottolineato la volontà e la decisione della borghesia italiana postunitaria di fare subito le ferrovie, anche se esse costavano troppo, anche se erano fatte male, anche se erano economicamente inefficienti[41]. Puntare sulla velocità di comunicazione era una scelta della borghesia risorgimentale che – per Sereni – presentava molti punti di contatto con il rapido avvento della cibernetica e dell’informatica nella seconda metà del secolo XX.
Come si può notare da questi brevi cenni riguardanti la riflessione di Sereni sulle trasformazioni che stavano avvenendo nella società, ci troviamo dinanzi ad anticipazioni di grande rilevanza che i suoi contemporanei non seppero cogliere. Se si vanno ad esaminare gli esiti della ricerca storica sull’evoluzione del suo contributo teorico si avverte immediatamente questa incomprensione di fondo. In una ricostruzione storica dello sviluppo agricolo in Italia dal dopoguerra agli anni Settanta, Guido Fabiani ha sostenuto che sui temi di politica agraria «l’opera di Sereni si ferma ai primi anni Sessanta»[42], ignorando non solo il Nuovo saggio introduttivo alla edizione del 1968 de Il capitalismo nelle campagne e la relazione presentata nello stesso anno al convegno dell’Istituto Gramsci su Ricerca storica e ricerca economica: agricoltura e sviluppo del capitalismo e dedicata ai Problemi teorici e metodologici, ma soprattutto i due saggi pubblicati sulla rivista Critica marxista riguardanti la rivoluzione scientifica, l’informazione e i movimenti studenteschi. Anche nel saggio che Piero Di Siena ha dedicato al pensiero di Emilio Sereni[43] sono del tutto ignorati lo sforzo di aggiornamento teorico e lo spirito anticipatore che impregnano la riflessione del presidente dell’Alleanza nella seconda metà degli anni Sessanta. La disamina di Di Siena è condotta con respiro ampio e lascia trasparire una conoscenza approfondita delle opere fondamentali di Sereni. Tuttavia, il saggio si conclude criticamente con la constatazione di «limiti e aporie, in particolare nell’ultima fase della sua attività politica e di ricerca» che l’autore ritiene «vadano addebitate alla difficoltà di tenere – a ridosso delle trasformazioni che investono il capitalismo italiano negli anni Sessanta – entro categorie teoriche, che a ben vedere sono interamente concluse entro il quadro terzinternazionalista, l’obiettivo tenacemente perseguito nell’indagine e nell’iniziativa politica di aprirsi alla analisi del “nuovo” che caratterizza i rapporti sociali e politici nelle campagne e nell’intera società italiana»[44].
Sarà Attilio Esposto a rilevare[45] nella relazione intitolata Il contributo di Emilio Sereni alla definizione della politica agraria del Pci e presentata al convegno su Emilio Sereni e la questione agraria in Italia, svoltosi a Cascina nel 1981, che la «riassuntiva e anzi unica costrizione delle ricerche e delle analisi di Sereni» operata da Di Siena «in un “ordine terzinternazionalista”, appare – quanto meno – rivelatrice di approcci precostituiti, che qualche circostanza politica dell’attività di Sereni può anche solleticare, ma che non sono giustificati da esami rigorosi dei contenuti reali delle posizioni teoriche e politiche assunte dallo stesso Sereni nei vari e difficili momenti della sua attività».
Non sappiamo se Sereni – che conosceva il russo – avesse letto i Grundrisse[46] di Karl Marx, editi per la prima volta a Mosca tra il 1939 e il 1941, quando Stalin pensava che non potessero più danneggiare il dominio dello Stato guida del socialismo basato sulla centralità della grande fabbrica. Fatto sta che – come ha ricordato recentemente Michele Mezza[47] – «solo nel 1973 questi testi, che neanche Friedrich Engels lesse mai, saranno disponibili in inglese». In Italia furono tradotti per la prima volta proprio nel 1968 da Enzo Grillo per i tipi della casa editrice La Nuova Italia, diretta da Ernesto Codignola e successivamente dal figlio Tristano[48]. In quelle pagine, Marx prefigura il superamento del conflitto capitale-lavoro, assumendo proprio il sapere come motore delle relazioni sociali: «la potenza produttiva dipende sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia e dall’applicazione di questa scienza alla produzione». Ma a Sereni già nel 1968 era perfettamente chiaro il ruolo fondamentale che stava assumendo nel mondo lo sviluppo dell’automazione e dell’informatica e, in generale, la scienza (intesa non solo come scienze fisiche e naturali, ma anche scienze economiche e sociali): un ruolo di forza immediatamente produttiva. Ed è per questo che in un convegno organizzato dall’Alleanza nel marzo del 1968, egli affermò senza mezzi termini che «problemi come quelli dell’istruzione, dell’educazione, dell’università, delle lotte degli universitari non possiamo e non dobbiamo considerarli in quanto Alleanza nazionale dei contadini, o in quanto organizzazioni democratiche dei contadini, come delle lotte alle quali noi prestiamo il nostro appoggio perché lotte democratiche e progressive, ma che in fondo, non ci riguardano; noi dobbiamo acquistare sempre più matura coscienza che la nostra lotta, la lotta delle masse contadine italiane, le lotte degli studenti come tutte le lotte democratiche e progressive delle masse lavoratrici, sono lotte nostre, parte di un’unica grande lotta perché tutte le immense possibilità che la seconda rivoluzione scientifico-tecnologica apre di fronte all’umanità possono diventare una realtà, non soltanto per ristretti gruppi di privilegiati e di sfruttatori, ma per quelle masse contadine che a tutt’oggi costituiscono, nel nostro Paese, una parte così importante della popolazione e che costituiscono la massa decisiva della popolazione del mondo intiero»[49].
