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Il liberalismo politico in Medio Oriente

Una sintetica rassegna degli esperimenti più significativi tra XVIII e XXI secolo e individuazione di alcune cause degli insuccessi

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Interno della Moschea Blu, Istambul, Turchia (Foto di Benh LIEU SONG – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12696462)

Nel Medio Oriente la conquista dell’indipendenza dalle potenze occidentali non ha significato conquista della libertà politica.  Questa va, infatti, intesa come diritto del cittadino di partecipare alla formazione e alla gestione del governo e come immunità del cittadino stesso nei confronti di atti arbitrari e illegali delle autorità. L’idea di libertà politica è comparsa nel Medio Oriente alla fine del XVIII secolo, si è sviluppata e rafforzata nel XIX e, nella maggior parte della regione, è svanita verso la metà del XX. I regimi politici, che prevalentemente si sono imposti nei decenni scorsi, sono di tipo fortemente autoritario.

In questa regione, c’è stato un serio tentativo di introdurre la democrazia liberale e di farla funzionare, con costituzioni scritte, parlamenti sovrani elettivi, garanzie giuridiche, pluralismo partitico e libera stampa. Ma questi esperimenti, con poche e atipiche eccezioni, sono falliti. Per individuare bene le cause di tale esito, è necessario passare rapidamente in rassegna alcuni casi nazionali.

I primi esperimenti

È la Turchia ad essere toccata per prima dalle idee della Rivoluzione francese. Il 14 luglio 1793 la comunità francese tiene una solenne riunione durante la quale si legge la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, si giura fedeltà alla repubblica e si brinda alla salute della repubblica francese e di Selim III, dei soldati della patria e degli amici della libertà, nonché della fratellanza universale.

L’anno seguente, l’inaugurazione della bandiera repubblicana fornisce lo spunto per festeggiamenti ancor più solenni, che culminano in una salva d’onore sparata da due navi francesi ancorate al largo di Punta del Serraglio. Alla fine della festa, gli ospiti ballano una carmagnola in onore della repubblica attorno all’albero della libertà piantato in suolo turco, nel giardino dell’ambasciata di Francia.

L’albero della libertà finisce per dare frutto. Il primo passo verso un governo costituzionale viene compiuto già nel 1808, quando il gran visir Bayrakdar Muṣṭafà Paša convoca a Istambul un’assemblea di notabili e signori delle province e di alti funzionari. Si tratta di un incontro consultivo non del tutto inconsueto nell’impero ottomano. L’aspetto nuovo e importante consiste nel fatto che l’atto di consenso scaturito dall’assemblea è un contratto reciproco negoziato tra il sultano e gruppi di suoi servitori e soggetti. In tale contratto, questi ultimi figurano quali parti contraenti autonome, che ricevono determinati diritti e privilegi, oltre a concederne.

Nel 1829 Muḥammad ‘Alī Paša istituisce in Egitto un consiglio consultivo di 156 membri, tutti nominati dall’alto. Si riuniscono una volta all’anno e discutono di agricoltura, istruzione e imposte. Quando Muḥammad ‘Alī occupa la Palestina e la Siria, i suoi governatori nominano in ciascuna delle città principali un consiglio consultivo con il compito di fornire suggerimenti ed esplicare qualche funzione giudiziaria.

 

Nel 1845 anche il sultano ottomano Abdülmecid tenta l’esperimento di un’assemblea di rappresentanti delle province. Ma non ebbe un seguito. Un tentativo analogo, anch’esso inconcludente, si ha in Persia.

 

Nel ventennio tra il 1860 e il 1880 sembra che in Medio Oriente il costituzionalismo faccia notevoli passi avanti. Nel 1861 il bey di Tunisia, Muḥammad III al-Sadiq, a capo di una monarchia autonoma sotto indefinita signoria ottomana, promulga una costituzione. Il bey resta capo dello Stato e della fede e mantiene il potere esecutivo nelle mani sue e dei suoi ministri; insieme con questi ultimi è, tuttavia, responsabile verso un Gran consiglio di 60 membri, in parte nominati dal bey stesso, in parte cooptati, che restano in carica per 5 anni. Il potere giudiziario deve essere esercitato da una magistratura indipendente, e quello legislativo congiuntamente dal Gran consiglio e dal governo.

