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Il senso del Natale dentro di noi

Il Natale che oggi possiamo augurarci è trovare dentro di noi quel nucleo essenziale di razionalità e sentimento che ci permetta di prestare attenzione all’altro

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Perché festeggiamo il Natale il 25 dicembre? La data di nascita di Gesù venne fissata in tale giorno dalla Chiesa nei primi decenni del secolo IV. La scelta fu compiuta con il proposito di sostituire le feste di Mitra e del Sole Invitto e i Saturnali dell’antica Roma con la celebrazione del Natale di Cristo.
Il teologo e cardinale Jean Daniélou, in Miti pagani, mistero cristiano, scrive che per il paganesimo il sole costituiva “una delle ierofanie essenziali”. Esso appariva come la manifestazione della luce che dissipa le tenebre. Nel mondo pagano, il sole era adorato per i suoi effetti materiali: per il calore che emana e rende possibile la vita. Per Daniélou il cristianesimo non respinse il naturalismo pagano, ma lo accolse e ne arricchì il significato. Gesù, il nuovo sole, non negava il vecchio ma lo assumeva all’interno di un significato più alto, “in quanto luce non più soltanto cosmica, ma spirituale”.
Vittorio Monaco, poeta e studioso di antropologia tra i più originali nel panorama culturale abruzzese, in una sua opera molto suggestiva, Capetièmpe. Capodanni in Abruzzo, raccoglie alcune testimonianze della letteratura popolare di contenuto natalizio e mette in evidenza come il senso cosmico-naturalistico della ricorrenza è continuato a prevalere su quello spirituale. È ad esempio il caso di una poesia molto in voga a Raiano in provincia dell’Aquila: Quande nascette ninno a Béttelemme, / era notte e pareva miezzejiuorne. / … Fiurèttero le uìgne, nascette l’ùua…. Nel modo di pensare tradizionale, la nascita di Gesù fa fiorire le vigne e nascere l’uva.
L’antropologo abruzzese sottolinea che “l’incarnazione di Cristo, nella cultura popolare, è vissuta come intervento ‘magico’ di Dio nella natura. La portata salvifica dell’evento è marginale rispetto all’importanza della scelta di Gesù di nascere povero”. “L’umanizzazione di Dio – scrive Monaco – è colta soprattutto in questa scelta, che conferisce motivazione e dignità alle condizioni sociali delle masse popolari”.
Il sostrato naturalistico dei vecchi rituali pagani si conservò nel culto cristiano anche riguardo all’assorbimento dei Saturnali nelle festività natalizie. Nell’antica Roma, le celebrazioni dedicate a Saturno erano vissute come restaurazione rituale dell’età dell’oro e dell’inizio del tempo: il mito dell’abbondanza e dell’uguaglianza. Il regno di Saturno – si legge nei Saturnalia di Macrobio – “fu molto felice sia per l’abbondanza dei prodotti sia perché non esisteva alcuna discriminazione tra liberi e schiavi”. Della festa romana, che auspicava il ritorno all’età dell’oro, il Natale accolse l’idea dell’uguaglianza mitica tra gli uomini, fondandola sull’universale paternità di Dio, e perpetuò la consuetudine dello scambio dei doni.
L’atto di scambiarsi i doni divenne il simbolo del Natale. Richiamava il senso del mistero dell’incarnazione di Dio. Come scrive Sant’Agostino, il Natale è lo scambio supremo di “Dio che si fa uomo affinché l’uomo diventi dio”.
Anche il digiuno osservato la vigilia di Natale è parte del rituale popolare che si richiama alle antiche usanze. Astenersi dal cibo in tale circostanza non aveva un significato penitenziale ma era la modalità con cui le famiglie si preparavano per assaporare meglio la cena.
Ancora oggi in molti paesi abruzzesi (Pratola Peligna, Roccacasale, Pacentro, Introdacqua, ecc.) è vivo il ricordo delle ‘sette minestre’: la cena di Natale doveva essere abbondante. Le minestre erano sette perché il sette è un numero sacro. Nei vangeli, Gesù ammonisce di perdonare “settanta volte sette”.
Nell’Apocalisse di San Giovanni sette sono le chiese, sette le corna del drago e sette le coppe dell’ira nel “Libro dei sette sigilli”. Il senso della cena natalizia è identico a quello del banchetto funebre: il mangiare e bere a sazietà segnano il trionfo dell’abbondanza sulla penuria, l’affermazione gioiosa del corporeo e la vittoria della vita sulla morte. Il corpo si nutre del mondo e lo rinnova, ricambiando alla terra i suoi umori.
Dopo la cena, al suono delle campane e illuminati dalle torce impugnate dai ragazzi, le famiglie si recavano in chiesa. Qui la gente continuava a mangiare, sghignazzare, scherzare come se stessero a tavola. Perché tanto baccano alla messa di mezzanotte? Ma per cacciare via gli spiriti e i demoni.
E poi si tornava a casa a giocare alla tombola fino all’alba, accanto al focolare, dove ardeva il ceppo dalle prime ore della sera. E nel mettere il ceppo le famiglie recitavano la formuletta augurale: “Si allegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti; abbondi il grano e la farina; e si riempia la conca di vino”.