Al di là di qualche politico illuminato come Sereni, rimasto incompreso e isolato, la sinistra italiana degli anni Sessanta ignorò completamente quel fenomeno di intraprendenza competitiva che si sprigionò sulla scena planetaria e si chiamerà Silicon Valley, accompagnando la transizione dal free spech al free software. Un fenomeno che mise in marcia in Occidente una riformattazione della politica e delle tecniche della comunicazione persuasiva. Eppure era lo spirito del Sessantotto ad animare i precursori di Internet della Silicon Valley, in un rimpallo fra le intuizioni di Adriano Olivetti, che pensava a un sistema informatico direttamente disponibile per gli utenti finali, scavalcando i grandi mediatori industriali, e quella congerie di giovani scanzonati e appassionati che nelle università californiane cercavano strade per sottrarsi al controllo del potere centrale. Ma, in Italia, le antenne della politica e della cultura non riuscirono a intercettare quel possente processo di riorganizzazione delle forme di vita che fu allora l’insorgere della tecnologia digitale distribuita. E ancora oggi la politica e la cultura in Italia sono per lo più incapaci di cogliere la straordinaria attualità di personalità di spicco come Olivetti e Sereni, da considerare per questo come “intellettuali postumi”[50].
Il Sessantotto delle campagne: il lungo autunno
Intanto, intrecciate al dibattito culturale e politico, le manifestazioni contadine continuano. Memorabile è rimasta la forte e coesa mobilitazione che si sviluppò sulle strade di Asti, dentro e fuori la città, in cinque “giornate di lotta” con l’impiego di migliaia di trattori.
Dopo l’ennesima disastrosa grandinata che quasi ogni anno colpiva i vigneti del Monferrato e delle Langhe, nell’estate del 1968, si avvertì con maggiore acutezza l’esigenza di battersi per ottenere un fondo di solidarietà per fronteggiare la falcidie dei redditi dei viticoltori.
Per tentare di spegnere la protesta venne impiegato lo schieramento delle forze di polizia in assetto antisommossa la cui imponenza era del tutto ingiustificata. La radicalità dei comportamenti e l’atteggiamento repressivo della polizia erano un tratto comune di tutte le azioni di lotta che in quel periodo si misero in scena nelle città e nelle campagne.
La lotta dei viticoltori di Asti è stata raccontata da Oddino Bo, all’epoca dei fatti dirigente dell’Alleanza e parlamentare del Pci, in un volume collettaneo dedicato all’esame delle ricadute del Sessantotto nella realtà provinciale di Asti[51].
Infine, una forte emozione suscitarono i fatti di Avola, in provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, furono uccisi e altri cinquanta feriti dalla polizia[52]. Scioperavano per ottenere che i miseri salari agricoli fossero almeno eguali all’interno della provincia. Ebbe molta eco nell’opinione pubblica l’uso immotivato delle armi su folle di contadini inermi. Insomma, si ripeteva quel moto spontaneo di solidarietà che avevano suscitato gli eccidi perpetrati dalla polizia in occasione delle occupazioni delle terre nel secondo Dopoguerra.
Ma non se ne coglievano le ragioni più profonde, i fili che collegavano permanenze e cesure antiche e nuove domande di soggettività e di relazioni paritarie fondate sull’aiuto reciproco. Lo scontro di Avola era forse da mettere in relazione anche alla “strategia della tensione” che settori decisivi dell’apparato statale e dei gruppi dirigenti politici ed economici stavano avviando per respingere la domanda di cambiamento[53].
La mobilitazione delle popolazioni rurali continuò anche nel 1969, alcune con caratteristiche diverse da quelle fin qui esaminate, ma rientranti comunque in quella che Guido Crainz ha definito «la stagione dei movimenti collettivi» che si dispiegò nel «complesso rimescolarsi della società italiana»[54].
A Battipaglia, il 9 e il 10 aprile ci fu una vera e propria rivolta a causa della crisi dell’industria conserviera dell’area e per la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio. Per la prima volta, la sinistra sindacale e politica si trovò fuori dal movimento e fatta oggetto di contestazione. La protesta trascese in episodi di ribellismo. La polizia reagì con l’impiego delle armi da fuoco. Rimasero sul campo due morti, un operaio e una maestra colpita con un proiettile vagante mentre era affacciata alla finestra. Anche a Fondi, nel Lazio meridionale, una manifestazione di alcune migliaia di contadini per protestare contro le conseguenze della crisi agrumaria portò al blocco dei binari ferroviari. All’arresto di alcuni dimostranti, da parte delle forze dell’ordine, si rispose con un assedio della locale caserma dei carabinieri sedato con idranti.