La costituzione tunisina viene sospesa nel 1864, ma la tendenza continua altrove. In Egitto il khedivé Ismā’īl crea un’Assemblea consultiva di delegati composta di 75 membri eletti per un mandato triennale secondo un sistema indiretto di collegi elettorali. Il movimento costituzionalista dei Giovani Ottomani, che si erano rifugiati in Inghilterra e in Francia, nel 1867 ottiene aiuti finanziari dal fratello del khedivé, Muṣṭafà Fazil Paša, e in seguito dal khedivé Ismā’īl in persona. Dopo qualche insuccesso la loro causa sembra sul punto di trionfare quando, nel 1876, il nuovo sultano ottomano Abdülhamid II promulga a Istambul una costituzione. Essa rivela l’influenza della costituzione monarchica liberale belga. La costituzione ottomana prevede un parlamento costituito da un senato di nomina sovrana e da una camera elettiva, con un riconoscimento abbastanza sbrigativo del principio della separazione dei poteri.

 

L’esperimento ottomano dura poco tempo. In seguito ad elezioni generali, il primo parlamento si riunisce nel marzo 1877 e la sessione dura fino a giugno. Poi si svolgono nuove elezioni e in dicembre si riunisce il nuovo parlamento, che non tarda a dare segni di vitalità allarmante: il 14 febbraio viene sommariamente congedato dal sultano. Dovranno passare trent’anni per riunirsi un nuovo parlamento.

 

Solo in Egitto continuano ad esistere istituzioni parlamentari. L’assemblea del 1866 svolge le tre sessioni prescritte. E altre si susseguono con le assemblee elette nel 1869, nel 1876 e nel 1881. Nel 1882, durante la rivolta di un colonnello nazionalista, Ahmad ‘Urābī, che persegue anche finalità sociali, l’assemblea elabora e promulga una bozza di costituzione parlamentare. La bozza viene abrogata, e l’assemblea sciolta, in seguito alla sconfitta di ‘Urābī. Il processo riprende dopo l’occupazione britannica del 1882 con l’istituzione di due organi semiparlamentari che funzioneranno fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

La vittoria degli Alleati e delle potenze associate sui loro avversari un po’ meno democratici nel 1918, con il crollo dell’unica autocrazia presente nel campo alleato, sembra fornire la dimostrazione definitiva della tesi secondo cui la democrazia rende sano, ricco e forte lo Stato. A Damasco il Congresso siriano del principe Faiṣal prepara un progetto di costituzione per una monarchia parlamentare limitata: viene abbandonato in seguito all’arrivo dei francesi, il 19 luglio 1920.

 

I governi di Francia e Gran Bretagna, in quanto potenze mandatarie, creano monarchie e repubbliche costituzionali a propria immagine e somiglianza nei paesi sottoposti al loro dominio. Anche altrove, negli anni che seguono la vittoria, in tutto il Medio Oriente si diffondono costituzioni e parlamenti: sembra il trionfo universale dei principi liberali e democratici.

 

Il regime costituzionale più duraturo del Medio Oriente è stato quello dell’Iràn, dove la costituzione promulgata dopo la rivoluzione liberale del 1906 è rimasta in vigore – sia pure con scarsissimi effetti pratici – fino alla rivoluzione islamica del 1979, quando è stata abrogata formalmente. Al momento, il più vecchio regime parlamentare superstite è quello del Libano, dove la costituzione del 1926, malgrado molte vicissitudini ed emendamenti abbastanza radicali, è rimasta tecnicamente in vigore, benché la guerra civile e le ingerenze esterne ne abbiano minato e forse annullato l’efficacia.

 

In Turchia sopravvivono la volontà e la speranza. Malgrado le ricorrenti crisi di politica interna e i tre interventi militari a partire dal 1960, la Turchia rimane fedele al regime parlamentare. Ciascuno dei tre regimi militari si è fatto volontariamente da parte cedendo il posto alla restaurazione di un governo costituzionale e parlamentare.