Dopo le edizioni del 2003 e del 2008, il volume di Vittorio Monaco Capetièmpe. Capodanni in Abruzzo è uscito nel 2019 in una veste elegante: edito da Textus e per iniziativa del Centro Studi e Ricerche dedicato all’autore. La novità di questa ultima edizione è l’aggiunta del saggio di Monaco sul cristianesimo popolare. Uno scritto di notevole interesse antropologico: esso ci fa comprendere come nelle società tradizionali l’approccio al sacro sia “molto diretto, consistente nella percezione immediata dell’unità dinamica di morte e vita, sacro e profano, umano e divino, che tiene insieme e perpetua la compagine del mondo”.
Al di là delle teologie e delle norme dettate dalle chiese, quel mondo rurale viveva la dimensione magico-sacrale come etica condivisa che nasceva da valori, fini e norme definite dalle comunità. Una dimensione di gruppo che travalicava quella del singolo individuo. Viveva una fede pre-teologica che si fondava sulla coappartenenza di Dio e il mondo. Un proverbio vastese recita Ddë sa li cose di Ddë (solo Dio sa le cose di Dio) per dire che è inutile stare ad approfondire dogmi e misteri. Quel mondo di pastori e contadini viveva la propria religiosità esclusivamente nei suoi aspetti umani e tralasciava il divino. Essenziale era il sentimento di un valore che trascendesse il singolo individuo; un valore che fosse più alto dell’io.
Oggi le feste religiose si susseguono come se la dimensione religiosa non esistesse. Le luminarie natalizie si accendono ben prima dell’inizio dell’Avvento. In televisione già a novembre hanno incominciato a trasmettere i soliti film sul Natale. Non è solo il segno di una rottura tra credenti e rispettive chiese. È l’esaurirsi definitivo di un cristianesimo popolare che si alimentava anche del permanere di antichi riti e tradizioni che precedevano l’istituzione delle chiese. Ma quella dimensione del sacro era legata a valori, fini e norme che le comunità definivano e gli individui acquisivano come etica condivisa. Ora che i legami comunitari si sono del tutto dissolti, viene meno anche il sentimento del sacro e si esaurisce così l’aspirazione ad uscire dall’opacità della vita, coltivando la speranza di una luce che irradi e riscaldi il mondo.
L’ultimo rapporto del Censis afferma che “è la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani”. “Non siamo più disposti a fare sacrifici”, siamo alla spasmodica ricerca di “immunizzazioni dai rischi”, sprofondati quasi in un clima da “grande disillusione”. Non è più il rancore la cifra del nostro agire che almeno rinfocolava l’invidia e lo spirito di rivalsa. Siamo nel torpore e nell’intristimento che essiccano la speranza che qualcosa di veramente nuovo possa fare irruzione nella nostra vita. È così evaporato quello spirito che conferisce al Natale la sua strabiliante lucentezza e a noi uomini la forza per affrontare qualsiasi difficoltà.
La crisi demografica è il segnale più eloquente di questa condizione psicologica. La disattenzione diffusa nei confronti dei problemi dei giovani è l’esito più dirompente del declino di società invecchiate e non più proiettate verso il futuro.
Potrà tornare lo spirito del Natale? Guardare indietro in modo nostalgico non serve a niente. Dobbiamo prendere coscienza che i grandi miti proiettivi non funzionano più. E che altre risorse servono per alimentare il gusto e il coraggio dell’innovazione. Risorse che difficilmente arriveranno dall’esterno di ciascuno di noi.
Il Natale che oggi possiamo vivere dipende tutto da quello che noi stessi, in solitudine, riusciremo a costruire nelle nostre coscienze. Naturalmente, non chiudendoci in noi stessi ma guardando l’altro, chi ha bisogno, chi non ce la fa, chi chiede aiuto e non trova ascolto.
Il Natale che oggi possiamo augurarci di vivere è questo cambiamento interiore che ci chiama in causa personalmente. Non è più la ricerca della luce del sole, del nuovo inizio, della coappartenenza del sacro e del profano, del divino e dell’umano. È più semplicemente uscire di casa e guardare l’altro con uno sguardo diverso, aperto, accogliente. È trovare dentro di noi quel nucleo essenziale di razionalità e sentimento che ci permetta di prestare attenzione all’altro. E una volta trovato questo piccolo tesoro, ci impegniamo a preservarlo, a renderlo resistente, a corroborarlo di speranza.
Bisognerà poi edificare altre forme di vita comune. Ma saranno nuove generazioni, che verranno dopo di noi, a progettare, costruire e plasmare tali forme su quello che noi oggi saremo in grado di preservare, ciascuno nella propria coscienza.

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