Il lungo ciclo del Sessantotto delle campagne fece emergere una domanda di cambiamento da parte di una pluralità di nuovi soggetti sorti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo imprenditori agricoli professionali e a tempo parziale, ma anche tecnici, professionisti, operai specializzati, artigiani vivevano nei territori rurali e chiedevano a gran voce forme di rappresentanza politica e sociale capaci di affrontare i nuovi termini dello sviluppo.
Ma né i partiti, né le organizzazioni sociali sapevano rispondere a questa domanda di rinnovamento adeguando la propria cultura politica, i propri programmi e le proprie strutture. Era soprattutto carente un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impediva di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori produttivi, la pluralità dei soggetti sociali e i loro bisogni, le esigenze delle imprese agricole che producevano per il mercato e le potenzialità dell’agroalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali. Ma soprattutto non si comprendeva la funzione nuova, immediatamente produttiva, che svolgeva la scienza e che avrebbe richiesto il potenziamento del sistema della conoscenza e la connessione tra questo e i sistemi territoriali.
La nuova ruralità
Sulla base delle riflessioni riguardanti le cause sociali della rottura ecologica e i problemi ambientali, negli anni Settanta incominciò a prendere forma spontaneamente una consapevolezza individuale e collettiva che si trasformò in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti. I figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si trattò dell’avvio di un lento e costante sommovimento nella vita sociale che ha dato vita a quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito dagli studiosi «nuova ruralità».
C’è una data che simbolicamente potrebbe essere presa a riferimento per segnare l’inizio di quel fenomeno: il 22 aprile 1970 quando venti milioni di americani scesero in piazza in difesa dell’ambiente. Da allora quella è diventata la data in cui tutto il mondo festeggia la Giornata della Terra.
Lo sviluppo dell’agricoltura nei paesi occidentali aveva risolto finalmente il problema dell’autosufficienza alimentare di quelle popolazioni ma aveva al tempo stesso determinato gravi contraddizioni. L’attività umana che originariamente aveva dato vita ai primi insediamenti comunitari stanziali, si era trasformata in un’attività produttiva capace di erodere capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.
L’anno successivo il tema è ripreso da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima Adveniens[55]: «L’uomo prende coscienza bruscamente… dello sfruttamento sconsiderato della natura, tanto da rischiare di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione». E insieme al degrado ambientale, Papa Montini parla del «contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile». Riemergevano così, nel dibattito pubblico, temi e visioni che alla fine degli anni Cinquanta erano rimasti ai margini per far posto alle imperanti sensibilità industraliste e fordiste. Non a caso il rapporto intitolato I limiti dello sviluppo è commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal Club di Roma animato da Aurelio Peccei, ex partigiano e imprenditore, con esperienze manageriali nella Fiat e nell’Olivetti[56].
Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontavano in termini inediti il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiedeva la Conferenza nazionale delle acque, da cui emergeva l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redigeva la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospettava un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna[57].
Giungevano dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto di riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si erano rafforzate con il principio di responsabilità di cui aveva parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo potesse agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale viveva l’uomo[58].
Alcuni avvertivano l’esigenza di integrare tali apporti culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica, agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia e le scienze dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Ma ancora oggi questa ricucitura culturale non è avvenuta per poter avviare seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Il ritorno alla terra tra mito e realtà
Nel 2015 una notizia sensazionale ha campeggiato per mesi nei media: 20 mila nuovi occupati giovani in agricoltura. Ma poi si è compreso che era una fake news: l’aumento era legato alle richieste del premio comunitario di primo insediamento che spesso cela solo un subentro nominalistico di un giovane nella titolarità dell’impresa per poter accedere al finanziamento europeo.
Il controesodo dalle città verso la campagna non è un fenomeno recente: quello che stiamo vivendo è iniziato, come si è visto, negli anni Settanta senza mai avere impennate. Pochissimi lo hanno studiato e raccontato. E quelli che lo hanno fatto si sono accorti che queste realtà sono molto diverse tra loro a seconda del contesto territoriale e delle motivazioni dei protagonisti. Ogni generalizzazione rischia di semplificarne e banalizzarne il senso.
Per decenni i mass media hanno ignorato queste realtà, ritenendole del tutto marginali. Ora si rischia un approccio strabico, dettato più dalla voglia di fare sensazionalismo che informazione seria, più dall’interesse a farne un uso strumentale che conoscenza delle modificazioni sociali[59]. Soprattutto quando si ignorano le cause di tali realtà: la risposta alla crisi ecologica mettendo in campo nuovi comportamenti e stili di vita; l’esigenza di dare un senso alle proprie vite reagendo all’impazzimento urbano; e così via. Solo guardandolo nel lungo periodo, questo fenomeno può essere letto correttamente. Altrimenti si rischia di prendere lucciole per lanterne. Come accade appunto ad alcuni giornalisti quando utilizzano i dati Istat senza contestualizzarli e, soprattutto, confondendoli coi sondaggi.
Se si volge lo sguardo all’ultimo decennio, i dati Eurostat ci dicono che l’agricoltura italiana cresce a ritmi bassi rispetto agli altri Paesi europei, perde occupazione, il saldo commerciale peggiora e i redditi ristagnano. Nel Mezzogiorno la situazione di difficoltà è ancor più grave rispetto al resto del Paese.