 

 

Il caso egiziano

 

In Egitto, dopo la deposizione della monarchia e la creazione di una nuova repubblica da parte degli “ufficiali liberi” (primeggiano ‘Abd al-Nāṣer e Anwar al-Sādāt) tra il 1952 e il 1954, sembra che ci sia il completo e definitivo abbandono del regime parlamentare. La presidenza Nāṣer si caratterizza come regime autoritario in cui poco o nessuno spazio viene lasciato al dissenso e alle opposizioni. Il legame stretto con l’Unione Sovietica suggella l’autoritarismo di regime. La presidenza successiva, quella di Sādāt, prova a tornare con cautela a un’assemblea rappresentativa eletta in elezioni aperte a più liste, con una stampa di opposizione libera di criticare entro limiti chiaramente percepiti. L’Unione socialista araba – il partito unico di Nāṣer – viene sciolta e sulle sue ceneri si articolano tre tribune e poi tre partiti, uno di centro, uno di destra e uno di sinistra. La tribuna di centro, espressione diretta della volontà del presidente e suo braccio esecutivo, diviene il Partito nazionale democratico (Pnd), la formazione politica dominante. L’opposizione reale è garantita dal partito di sinistra, il Tajammu’, e dal ricostituito Neo Wafd.

 

Tuttavia, le elezioni del 1979 sono dal versante della democraticità un disastro. Pesantemente condizionate dal controllo pressoché esclusivo del governo sui media, si caratterizzano per i numerosi brogli, in seguito addirittura esplicitamente riconosciuti. Sādāt fa approvare un emendamento costituzionale che rende la šarī’a la fonte principale della legislazione. Inoltre, cerca di utilizzare l’islamismo per combattere l’opposizione di sinistra e nasseriana; ma l’islamismo gli si rivolta contro, rifiutando tutto l’impianto istituzionale che aveva costruito.

 

Quando nel settembre 1981 Sādāt decide un giro durissimo di vite contro tutti gli oppositori, i componenti del gruppo islamista armato di al-Jihad decidono di agire e assassinano il presidente durante la parata militare che celebra la vittoria del 1973. Sale al potere Ḥosnī Mubārak, il quale impone provvedimenti che gettano un’ombra sul carattere liberale del regime politico egiziano. L’esecutivo si rafforza rispetto al potere legislativo. E non si risparmiano sforzi nel tentativo – peraltro non del tutto riuscito – di subordinare il giudiziario all’esecutivo. Ciò implica inevitabilmente esigenze di controllo che si esprimono in restrizioni di vario tipo. Una delle più macroscopiche è la permanenza in Egitto per trent’anni dello stato di emergenza che consente mano libera alle forze dell’ordine e alla polizia e legittima abusi d’ogni genere e restrizioni degli spazi di libertà democratica. Inoltre, si emenda la costituzione per sostituire la magistratura con un alto comitato appositamente nominato dal governo per supervisionare le elezioni e combattere i brogli.

 

Dopo un trentennio di presidenza, continuamente reiterata grazie a opportune modifiche costituzionali, 18 giorni di imponenti proteste, accompagnate dall’uccisione di oltre 800 egiziani, costringono Ḥosnī Mubārak alle dimissioni l’11 febbraio 2011. Questi lascia il potere al Consiglio supremo delle forze armate guidato dal Feldmaresciallo (Mushir) Moḥammed Ḥoseyn Ṭanṭāwī.

 

Nelle elezioni presidenziali del 2012 risulta vincitore Moḥammed Morsi che il 3 luglio 2013 viene destituito da un colpo di Stato militare del generale ʿAbdel Fattāḥ al-Sīsī. Con quest’ultimo il regime egiziano diventa ancor più autoritario e introduce forme sostanziali di culto della personalità nei confronti del capo del governo. Inoltre, viene riallacciata l’alleanza con la Russia dopo la fase di raffreddamento delle relazioni con il Cremlino promossa da Sādāt e Mubārak.

 

 

L’Africa nord-occidentale

 

Più di recente, esperimenti a base di elezioni competitive e giornali critici sono tentati in alcuni paesi, come la Tunisia e l’Algeria. Nel primo, il presidente Ben Ali avvia nel 1987 una fase di relativa apertura politica. Fa rilasciare gli oppositori politici, favorisce la legalizzazione di diversi partiti, abolisce la presidenza a vita e alleggerisce i limiti imposti alla libertà di stampa. Nel 1988, propone alle forze politiche di aderire ad un Patto nazionale, che indica i principi guida per promuovere le nuove riforme istituzionali. Tuttavia, dopo tre anni, Zayn al-Abidīn Ben’Alī inverte rotta, creando un regime autoritario, tra i più repressivi nel mondo arabo, che si andrà consolidando nei decenni successivi.

