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Il pasto è come il sesso

Il sacro - come la nostra umanizzazione - si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.

Oggi siamo tutti schiacciati sul presente e legati all’immediatezza. Le tecnologie digitali non sono interessate all’antefatto. Non sono in grado di riconoscere il sottile processo in base al quale il passato ridiventa esperienza presente. Il passato è così ridotto a reperto archeologico, privo di valore emotivo. È impoverito a tal punto da ridursi a un fantasma o simulacro, svuotato di ogni consistenza psicologica e di ogni valenza conoscitiva.

Con le tecnologie digitali disabituiamo la nostra mente a ricordare. La macchina ricorda per noi. Ma è un’illusione. Perdiamo la nostra autonoma capacità mnemonica. Ed è un guaio serio perché la memoria non è solo ricordo nostalgico.  Contiene anche un impeto utopico, il progetto come un “pro-iettarsi”, che in qualche misterioso modo anticipa l’avvenire e lo vive ancor prima che sia presente e tragicamente irreversibile. Oggi siamo portati a rifiutare questa operazione, a dimenticare lo scopo del nostro viaggio, a trasformare i valori strumentali in valori finali.

 Una forte domanda di senso

È per questo che siamo afflitti da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente. L’innovazione si riduce alla mera transizione dello stesso allo stesso. La forza delle differenze è vanificata. La creatività langue. La società ci appare formalmente razionale, sostanzialmente assurda. L’etica della responsabilità è stata accantonata. Sono tornati in auge modi antichi di fare politica e rapporti tra partiti e pezzi dello Stato con ambienti più o meno equivoci. Fenomeni che evidentemente non si sono mai ridimensionati. L’ambiente continua ad essere distrutto. Le mafie hanno preso il sopravvento dappertutto controllando non solo il traffico della droga ma anche flussi ingenti di denaro pubblico. E così il rapporto tra i cittadini e le istituzioni si è impoverito, emotivamente atrofizzato.

È innanzitutto il rapporto tra le persone che si è inaridito. Non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore). Il processo di individualizzazione si è realizzato con dispositivi di serializzazione. Il facile asservimento alle mode induce, infatti, ad omologarsi nella serie. Il consumo senza limiti ha sconvolto tutta la scala dei valori che regolavano i rapporti interpersonali. E una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in luoghi “totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza.

La ricerca del sacro

Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro. Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono alla convivenza umana, pena il trasformarsi dei rapporti tra le persone in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica, della mai perfettamente dominabile imprevedibilità degli individui. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.

Non si può comprendere l’idea di sacro senza ricordare la cultura del frumento e del pane; dell’olivo e dell’olio; della vite e del vino. Si tratta di prodotti che in passato scarseggiavano e non erano accessibili a tutti i ceti sociali.  La loro produzione, preparazione e consumo erano accompagnati da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento. Appartenevano a quell’universo in cui ogni bene era necessario. E pertanto niente andava smarrito, perduto, gettato, sprecato. L’equilibrio produttivo e alimentare, la qualità della vita, la mentalità delle persone, ancora in un recente passato, risultano strettamente legati alla bizzarria del clima, all’alternarsi di periodi di siccità e periodi di piogge torrentizie. Dal mattino alla sera, i contadini interrogavano il cielo, le nuvole, le nebbie, le stelle; osservavano attentamente la natura e gli animali che, coi loro movimenti e comportamenti, annunciavano pioggia, temporali, cattivo tempo.

La nascita dell’agricoltura

 Nella storia dell’umanità i concetti di “mangiare” e di “sesso”  venivano utilizzati come sinonimi, e un termine poteva metaforicamente significare l’altro. Gli uomini descrivevano le donne come “pomodori caldi”, “pezzo di carne di montone” o “vaso di miele”, ed esprimevano così il loro “appetito” sessuale, il loro desiderio di “mangiarle”. Allo stesso modo che la vulva della donna “mangiava” il membro maschile durante il rapporto. I partner di coppia erano tenuti a condividere tavola e letto.

Sembra che siano state le donne a favorire il passaggio dal nomadismo e dall’economia predatoria all’assetto stanziale e all’economia agricola, quando per prime sperimentarono la coltivazione del grano, dell’olivo e della vite, che richiedeva un’applicazione che durava quasi un intero anno in un medesimo luogo. E così inventarono il pane, l’olio e il vino per sostituire e integrare il cibo proveniente dall’attività pastorale-venatoria. Lo fecero per conciliare meglio i loro tempi di lavoro e di cura prima e dopo le gravidanze e contribuirono, in modo determinante, alla nascita dell’agricoltura.

Frapponendo tra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino, la donna e l’uomo hanno cessato di essere divoratori. Abbandonando l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda, la donna e l’uomo hanno assunto quello di chi crea un rapporto con il cibo.

Sono tutti elementi che dimostrano come sacro, cibo e sesso sono stati elementi tra loro sempre connessi.

Ma oggi questo equilibrio si è deteriorato. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio.  Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque sono tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo.

Sessualità e convivialità gioiose

Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà.

L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento.

Così dovrà ristabilirsi il nostro rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e tutto il mondo esterno è il suo cibo. Noi dobbiamo mangiare per vivere, dobbiamo assumere il mondo e trasformarlo nella nostra carne e nel nostro sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale.
Ma cosa fa di un “tavolo” una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Il pasto è come il sesso: o è parlato oppure è aggressività; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Prima di toccare il cibo dovremmo chiederci: “Da dove viene? Chi ha coltivato questi frutti? Chi li ha procurati con il suo lavoro? Chi li ha cucinati?”. Parlando del cibo lo assaporiamo e, con amore e in comunione con altri, lo facciamo diventare parte di noi.

Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità e convivialità gioiose, fondate sulla fraternità delle relazioni.

(da olioofficinaalmanacco n. 3 – gennaio 2015)

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