Quello che appare certo – in Italia e nel Mezzogiorno – è che il senso di marcia delle trasformazioni in atto nelle campagne sia un’evoluzione dell’agricoltura da attività fortemente connotata da elementi produttivistici a terziario civile innovativo (nelle frange più innovative del settore). Accanto alle tradizionali agricolture scaturite dai processi di modernizzazione e dedite esclusivamente alla produzione food e non food, si sono infatti reinventate multiformi agricolture di relazione e di comunità in cui le attività svolte sono intese come mezzo di incivilimento per migliorare il “ben vivere” delle persone.
Agricolture perché molteplici sono le funzioni, le attività e i modelli che esse esprimono. Sono agricolture “multi-ideali”[60] perché si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Sono agricolture non tradizionali perché sperimentano strade mai percorse prima e vedono prevalentemente, in una posizione da protagonisti, donne e giovani. Nuovi attori che chiedono attenzione e riconoscimento in quanto portatori di innovazione, consapevolezza e senso di responsabilità e, nel contempo, attuatori dell’interesse generale.
Accanto ad agricolture non più innovative, quelle che si sono fermate e immobilizzate dopo la prime grandi trasformazioni agrarie degli anni Sessanta e Settanta e che hanno dato vita al fenomeno del «latifondo caporalesco»[61], si vanno affermando nuove realtà: dall’agricoltura sociale alle forme nuove di accoglienza nelle campagne, dalla valorizzazione della tipicità delle produzioni al miglioramento genetico per tutelare la biodiversità, dalla realizzazione di filiere e reti di qualità che guardano ai processi di globalizzazione alla costruzione di distretti di economia locale.
Per fare in modo che le nuove realtà si diffondano occorre produrre un’innovazione sociale da considerare un tutt’uno con il salto tecnologico da compiere. Vanno tenuti insieme digitale, robotica, bioeconomia che si fonda sull’utilizzo multifunzionale di risorse biologiche per la produzione di alimenti, mangimi, energia, ecc. L’agricoltura di precisione è oggi utilizzabile a tutte le altitudini e in tutti i settori. La visione IoT (internet degli oggetti) è applicabile nell’agroalimentare, nel turismo, nell’artigianato, nei servizi socio-sanitari, nell’industria culturale. La rivoluzione tecnologica in atto può aprire una nuova prospettiva allo sviluppo dei territori italiani e alla loro presenza nei mercati internazionali.
Nel settore agricolo, la sfida del digitale è stata raccolta in quelle attività produttive che si svolgono in ambienti “protetti”, come le serre, le stalle, le cantine, gli oleifici, i laboratori di trasformazione, dove è possibile creare condizioni pienamente controllabili.
Ben diverso è il caso di quelle attività agricole che si attuano in ambiente aperto e che sono soggette alla variabilità climatica ed alle relative risposte degli elementi territoriali: i versanti, le esposizioni, il suolo con le sue caratteristiche strutturali e di gestione, la struttura orografica, le sistemazioni, etc, che richiedono continui aggiustamenti gestionali per la mutevolezza delle condizioni e la conseguente tempestività operativa. Ma considerando complementari i due nuovi paradigmi dell’agricoltura di precisione e della digitalizzazione e alta tecnologia, anche per questo tipo di attività agricole si possono avere risultati concreti. C’è bisogno di creare una interferenza di territorio fra agricoltura, servizi, sistema educativo e della ricerca.
Oggi le tecnologie digitali permettono di promuovere e valorizzare le relazioni economiche e sociali. Se si sviluppasse nei consumi alimentari il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di votare col portafoglio per le imprese migliori, il caporalato potrebbe sparire dalle campagne italiane. Vincerebbero, infatti, quelle tecnologicamente più avanzate che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro.
Per concludere
Il racconto della lunga transizione da una ruralità di miseria ad una ruralità di relativo benessere, inframmezzata dai movimenti sociali del Sessantotto, fa emergere, come si è detto all’inizio, una frattura che attende ancora di essere ricomposta tra l’innovazione tecnologica e l’introduzione di nuove forme di vita. A cinquant’anni dagli eventi che, più o meno consapevolmente, ponevano un’esigenza di ricomposizione di tale frattura, si può affermare che la questione non solo non si è ancora risolta, ma si è ulteriormente complicata con la politica agricola comune (Pac). La quale, anziché favorire tale processo virtuoso accompagnando l’innovazione, ha assunto – con l’apertura dei mercati e, in tale nuovo contesto, il protagonismo dei Paesi emergenti – forti connotati protezionistici e assistenzialistici.
Il dibattito che sembra finalmente aprirsi sulla riforma della governance democratica dell’Unione europea potrebbe costituire un’occasione per rivedere in profondità le politiche agricole. Lo scontro oggi in atto è tra chi vuole costruire una nuova sovranità europea nell’area Euro (sicurezza esterna, politica migratoria, politica fiscale, bilancio il cui equilibrio si consegua non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso le entrate, in chiave anticiclica) e chi vuole tenere tutto fermo per far implodere il processo d’integrazione europea. Per prevalere, i candidati europeisti al Parlamento europeo dovrebbero far propria la proposta che alcuni settori della società civile hanno elaborato[62]: aprire a Strasburgo tra giugno e dicembre 2019 il “semestre costituente” per l’Unione politica per un Parlamento dei popoli che legiferi, un Bilancio con una fiscalità diretta e un Esecutivo a cui il Parlamento dia o tolga la fiducia, in qualunque momento.