 

Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un giovane disoccupato della città di Sidi Bouzid, costretto a lavorare come venditore ambulante, si dà fuoco, dopo che la polizia gli aveva sequestrato la merce. Il gesto disperato di questo ragazzo innesca un’ondata di proteste spontanee nella città, dando così inizio, in tutto il paese, alla rivoluzione dei Gelsomini. La protesta porta alla caduta del regime di Ben’Alī.

Il 26 ottobre 2014 si svolgono le elezioni parlamentari, che vedono l’affermazione del partito laico Ḥaraka Nidāʾ Tūnus (Appello della Tunisia) con 85 seggi nell’assemblea su 217. A novembre dello stesso anno sono organizzate le elezioni presidenziali in cui viene eletto Béji Caïd Essebsi. Il nuovo presidente svolge il mandato fino alla sua morte, avvenuta nel 2019. Nelle successive elezioni presidenziali viene eletto Kaïs Saïed. Dopo il referendum costituzionale del 2022, la Tunisia diventa una repubblica presidenziale.

 

In Algeria, qualche spiraglio di democrazia s’intravede nel 1992, quando un partito di opposizione, il Fronte islamico di salvezza (Fis), riesce a conseguire una netta vittoria elettorale. La quale gli è, tuttavia, sottratta dall’intervento dell’esercito che insedia al potere un nuovo regime di emergenza, presieduto da Mohamed Boudiaf, una figura storica ritornata dall’esilio in Marocco.

 

Nel 1996 una revisione della costituzione introduce un parlamento bicamerale che comprende un’assemblea nazionale, una camera bassa composta da 380 membri eletti direttamente, e il consiglio della nazione, una camera alta composta da membri in parte nominati e in parte eletti indirettamente. Le assemblee locali e regionali eleggono i due terzi dei membri del consiglio della nazione. Il presidente algerino nomina direttamente il terzo rimanente.

 

Con il supporto dell’esercito, nell’aprile 1999, Abdelaziz Bouteflika, l’ex ministro degli Esteri candidato dal Fln, è eletto presidente al termine di una campagna elettorale che, sebbene ricca di dibattiti, non è particolarmente competitiva. Aspettandosi brogli elettorali, i sei oppositori di Bouteflika si ritirano all’inizio della corsa, lasciandolo unico candidato e, di conseguenza, delegittimando il risultato delle urne. Al secondo mandato del 2004, per ridurre il potere dei militari che lo avevano sostenuto, il presidente assume gli incarichi di comandante in capo dell’esercito e ministro della Difesa.

 

La costituzione algerina del 1996 poneva un limite di due mandati all’eleggibilità dei presidenti. Ciononostante, Bouteflika introduce un emendamento costituzionale, adottato a larghissima maggioranza dal parlamento nel novembre 2008, che rimuove quel limite, e che gli consente di candidarsi per la terza volta nel 2009. E questo malgrado l’età avanzata, le precarie condizioni di salute e i risultati ambigui della presidenza.

 

Pertanto, il 28 dicembre 2010 una serie continua di proteste inizia in tutto il paese. Il 24 febbraio 2011, il governo revoca lo stato di emergenza in vigore da 19 anni e si va avanti fino al 2019, quando Bouteflika si è dimesso dalla presidenza a seguito delle proteste di massa contro la sua candidatura per un quinto mandato.

 

Nelle successive elezioni presidenziali, viene eletto presidente Abdelmadjid Tebboune. In quella tornata elettorale il tasso di astensione scende al 40 per cento, il più basso registrato da quando il paese ha conquistato l’indipendenza.

 

 

L’anomalia di Israele

 

Un caso a parte è costituito da Israele, che per molti aspetti rappresenta una singolare anomalia. Israele non è uno Stato islamico e non ha subito le perturbazioni e gli sconvolgimenti sperimentati dai suoi vicini, eppure non sembra disporre delle risorse necessarie a favorire lo sviluppo di istituzioni democratiche di tipo occidentale.

 

La maggior parte dei cittadini di Israele sono venuti da paesi con scarsa o nulla tradizione o esperienza democratica: dall’Europa centrale e orientale, dal Medio Oriente, dal Nordafrica.

 

Fin dalla proclamazione dello Stato nel 1948, i rapporti di Israele con tutti o quasi i suoi vicini sono caratterizzati da uno stato di guerra esploso frequentemente in conflitto armato. Nei territori sottoposti alla sua denominazione, e addirittura entro i suoi confini originari, lo Stato di Israele esercita la propria sovranità su una considerevole popolazione affine a quegli stessi vicini per lingua, religione, cultura e solidarietà.

