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Viaggio alla scoperta di un antico luogo della fede da cui emergono le origini "dal basso" e civiche del complesso monastico e i tratti di lunga durata, ancora oggi, rimasti impressi nella comunità locale
È auspicabile che i giovani di Tito leggano il bel volume dedicato al convento di Sant’Antonio da Padova e finanziato dall’Amministrazione comunale e dalla Direzione per i beni culturali e paesaggistici della Basilicata. Se vogliono capire qualcosa delle radici della comunità in cui vivono non possono fare a meno di studiare quest’opera.
Dalla ricostruzione storica effettuata da Valeria Verrastro, coadiuvata nella ricerca archivistica da Giuseppina Anna Laurino, emerge con estrema chiarezza l’impronta marcatamente laicale dell’origine del convento di Tito.
Come tutti i conventi che sorsero con il movimento dell’Osservanza nell’ambito del monachesimo francescano, anche quello di Tito nasce infatti “dal basso” per iniziativa di un gruppo di frati originari del piccolo borgo. L’intento è quello di promuovere un rinnovamento dell’ordine religioso, proponendo una più stretta osservanza della Regola e recuperando così il senso del distacco dalle cose. Il gruppo di religiosi inizia a costruire il convento nel 1514 utilizzando le risorse raccolte localmente. Non solo lasciti e donazioni di singole famiglie ma anche beni appartenenti alle università di Tito e Pietrafesa (l’attuale Satriano di Lucania).
Le università non hanno nulla a che vedere con gli attuali comuni. Il termine “universitas” deriva da “universi civitas” che significa “unione di tutti i cittadini”. È Federico II di Svevia a riconoscerne la personalità giuridica. Ma queste istituzioni sono un insieme di usi e ordinamenti che risalgono all’epoca romana. Hanno propri statuti ed eleggono ogni anno un consiglio tra i membri della comunità ad esclusione di chierici e nobili. Quando arriva l’ordinamento feudale si apre un conflitto ma le antiche istituzioni non soccombono. Si cerca un equilibrio tra i baroni usurpatori e le popolazioni utenti del suolo; e laddove lo si trova, esso è sancito dagli statuti. I beni dati in feudo sono beni nazionali e non già proprietà del principe. La proprietà resta delle primitive collettività.
Le università sono forme di società civile che si autodeterminano e si autoregolamentano. Si tratta di “iura civitatis”, cioè diritti che competono a tutti i cittadini in quanto tali. Una ricca giurisprudenza napoletana difende tali diritti e viene sanzionata nelle prammatiche emanate dai re per contenere le mire baronali. Sicché negli editti regi si proclamano l’indivisibilità, l’inalienabilità, l’imprescrittibilità dei beni comuni. E tra i compiti delle università figura anche quello di amministrare tali beni, detti demani, e di regolare i diritti di pascolo, di legnatico, di caccia e di pesca, che limitano la proprietà privata.
Le università di Tito e Pietrafesa contribuiscono ad erigere il convento che ben presto diventa sede di uno “studium” di filosofia e teologia, nonché casa di noviziato. Ma successivamente, quando si passa alla decorazione del chiostro, affidata all’artista lucano Giovanni de Gregorio detto il Pietrafesa, concorrono alle spese anche le università di Picerno e Sasso e numerose famiglie di Tito e dei paesi vicini.
Nel volume sono descritte, con dovizia di particolari e un notevole apparato fotografico, l’architettura e la decorazione del complesso conventuale. Il ciclo dei dipinti murali del chiostro raffigura in modo suggestivo scene della vita di Sant’Antonio. Si tratta di un palinsesto di tecniche e materiali costitutivi diversi. La tecnica è mista: ad affresco, a mezzofresco e a secco. E il materiale utilizzato non è soltanto calce ma anche intonaco con sabbia di tufo o fibra vegetale.
Purtroppo la dispersione di una buona parte dell’archivio del convento, già avvenuta nel primo decennio dell’Ottocento quando si avvia la politica delle soppressioni degli enti religiosi ed ecclesiastici, non ha permesso ai ricercatori di ricostruire le vicende che riguardano la comunità monastica mediante fonti di diretta provenienza conventuale. È rimasto soltanto un inventario dei beni mobili compilato nel 1808 da cui si desumono elementi significativi della vita materiale dei frati. Dal documento emerge, ad esempio, la presenza di un’antica spezieria in cui venivano utilizzate piante officinali prodotte in un erbaio connesso all’orto murato del convento.
Quando il soffio potente della rivoluzione francese abbatte il feudalesimo, i diritti manomessi e conculcati non vengono restaurati. Per disperdere le prove dei vecchi diritti dei cittadini si distruggono o si disperdono gli archivi, dovunque essi si trovino. Del resto, alla forma in cui quei diritti vengono esercitati, sono contrarie le tendenze, le opinioni, i pregiudizi, anche, della rivoluzione. Nella proprietà collettiva dei demani che aveva così profonde radici nella storia e che con la feudalità non aveva avuto altri rapporti che di antagonismo e di lotta, si vuole vedere una filiazione, una conseguenza del sistema feudale. E la si travolge nella condanna irremissibile di questo. Sicché ai vecchi feudatari si sostituisce una terribile e famelica borghesia terriera decisa a sottoporre quanta più terra possibile al nuovo regime di proprietà privata. Essa si impadronisce prima dell’amministrazione dell’università e poi del municipio, quando viene istituito; usurpa e cancella gli antichi diritti della popolazione sulle terre demaniali o soggette ad uso civico; compera le terre ecclesiastiche ed esercita su larga scala l’usura ai danni dei contadini poveri.
Non si ha riguardo nemmeno del convento che viene visto dalle famiglie borghesi solo come un’opportunità per far studiare i figli senza allontanarli da Tito. E così le beghe tra famiglie per sistemare i propri congiunti si riflettono nella vita monastica e si avvia la decadenza dell’istituzione. Eppure, i frati costituiscono un riferimento culturale e sociale importante per la comunità locale, non solo per gli aspetti religiosi ma anche per le attività di sostegno agli indigenti, quelle educative e socio-sanitarie. Insostituibile è la loro opera di soccorso nei casi di epidemia o a seguito di terremoti. Ma tutto questo non pare interessare a nessuno.
E così nel giro di pochi decenni, la comunità francescana si estingue e il complesso conventuale, ad esclusione della chiesa, viene lasciato in uno stato di incuria e di abbandono. Bisognerà attendere ancora del tempo per insediarvi la stazione dei carabinieri e l’asilo infantile.
Ma non sarà più quel crocevia di cultura, economia e socialità che aveva animato la comunità locale per tre secoli quando la popolazione s’identificava nell’università (unione di tutti i cittadini) e gestiva direttamente i beni comuni. Approfondire i motivi di tale perdita e allargare l’indagine su altri aspetti della vita della nostra comunità può essere utile per comprendere le radici del deficit di spirito civico, le difficoltà nel campo dell’associazionismo e il rapporto complicato che si è in qualche modo cristallizzato tra cittadini e istituzioni.
Valeria Verrastro (a cura di), Il venerabile convento di Santo Antonio nella terra del Tito, Calice Editori, 2013