Nel rivedere il Trattato dell’Unione, si potrebbe definire una diversa distribuzione delle competenze in materia di agricoltura tra Ue e Stati membri[63]. È del tutto giustificato che la sicurezza alimentare, la stipula di accordi commerciali con altri Paesi, il coordinamento del sistema della conoscenza e il regime assicurativo in agricoltura per i rischi derivanti dalla volatilità dei mercati restino competenze dell’Ue. Si tratta, infatti, di materie che si collegano all’impianto originario di politica per il mercato unico dei prodotti agricoli. Ma è altrettanto motivato che la competenza in materia di aiuti diretti sia devoluta agli Stati nazionali membri. Si otterrebbero tre risultati importanti: 1) facendo in modo che le due sfere di sovranità (federale/unionale e Stati nazionali/membri) siano ben definite sul piano delle responsabilità, senza alcuna interferenza reciproca, ogni Stato membro potrebbe finalmente definire una propria strategia agricola nazionale; 2) eliminando il passaggio Ue-Stati membri, la politica agricola si potrebbe effettivamente semplificare e adattare ai bisogni dei differenti sistemi territoriali; 3) concentrando nell’Ue le competenze essenziali, gli agricoltori e i cittadini europei potrebbero godere di una politica agricola comune giusta ed efficace.
Riflettere sul Sessantotto delle campagne e rivisitare criticamente le problematiche connesse a quella vicenda e rimaste tutt’oggi aperte, potrebbe contribuire a trovare con maggiore facilità le nuove strade da intraprendere per il futuro.
[1] La Legge n. 634 del 29 luglio 1957 passò con l’astensione del Pci. La vicenda è ricostruita in G. NAPOLITANO Dal Pci al socialismo europeo: un’autobiografia politica, Gius. Laterza & figli, Ed. digitale 2015. Il dirigente comunista svolgeva il ruolo di relatore di minoranza del provvedimento ed era all’inizio della sua funzione di responsabile della Commissione meridionale del partito. Non ci si trovava dinanzi alla pressione di un movimento sociale. Anzi, quella legge rovesciava completamente quello che i movimenti sociali esprimevano in quel periodo. È sintomatico, infatti, che Napolitano partecipasse a Palermo, già nel novembre 1957, ad un convegno internazionale organizzato da Danilo Dolci sulla piena occupazione, concluso da Carlo Levi, caratterizzato per l’accento su iniziative e proposte di pianificazione locale, di pianificazione dal basso. “Il che – riconosce Napolitano a posteriori – valeva a correggere un discorso sulla programmazione, come quello che la sinistra allora stava definendo, troppo imperniato sulla responsabilità dello Stato centrale”.
[2] Un sintesi del pensiero e dell’opera di questa personalità si trova in A. PASCALE, Lo sviluppo dal basso in Sebregondi: https://www.alfonsopascale.it/index.php/lo-sviluppo-dal-basso-sebregondi/
[3] Bisognerà aspettare la politica di sviluppo rurale e le politiche di coesione europee per dotarci di metodologie di intervento già disponibili a metà anni Cinquanta. Lo ha ricordato Giuseppe De Rita in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma (Basta con la retorica del super stato. Servono nuovi obiettivi comuni in Corriere della Sera, 25 marzo 2017). A proposito delle scelte industrialiste del Pci, del Psi e della Dc, fatte proprie dai sindacati nella seconda metà degli anni Cinquanta Napolitano scriverà quasi 50 anni dopo: “Col senno di poi si possono rilevare tutti gli aspetti negativi e distorsivi di quell’indirizzo pur largamente condiviso”. Il giudizio si trova in G. NAPOLITANO, Dal Pci al socialismo europeo, op.cit.
[4] M. ROSSI-DORIA, Scritti sul Mezzogiorno, Einaudi, Torino 1982, pp. 11 ss.
[5] A. PASCALE, Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi, Cavinato, Brescia 2013, pp. 154 ss.
[6] A. ARDIGÒ, Gli aspetti sociali e culturali del mondo contadino in AA.VV., La trasformazione del mondo contadino a cura di D. Prinzi e F. Schino, Il Veltro, Roma 1965, pp. 141 ss.