 

In una situazione del genere le forze armate esercitano inevitabilmente una grande influenza e, in una regione dove i colpi di Stato sono la regola, ci si può aspettare che i generali, o i colonnelli, israeliani seguano prima o poi la tendenza impadronendosi del potere. Ma le cose non vanno così e Israele, malgrado lo stato di semimobilitazione permanente, rimane una società aggressivamente civile.

 

Il conflitto israelo-palestinese riesplode tragicamente il 7 ottobre 2023: la formazione religiosa terroristica Hamas attacca Israele provocando migliaia di morti tra la popolazione civile. Per valutare bene la situazione che si è aperta con il pogrom è necessario evitare ogni generalizzazione, individuando i diversi attori. Una efficace sintesi storico-politica dei soggetti coinvolti è stata fatta da Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore del 29 ottobre 2023.

Negli ultimi tempi, in Israele l’estrema destra religiosa è diventata sempre più influente. Nel governo formatosi il 29 dicembre 2022, guidato da Benjamin Netanyahu e costituito di 13 partiti, almeno 5 rappresentano l’estrema destra religiosa. Questa promuove, finanzia e protegge l’insediamento di colonie “ebraiche” (come le chiama) nei territori della West Bank occupati militarmente da Israele dopo la guerra del 1967, territori che Israele si era poi impegnato a restituire all’Autorità nazionale palestinese (Anp) con i secondi accordi di Oslo del 1995. Ma nonostante l’impegno allora preso, la destra religiosa israeliana ha fatto di tutto affinché quell’impegno non venisse rispettato.

 

Nella West Bank, la popolazione dei coloni, al 1° gennaio di quest’anno, era di 502.991 persone, con una crescita del 16% dal 1° gennaio 2018, cui vanno aggiunti oltre 200.000 coloni che si sono installati a Gerusalemme Est (assegnata anch’essa ai palestinesi ad Oslo nel 1995). Il risultato è la frammentazione della West Bank, la sua militarizzazione per proteggere i coloni, l’estensione dell’autorità israeliana sulla popolazione palestinese (di tre milioni di persone).

 

Questa politica, però, è contestata da settori consistenti della società israeliana, che denunciano il nesso autoritario tra negazione dei diritti dei palestinesi (all’esterno) e indebolimento dello stato di diritto (all’interno). Centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza, nei mesi scorsi, per contestare la contro-riforma della giustizia avanzata dal governo Netanyahu. Studiosi israeliani come Yuval Noah Harari hanno accusato i governi del loro Paese di perseguire una politica di apartheid ai danni dei palestinesi nella West Bank e a Gerusalemme est.

 

Anche la Palestina non va confusa con la sua destra religiosa (Hamas). Quest’ultima non riconosce l’esistenza di Israele, specularmente al disconoscimento dei diritti dei palestinesi da parte di quella ebraica. Eppure, Hamas è tutt’altro che il rappresentante del popolo palestinese. Su Foreign Affairs del 25 ottobre 2023, Amaney Jamal e Michaele Robbins hanno riportato i risultati di un sondaggio di Arab Barometer (che ha coinvolto 1.189 palestinesi, sia della West Bank che di Gaza, tra il 28 settembre e l’8 ottobre 2023), in base al quale il governo di Hamas a Gaza godeva del sostegno del 29% dei palestinesi della Striscia, mentre il 67% di questi ultimi dichiaravano di avere “nessuna o poca fiducia” nei suoi confronti. Mentre Hamas ha fatto della distruzione di Israele la sua missione sin da quando si è costituita (nel 1987), la maggioranza degli abitanti di Gaza e della West Bank si è dichiarata invece favorevole alla soluzione dei due stati.

 

Quando quella soluzione fu rifiutata (era il 23 dicembre 2000) per le incertezze di Yasser Arafat, furono intellettuali palestinesi come Edward Said e Rashid Khalidi a criticare quest’ultimo per la mancanza di coraggio a trovare un compromesso sulla questione della Nabka (l’esodo forzato di 700.000 palestinesi dalle loro case in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948).

