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Il Mezzogiorno delle statistiche

Non si tratta di fare a meno delle statistiche, che sono essenziali per delineare le caratteristiche oggettive di un dato contesto. La questione è più sottile: consiste nell’indagare sugli effetti degli investimenti nel Mezzogiorno con una preoccupazione conoscitiva di tipo microsociale, sui comportamenti che lo sviluppo provoca nella società

statistiche

Il 31 dicembre 1995, nel Supplemento “Domenica” del Sole 24 Ore, uscì un polemico articolo di Franco Ferrarotti sul Mezzogiorno. Il titolo, molto eloquente, era “Non bastano le statistiche”. E il decano della sociologia in Italia se la prendeva coi politologi e i sociologi che “troppo spesso sono i vati dell’ovvio”. “Riformulano in termini astrusi, da supertecnici dell’ingegneria sociale, cose che il normale buon senso dà per scontate. Persino l’ottimo rapporto sociografico del Censis, dopo un anno di intense e sofferte ricerche, conclude che gli italiani sono afflitti da sfiducia nella politica. Una scoperta che dà le vertigini. Vale la pena battere altre, meno frequentate strade”.

Quali? Nel recensire la lunga intervista che proprio in quei giorni Nino Novacco aveva concesso a Francesco Piva (Politiche per lo sviluppo: alcuni ricordi sugli anni ’50 tra cronaca e storia, Il Mulino, 1995), Ferrarotti scrive: “È un esempio da seguire. È un frammento di storia sociale, che risulta straordinariamente istruttiva per comprendere alcuni ‘nodi’ dello sviluppo italiano in questo dopoguerra, specialmente nel Mezzogiorno. Sono chiamate in causa la famosa Svimez, animata e diretta talvolta con pugno di ferro da Pasquale Saraceno, la Cassa per il Mezzogiorno, tutte quelle politiche sociali che, in origine mosse dall’ansia di solidarietà verso le aree depresse e l’esigenza di unificare anche economicamente il Paese, si sono poi rivelate in anni recenti nient’altro che meri meccanismi per la creazione di consenso spurio attraverso diffuse pratiche di clientelismo politico a sfondo smaccatamente elettorale”.

Dell’intervista di Novacco interessa a Ferrarotti maggiormente il racconto del non facile passaggio da un primo approccio negli studi della Svimez essenzialmente statistico quantitativo, per merito soprattutto di Alessandro Molinari, a un’impostazione socialmente e qualitativamente più provveduta. Un passaggio “delineato da Novacco con grande accuratezza, prestando tutta l’attenzione che si merita alla frizione polemica, cresciuta poi a vera e propria tensione, fra Pasquale Saraceno e Giorgio Ceriani Sebregondi, studioso e operatore sociale di prim’ordine, purtroppo prematuramente scomparso”.

Novacco racconta che “Sebregondi manifesta una iniziale e progressivamente crescente insofferenza verso un accentuato e troppo ‘spinto’ utilizzo delle statistiche, da lui considerate incapaci di riflettere – pur nella loro tendenziale esattezza – la complessità e l’articolazione del reale”. Commenta il sociologo nella sua recensione: “L’osservazione va ritenuta di rilievo perché è veramente illuminante. Non si trattava, e non si tratta, di spazzar via o fare a meno delle statistiche, che sono essenziali per delineare le caratteristiche oggettive di un dato contesto. La questione è più sottile: consiste nell’indagare sugli effetti degli investimenti nel Mezzogiorno non solo in termini aggregati – di investimenti fissi e di crescita dell’occupazione, del reddito e dei consumi – ma in termini di acquisto di carne dal macellaio del paese, in termini di spesa per l’acquisto di rossetti o di calze per donna da parte della manodopera addetta, cioè con una preoccupazione conoscitiva che era già di tipo microsociale, sui comportamenti che lo sviluppo provoca nella società”.

“Non è solo una questione di scuola – osserva Ferrarotti – o sterilmente accademica. Riflette invece con chiarezza i limiti dell’’economicismo’ e presagisce, quanto meno, l’importanza che è oggi sotto gli occhi di tutti delle componenti non economiche e, anzi, immateriali dello sviluppo. L’intervista di Novacco ci consente di cogliere, a questo proposito, il peso non solo e non tanto delle impostazioni teoriche, ma anche quello delle disposizioni caratteriali che dividevano il pragmatico Saraceno, attento agli scopi a breve termine, dal sociologo Sebregondi, più interessato a disegni strategici a lungo termine e comunque legato a una visione ‘globale’ dello sviluppo come processo integrale”.

Nei primi mesi del 1958 Saraceno allontanò il sociologo dall’Associazione. Sebregondi assunse un incarico a Bruxelles e nel giugno dello stesso anno morì a 41 anni. La “sezione sociologica” della SVIMEZ venne affidata alla direzione di Giuseppe De Rita che si era formato, giovanissimo, accanto a Sebregondi. Ma nel 1963 De Rita abbandonò l’Associazione e fondò il Censis. E così alla Svimez la “sezione sociologica” venne definitivamente smantellata. Dal 1958 al 1962 era stata insediata da Saraceno la Scuola di formazione e specializzazione sui problemi della teoria e della politica dello sviluppo economico. Una sorta di dottorato ante litteram per i neolaureati. La dirigeva Claudio Napoleoni. Vi insegnarono docenti prestigiosi, tra i quali Gunnar Myrdal e Jan Tinbergen, futuri premi Nobel. Ma l’idea di puntare ad uno sviluppo “globale” della società meridionale fu definitivamente cancellata.

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