[7] Per una panoramica del ruolo delle scienze agronomiche, dell’istruzione superiore, dei profili intellettuali e delle identità professionali nello sviluppo agricolo dagli inizi dell’800 alla metà degli anni Sessanta del ‘900 si veda L. D’ANTONE, L’«intelligenza» dell’agricoltura, in P. BEVILACQUA (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, III. Mercati e Istituzioni, Marsilio, Venezia, 1991, pp. 391-426. Sul rapporto tra competenze e politica nei primi anni della Repubblica si rimanda a A. PASCALE, Riforma agraria. Un’interpretazione, relazione illustrata il 23 ottobre 2015 a Roma nell’ambito dei «venerdì culturali» promossi da FIDAF – SIGEA – ARDAF – Ordine Dottori Agronomi e Forestali di Roma. https://www.alfonsopascale.it/index.php/riforma-agraria-uninterpretazione/
[8] M. CAMPLI-A. PASCALE, La casa comune è casa di tutti. Il dovere e il rischio del dialogo fino in fondo, Informat Edizioni, Roma 2016. In particolare, si suggerisce la lettura della Terza Parte Saperi esperienziali e conoscenza tecnico-scientifica, pp. 61- 69
[9] Per conoscere gli aspetti salienti della poliedrica figura di Olivetti è vivamente consigliata la lettura della testimonianza di un suo stretto collaboratore: F. FERRAROTTI, La concreta utopia di Adriano Olivetti, Edizioni Dehoniane, Bologna 2013
[10] Vedi A. OLIVETTI, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 186-191
[11] F. FERRAROTTI, La concreta utopia…, op. cit., pp. 22-23
[12] Cit. in M. MEZZA, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’anni dopo, Donzelli, Roma 2013
[13] Una trattazione più ampia del tema si può leggere in A. PASCALE, Il ’68 delle campagne, in A. ESPOSTO (a cura di), Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo, Vol. II, Robin Edizioni, Roma 2006, pp. 425-500
[14] Sulla partecipazione italiana alla definizione della Pac si veda R. LIZZI, La politica agricola, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 171-173
[15] Per una ricostruzione delle vicende legate alla Federconsorzi cfr. M. ROSSI-DORIA, Rapporto sulla Federconsorzi, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2005
[16] Tali problematiche furono oggetto di una proficua collaborazione tra l’Alleanza dei contadini e la Lega dei comuni democratici da cui scaturirono alcuni convegni di notevole livello politico e culturale. Il 4 ottobre 1965 si svolse a Roma il convegno sul tema “Condizione e rinnovamento delle strutture civili nelle campagne”, con una nutrita partecipazione di amministratori, urbanisti e dirigenti del movimento contadino. Gli atti furono pubblicati in Alleanza dei contadini e Lega dei comuni democratici, Strutture civili nelle campagne, Roma 1965
[17] Alleanza dei contadini e Lega dei comuni democratici, Strutture civili nelle campagne, op. cit., p. 197
[18] Si deve alla sensibilità politica e culturale di Giuseppe Medici l’avvio di una seria riflessione su questi temi. Nel 1967, in occasione del XXIII congresso dell’Associazione Nazionale delle Bonifiche e delle Irrigazioni (ANBI), egli pose l’esigenza di un intervento ordinario e costante di manutenzione del territorio. L’intervento si trova in G. LEONE (a cura di), Scritti di Giuseppe Medici, Roma 2002, pp. 219-230
[19] W. PALMIERI, Dissesto e disastri idrogeologici, in G. CORONA e P. MALANIMA (a cura di), Economia e ambiente in Italia dall’Unita a oggi, Bruno Mondadori, 2012, pp. 125-145
[20] Un’analisi approfondita della situazione delle campagne a metà anni Sessanta, dal versante economico-produttivo e da quello sociologico, si trova in G.A. MARSELLI, Tendenze evolutive della società rurale, Commissione agraria nazionale PSI-PSDI Unificati, Una politica socialista per le campagne. Atti della Conferenza agraria nazionale, Vol. II, 1967, pp. 59-102
[21] A. CASTAGNOLI – E. SCARPELLINI, Storia degli imprenditori italiani, Einaudi, Torino 2003, p. 327
[22] Segnali di attenzione al malessere che serpeggiava nelle campagne si possono cogliere negli interventi di alcuni autorevoli dirigenti, come l’on. Mario Ferrari Aggradi, al Convegno promosso dalla Coldiretti nel gennaio 1967 sul tema “Mondo rurale e agricoltura: programma di sviluppo economico e comunità europea”.
[23] Due appuntamenti importanti sottolinearono l’impegno della Confagricoltura verso l’impresa agricola e non più soltanto verso la tutela della proprietà fondiaria: la seduta del consiglio confederale, che si tenne a Verona nel marzo 1967, avente per tema “L’impresa agricola italiana di fronte ai problemi dell’integrazione europea”, e l’assemblea dell’Associazione dei giovani agricoltori (Anga) che si tenne nello stesso mese a Roma e che pose come obiettivo un’azione più incisiva nel cogliere le opportunità che l’integrazione europea riservava all’impresa agricola professionale.
[24] A.R. ZICCARDI, La politica come impegno collettivo, Gius. Barile Editore, Irsina 2016, p. 69
[25] Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1996, p. 60
[26] Lettera a una professoressa, cit., p. 14
[27] L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1991
[28] E. BALDUCCI, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, Laterza, Roma-Bari 2002, p.101
[29] P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2001, pp. 151 ss.