 

Distinguere le varie posizioni politiche sia in Israele sia tra i palestinesi è fondamentale per evitare di considerare Israele e Palestina come blocchi monolitici. Discernere, invece, tra i diversi attori può contribuire a costruire effettive strategie di dialogo e di pacificazione.

 

 

Le ragioni degli insuccessi

 

Guardando attentamente alle vicende storiche dei singoli paesi, è possibile distinguere almeno una parte delle cause che hanno determinato, in Medio Oriente, lo scarso successo del liberalismo politico. Un approfondimento su tale tema è stato fatto da Bernard Lewis in La costruzione del Medio Oriente (Laterza 1998), un testo che costituisce una buona sintesi storico-politica sui rapporti tra questa regione del pianeta e l’Occidente.

 

“Innanzitutto, – scrive Lewis – la democrazia non si può imporre dall’alto e dall’esterno”. Non si instaura per decreto autocratico senza che risponda a reali esigenze e richieste delle popolazioni. Non si costruisce in sicurezza senza il sostegno vitale di forti interessi che si coalizzano e di solidi movimenti di opinione.

 

In La democrazia degli altri (Mondadori 2004), Amartya Sen si chiede: “Che cos’è esattamente la democrazia?”. E risponde: “Innanzitutto occorre evitare l’identificazione fra democrazia e governo della maggioranza. La democrazia ha esigenze complesse, fra cui, naturalmente, lo svolgimento di elezioni e l’accettazione del loro risultato, ma richiede inoltre la protezione dei diritti e delle libertà, il rispetto della legalità, nonché la garanzia di libere discussioni e di una circolazione senza censura di notizie. In realtà, anche le elezioni possono essere del tutto inutili se si svolgono senza aver offerto alle diverse parti un’adeguata opportunità per presentare le proprie posizioni, o senza concedere all’elettorato la possibilità di avere accesso alle notizie e valutare le opinioni di tutti i contendenti. La democrazia è un sistema che esige un impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da tutto il resto”. Tale impegno costante da parte delle classi dirigenti è spesso mancato.

 

 

Per Giovanni Sartori, in Democrazia (Treccani 2023), e Robert Dahl, in Prefazione alla teoria democratica (Edizioni di Comunità 1994), la democrazia è tale solamente se combina due componenti (non facilmente combinabili tra di loro). La prima componente è quella che limita il potere, la seconda è quella che consente ai cittadini di usare il potere. La prima componente nasce dalle rivoluzioni liberali e si sostanzia nella difesa di diritti che appartengono (o dovrebbero appartenere) ad ogni singolo individuo della società. Attraverso lo stato di diritto, e la sua infrastruttura giuridico-istituzionale, quei diritti (“alla vita, alla proprietà e alla ricerca della felicità”, per dirla con il Thomas Jefferson del 1776) sono protetti dall’arbitrio del potere.

 

 

La seconda componente nasce invece dalle rivoluzioni democratiche e si sostanzia nella partecipazione dei cittadini all’esercizio del potere. Se la componente democratica si è progressivamente diffusa, in particolare nel secondo Dopoguerra, non si può dire lo stesso per la componente liberale. Dei 193 stati che fanno parte delle Nazioni Unite, più di 2/3 si dichiarano democratici perché prevedono l’uso delle elezioni per scegliere i loro governanti, ma solamente una minoranza di essi ha uno stato di diritto al proprio interno. Non sono sufficienti le elezioni per catalogare, ad esempio la Federazione Russa o la Repubblica Islamica dell’Iran, tra i Paesi democratici.

 

 

Gli Stati Uniti sperimentarono già con esiti negativi l’esportazione dello stato di diritto negli Stati del Sud, quelli usciti sconfitti dalla Guerra Civile (1861-1865). Dopo il tentativo fallimentare della loro liberalizzazione (1865-1877), quegli Stati ricostruirono un nuovo regime illiberale, durato un secolo, al loro interno. Così, pur tenendo regolari elezioni, hanno potuto escludere milioni di afroamericani dal godimento dei diritti (civili, politici e sociali), senza che nessun giudice dicesse mai una parola. Un’evoluzione simile si sta consolidando, oggi, nei Paesi centro-orientali dell’Unione europea, i cui governanti accettano la democrazia elettorale ma rifiutano la rule of law.

 

 

Eppure, nonostante le severe lezioni della storia, recentemente negli Usa sono sorte correnti d’opinione molto solide che hanno coltivato e continuano a coltivare il proposito di esportare la democrazia, ad esempio, in Paesi come l’Afghanistan.

 

 

Ma torniamo a Lewis. Egli sostiene, inoltre, che “le giovani e inesperte democrazie mediorientali sono state esposte a una serie di tensioni e perturbazioni politiche violente, di origine sia interna, sia esterna, e si sono dovute confrontare con il consueto problema economico afroasiatico dell’esplosione demografica. Nella maggior parte dei paesi, il sistema parlamentare è crollato per lo sforzo. Il più delle volte la delusione e la frustrazione dei dirigenti ha ceduto il posto a un cinismo e un opportunismo che hanno scandalizzato il senso morale e religioso di coloro che avrebbero dovuto essere guidati e hanno screditato completamente le istituzioni della democrazia liberale”.

 

 

Un’altra causa va ricercata nella confusione che viene fatta tra il concetto di repubblica e quello di democrazia. Nel Medio Oriente il concetto di repubblica non sempre è andato di pari passo con l’idea di libertà politica. Le prime repubbliche musulmane sono state istituite nei territori turchi dell’impero russo, dove l’attenuarsi temporaneo del dominio centralizzato in seguito alla rivoluzione del 1917 ha consentito un intervallo di sperimentazione locale. In qualche zona, e in particolare nell’Azerbaigian, questo processo ha assunto la forma delle democrazie nazionaliste liberali, che sono state tutte conquistate a tempo debito dall’Armata Rossa e incorporate nell’Unione Sovietica.

 

 

Secondo le usanze mediorientali, la repubblica è uno Stato dal capo non dinastico. Il termine non si riferisce al procedimento mediante il quale il capo perviene alla sua funzione, e nemmeno al modo in cui la esercita. Il passaggio alla forma repubblicana ha significato la fine della monarchia e di molte cose ad essa connesse; non ha avuto nulla a che fare con il governo rappresentativo o la democrazia liberale.

 

 

Anche il socialismo in Medio Oriente ha assunto significati plurimi ed è stato influenzato fortemente dall’esperienza sovietica. Come ha ricordato Emilio Gentile in Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi (Laterza 2001), già negli anni Venti alcuni osservatori intravidero alcune somiglianze tra bolscevismo e islamismo. Chi fece questo confronto non era pregiudizialmente anticomunista. Non lo era il filosofo Bertrand Russell, il quale dichiarò, nel 1920, al ritorno da un viaggio in Russia, che il bolscevismo “non è soltanto una dottrina politica, è anche una religione, con dogmi precisi e sacre scritture”. “Tra le religioni – precisa il filosofo – il bolscevismo va avvicinato più all’islamismo che al cristianesimo e al buddismo”. Non era neppure pregiudizialmente ostile alla Russia John Maynard Keynes quando, nel 1925, definiva il leninismo una religione che prometteva la realizzazione di un nuovo ordine e la rigenerazione dell’umanità, ed era pronta a esigere qualsiasi sacrificio, a usare qualsiasi mezzo, anche il più violento, per trionfare, senza arrestarsi di fronte alle difficoltà materiali, agli errori e alle necessità tattiche.

 

 

Tra i partiti socialisti mediorientali il più importante è stato il Partito socialista arabo di Akram Haurānī, fondato in Siria nel 1950. Nel 1953 si è fuso con il Partito della rinascita araba di Michel ‘Aflaq, per dar vita al Partito socialista della rinascita araba, noto di solito come Ba’th. La rivoluzione socialista, come le costituzioni liberali, è stata imposta dall’alto per decisione di un regime militare. Si è discusso animatamente nel mondo arabo tra fautori del “socialismo arabo”, percepito come più autentico e più umanitario, e del “socialismo scientifico”, altro nome del comunismo marxista, che i suoi sostenitori difendevano in quanto superiore alla corrotta e inefficace imitazione locale, e come unica vera via verso la società ideale. All’inizio degli anni novanta del Novecento erano ormai completamente screditate entrambe le varianti. Il “socialismo scientifico” era fallito nella maniera più tetra e drammatica proprio nei suoi paesi d’origine, mentre al “socialismo arabo” veniva attribuita la colpa di aver ostacolato, anziché generato, lo sviluppo economico promesso e di aver allontanato le società del mondo arabo sia dalla tradizionale tolleranza araba, sia dalla democrazia politica occidentale, per trascinarle verso autocrazie costruite secondo i modelli dell’Europa centrale ed orientale. Del resto, Eric J. Hobsbawm in Il secolo breve. 1914-1991 (Feltrinelli 1994) afferma: “Il Secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità”.