[30] Per una rigorosa ricostruzione delle vicende riguardanti organizzazioni contadine e partiti dal dopoguerra agli anni Settanta si veda E. BERNARDI, F. NUNNARI, L. SCOPPOLA IACOPINI, Storia della Confederazione italiana agricoltori, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 25-116. Una esposizione sintetica della storia delle organizzazioni contadine lungo tutto l’arco del Novecento si può leggere in A. ESPOSTO, Le organizzazioni contadine, Robin Editore, Roma 2006. Una ricca raccolta di scritti e documenti sulle organizzazioni contadine si trova in A. ESPOSTO, Lotte sociali e innovazioni socio-politiche nelle campagne italiane (1948-1997), Voll. I-II-III, Robin Editore, Roma 2007
[31] A.R. ZICCARDI, in “Il giornale dei contadini”, (17), 25 settembre 1967
[32] A.R. ZICCARDI, La politica come impegno collettivo, op.cit., pp. 75-77
[33] In realtà l’obiettivo era di costituire una nuova organizzazione dei coltivatori. L’ipotesi era stata avanzata dai dirigenti socialisti che operavano nelle organizzazioni agricole, ma aveva trovato ostilità tra i comunisti per non mettere in discussione gli equilibri politici e organizzativi nella Cgil e nella Lega delle cooperative. Se si fosse attuato allora, il progetto avrebbe anticipato di dieci anni ciò che sarebbe poi avvenuto con la nascita della Confcoltivatori. Il dibattito sull’evoluzione delle forme organizzate dell’agricoltura che si sviluppò nella sinistra nel biennio 1966-67 è ricostruito in A. PASCALE, il ’68 delle campagne, in A. ESPOSTO (a cura di), Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo, op. cit., pp. 453-462
[34] Ne parla W. RÖSENER, I contadini nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 6
[35] Nel suo discorso per il X anniversario dell’Alleanza dei contadini Emilio Sereni rivendicò alle organizzazioni contadine la funzione di fornire alla democrazia l’apporto originale della cultura contadina corrispondente alle «esigenze di affermazione e valorizzazione della personalità e di una pluralità di centri di decisione economica, sociale e politica che sola può assicurare la possibilità di una piena affermazione di questi valori preziosi di cui il contadino è portatore». Cfr. Atti del II Congresso dell’Alleanza dei contadini (16-18 marzo 1965), Roma 1965, pp. 42 e 365-366
[36] Sul periodico dell’Alleanza, il vicepresidente Gaetano Di Marino aveva richiamato l’interesse dell’organizzazione sulle novità di cui il movimento degli studenti era portatore e le grandi opportunità che si aprivano per il progresso delle campagne nel momento in cui erano posti al centro dell’attenzione i temi dell’istruzione e della conoscenza (G. DI MARINO, Studenti e contadini, in “Nuova Agricoltura”, (5), 10 marzo 1968). Ma dopo la manifestazione di luglio scrisse una nota critica, dal titolo polemico “Non prestiamo tribune”. “I gruppi studenteschi – denunciava – non hanno sollevato i temi della riforma dell’università, su cui si poteva fare un dibattito, […] hanno invece preteso di indicare una strategia e una politica agraria del tutto nuova e opposta a quella che faticosamente e autonomamente il movimento contadino è venuto elaborando” (G. DI MARINO, Non prestiamo tribune, in “Nuova Agricoltura”, (15), 10 agosto 1968).
[37] Sull’iniziativa legislativa per l’occupazione giovanile negli anni Settanta si veda A.R. ZICCARDI, La politica come impegno collettivo, op. cit., pp. 93-96. Per un quadro d’insieme sui movimenti giovanili nelle campagne e la nascita della nuova ruralità negli anni Settanta si rimanda a A. PASCALE, Radici & Gemme. La società civile delle campagne…, op. cit., pp. 230-241
[38] E. SERENI, Informazione democrazia socialismo, in Critica marxista, n. 4-5, 1968; E. SERENI, Rivoluzione scientifico-tecnologica e movimento studentesco, in Critica marxista, n. 6, 1968. I due saggi confluirono in E. SERENI, La rivoluzione italiana, a cura di G. Prestipino, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 171-2017
[39] F. CAZZOLA, Emilio Sereni, in Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, I solchi. Colloqui in biblioteca su alcuni protagonisti nella storia dell’agricoltura italiana, Agrisian, Roma 2007, p. 166
[40] Il patrimonio librario e archivistico di Emilio Sereni fu da lui donato all’Alleanza dei contadini e confluito nella Biblioteca-Archivio gestita dalla Istituto Cervi a Gattatico (RE). Il Fondo Sereni è la parte più consistente con 22.000 volumi, 300.000 schede bibliografiche, 1600 faldoni d’archivio, 200 riviste di storia e agricoltura, libri antichi.
[41] E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi 1968, p. 5-11
[42] G. FABIANI, La politica economica per l’agricoltura italiana, in La politica agraria in Italia, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 43
[43] P. DI SIENA, Emilio Sereni e la questione agraria, in Studi storici, n. 3, 1978
[44] P. DI SIENA, Emilio Sereni e la questione agraria, op. cit., p. 544
[45] A. ESPOSTO, Lotte sociali e innovazioni socio-politiche nelle campagne italiane (1948-1997), Vol. I, Robin Edizioni, Roma, 2007, pp. 135-136
[46] Si tratta dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, noti anche come Grundrisse (in tedesco: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie). Questi scritti di Karl Marx costituiscono i lavori preparatori per la stesura dell’opera pubblicata nel 1859 con il titolo Per la critica dell’economia politica.