 

 

Il jihad globale

 

Infine, vanno tenuti in debito conto i profondi mutamenti culturali avvenuti nel mondo islamico all’inizio del XX secolo, nel nuovo contesto politico, caratterizzato dalla fine del potere temporale del “Sultanato” ottomano (1922) e dall’abolizione del “Califfato” (1924) ad opera di Atatürk. Termina il Califfato inteso come punto di riferimento, sia pure formale, per la comunità islamica (la umma) e si avvia un processo di laicizzazione del mondo musulmano. Al concetto di umma si sostituisce quello più laico, ma ugualmente forte, di watan (patria) o qawm (nazione). Questo elemento è determinante nel condurre alle cosiddette “costituzioni miste” in cui elementi di codici e costituzioni occidentali si fondono con elementi tratti dalla tradizionale normativa islamica.

 

 

Le contraddizioni a livello giuridico e legislativo che il nuovo contesto politico ha creato, la perdita di identità che il singolo musulmano ha subito, l’intensificazione commerciale indotta dai processi di globalizzazione hanno spinto gruppi di individui a ricercare risposte sempre più radicali e integriste. A partire dalla cosiddetta rivoluzione iraniana, questo radicalismo islamico (o jihad globale) è passato da movimento a vero e proprio soggetto politico, gestendo sempre più il governo di vari paesi a maggioranza musulmana.

 

 

Un approfondimento abbastanza esauriente di tale fenomeno è stato fatto dallo studioso di islamistica Mario Campli in Islamizzazione e Radicalizzazione (Cavinato 2021), partendo dalle ricerche di due arabisti e politologi, Olivier Roy e Gilles Kepel. I due intellettuali francesi sono espressione di due visioni diverse del fenomeno che, tuttavia, sono complementari per trovare le risposte più idonee da parte dei pubblici poteri. Per Roy “il terrorismo deriva non dalla radicalizzazione dell’Islam ma dalla islamizzazione della radicalità”. A questa conclusione egli perviene dopo aver eretto una sua particolare islamologia. Il cui pilastro principale è l’idea che, al tempo della globalizzazione, il secolarismo produce un approccio alla religione “mutato”, “deculturato”, “deterritorializzato”, con una “pretesa di universalità”. E questa mutazione è trasversale a tutte le religioni. Cresce in tale contesto il neo fondamentalismo islamico e si riformulano le sue varie ortodossie dando vita, a partire dagli anni Sessanta, a due ideologie rivali: l’islamismo e il nazionalismo. Il percorso di Kepel – così come viene delineato da Campli – è anch’esso di ricerca sul campo, viaggiando spesso in Africa del Nord e nel Vicino e Medio Oriente. Egli indaga il processo di islamizzazione, sia sul piano politico che sociale, avviatosi quando l’élite politica che si era impadronita del potere al momento della decolonizzazione compie la grande rottura culturale con la tradizione. Da tali riflessioni emergono così i lineamenti del passaggio d’epoca che stiamo vivendo, in cui tutte le vicende dell’Islam appaiono incredibilmente connesse nelle diverse aree del pianeta, tutti i loro problemi appaiono globali e le tentate soluzioni non globali appaiono sbagliate e pericolose per le nostre libertà.

 

 

Uno sguardo d’insieme sugli esperimenti di liberalismo politico nel Medio Oriente può contribuire a renderci più consapevoli che il terrorismo islamista, sia nella versione dell’11 settembre 2001 che in quella del 7 ottobre 2023, e le dottrine che lo sostengono conducono alle stesse visioni del mondo apocalittiche e paranoiche che nel Novecento hanno animato il totalitarismo europeo. Come scrive Paul Berman in Terrore e liberalismo (Einaudi 2004), la cosa che il terrorismo islamista più di ogni altro teme, disprezza e vuole distruggere è “il liberalismo, non la filosofia del capitalismo sregolato, ma la filosofia della libertà, e la pratica della libertà; il liberalismo che permette alla gente di pensare come crede, che tiene la Chiesa e lo Stato in sfere separate e che rifiuta di imporre una dottrina o verità onnicomprensiva su qualsiasi aspetto delle attività umane”.

 

 

 

 

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