[47] M. MEZZA, Algoritmi di libertà, Donzelli, Roma 2918, pp. 173-174
[48] K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, 2 voll., trad. di Enzo Grillo, La nuova Italia, Firenze 1968-1970. Michele Padula mi ha riferito che la Casa editrice “La nuova Italia” si occupava prevalentemente dei problemi educativi e di politica scolastica, mediante la rivista Scuola e città, ed era molto attenta all’innovazione tecnologica.
[49] L’intervento di Sereni si trova in ALLEANZA NAZIONALE DEI CONTADINI, Redditi contadini e programmazione democratica, Roma, 1968, pp. 125-135. Angelo Ziccardi mi ha raccontato che gli interventi di Sereni, in quegli anni, venivano seguiti con scarso interesse dallo stesso gruppo dirigente dell’Alleanza, perché ritenuti privi di aggancio alla realtà concreta. È la condizione in cui spesso si trovano gli anticipatori e chi ragiona fuori dagli schemi correnti.
[50] Ho preso in prestito l’espressione “intellettuale postumo” da Michele Padula. Egli la utilizza riferendosi a Antonio Gramsci, la cui attualità – in Italia, ma non in altri Paesi – è del tutto negata
[51] O. BO, Il ’68 dei contadini, N. Fasano e M. Renosio (a cura di), I giovani e la politica: il lungo ’68, EGA, Torino 2002, pp. 205-221
[52] S. BULGARETTA, I fatti di Avola, D’Urso Editore, Avola 1981. Il volume contiene un’introduzione di Giuseppe Giarrizzo. Sulla vicenda di Avola si veda anche E. Greco, Sul filo della storia, Lariser, Roma 2004
[53] E. MACALUSO, 50 anni nel PCI, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 133
[54] G. CRAINZ, La stagione dei movimenti: quando i conti non tornano, in Meridiana, nn. 38-39, 2000. Si veda sui movimenti sociali in Basilicata tra il ’68 e il Febbraio lucano A. PASCALE, Pasquale Moscarelli nella storia delle campagne lucane, RCE, Napoli 2005
[55] Fu pubblicata da Paolo VI il 14 maggio 1971 in occasione dell’ottantesimo anniversario della Rerum Novarum.
[56] D. H. MEADOWS ET AL., I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972. Accanto agli indubbi pregi, il libro ha un difetto di fondo che consiste in una malintesa definizione di risorsa. Questa non va considerata in modo statico ma dinamico: è infatti la tecnologia che trasforma un materiale in risorsa. Il limite non è nella risorsa in sé ma nella capacità del pianeta di accogliere l’uso dell’energia perché limitata è la recettività del pianeta.
[57] In un discorso pronunciato al Senato il 27 maggio 1971, il Professore di Portici afferma: «Quando dico che l’impegno ecologico dovrà contemporaneamente essere assolto a diversi livelli, intendo sostanzialmente dire che non basta prevedere l’elaborazione e l’attuazione di un certo numero di specifiche politiche di conservazione e difesa dell’ambiente, di prevenzione e riduzione degli inquinamenti. Occorre, infatti, andare bene al di là di questi interventi diretti perché i più solidi risultati si possono ottenere solo ripensando sistematicamente in chiave ecologica tutti i piani e gli atti nei quali si articola lo sviluppo economico e civile del paese, riformulando, alla luce delle esigenze ecologiche, tutte le politiche di settore nelle quali si esprime la politica generale dello Stato». Il discorso si trova in M. ROSSI-DORIA, Cinquant’anni di bonifica, a cura di G.G. Dell’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 358-362
[58] H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009
[59] Per un approfondimento si veda A. PASCALE, Una nuova ruralità, in Olio Officina Magazine, 7 settembre 2014: http://www.olioofficina.it/saperi/focus/una-nuova-ruralita.htm
[60] Sul concetto di “agricolture plurali e multi-ideali” si veda A. PASCALE, relazione al Convegno sul tema Verso una nuova agricoltura, sintesi di culture identitarie e turismo, organizzato da Italia Nostra e Conaf (Consiglio Ordine Agronomi e Forestali) e svoltosi a Matera il 16/17 settembre 2016, in Olio Officina Magazine, 13 novembre 2016: http://www.olioofficina.it/societa/cultura/agricolture-plurali-e-multiideali.htm
[61] Sui caratteri del caporalato nelle campagne si veda A. PASCALE, Latifondo caporalesco e nuova ruralità, 11 settembre 2015: https://www.alfonsopascale.it/index.php/latifondo-caporalesco-e-nuova-ruralita/
[62] M. CAMPLI, Il tempo d’Europa, Cavinato Editore, Brescia 2017, pp. 254-261; A. PASCALE, Europeisti e sovranisti. La cittadinanza al tempo del primo governo nazional-populista, Edizioni Uniat, Roma 2018, pp. 77-79
[63] A. PASCALE, Agricoltura, Macron: più flessibilità per i paesi europei, in Libertà Eguale, 3 dicembre 2018: http://www.libertaeguale.it/agricoltura-macron-piu-flessibilita-per-i-paesi-europei/