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I simboli della montagna

La simbologia della montagna costella molte tradizioni religiose; è presente nei testi sacri, nelle opere letterarie e nei classici della filosofia e della pedagogia. Nel corso dei secoli la montagna ha costituito anche un segno sociale e politico; e perfino alimentare. Un impasto di nostalgia, speranza e delusione. La montagna sembra immobile e immutabile. Ma non è vero: tutto cambia, anche le montagne cambiano, si tratta solo di velocità diverse

monte pollino pini loricati

Chi nelle propria vita non ha fatto l’esperienza di un’escursione in montagna? Ore e ore di marcia per poi tornare stanchissimi a valle per lo sforzo, ma felici e orgogliosi per avercela fatta.  Andare in montagna è come partire in pellegrinaggio verso un luogo sacro. Si prova la medesima emozione. Non a caso la simbologia della montagna costella molte tradizioni religiose. Nel racconto biblico s’incontrano undici montagne sante legate ad altrettanti episodi significativi: Ararat, il monte di Noè e del diluvio; Moriah, il monte sulla cui cima Abramo si appresta a sacrificare il figlio Isacco; Sinai, il monte dove Mosè riceve le tavole della legge; Nebo, dove Mosè muore dopo aver visto da quell’altura la Terra promessa; Carmelo, il monte di Elia; Sion, il monte di Davide e di Gerusalemme; il monte delle Beatitudini, che domina il lago di Tiberiade, dove Gesù pronuncia il discorso della Montagna; Hermon, il monte innevato nei pressi del fiume Giordano, dove Gesù affida a Pietro la sua Chiesa; Tabor, il monte della Trasfigurazione; Calvario, il monte sulla cui sommità viene piantata la croce di Cristo; il monte degli Ulivi, da dove Gesù ascende al cielo.

Cime letterarie

Alla montagna si richiama anche la “Divina Commedia” (1313-1321). Nel poema dantesco, infatti, l’Inferno è un monte cavo capovolto e il Purgatorio è descritto come una montagna a sette balze. Ma anche un altro grande poeta della letteratura italiana, Francesco Petrarca, si è lasciato suggestionare dalle alte vette, ascendendo con il fratello Gherardo al Mont Ventoux, posto nella Francia sud-orientale. Era il 26 aprile del 1336. Così racconta nella lettera scritta al padre: “C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il Figliuolo; perché non so dirti; se non forse per ironia, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e, qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi rivolgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo nel vedere coi miei occhi su un monte meno celebrato quanto avevo letto e udito di essi”.

Il valore educativo dell’ambiente

Bisognerà arrivare al Rinascimento per riscontrare le prime descrizioni della montagna alpina, come la “De Alpina Rhaetia” (1538) dello storico svizzero Aegidius Tschudi e “Vallesiae descriptionis libri duo et de Alpibus commentarius” (1574), opera dell’umanista, sempre svizzero, Josias Simler. Si tratta ancora di una serie molto confusa di osservazioni scientifiche, che portano in sé evidenti impronte medievali. Ma fioriscono in quel periodo anche studi di naturalisti, come Konrad von Gesner, che effettuò numerose escursioni nelle Alpi, per studiare flora e fauna, raccontate con dovizia di particolari nel suo taccuino di viaggio “Reisen in den Bergen” (1541).

Nel Settecento è Jean-Jacques Rousseau, anch’egli svizzero, a porre in evidenza il valore educativo dell’ambiente: una natura saggia che guida le sue creature secondo le sue leggi. Nell’opera “Giulia o la nuova Eloisa” (1761) descrive i monti del Valais, un cantone svizzero, coi suoi spettacoli che provocano piacevole orrore, dove il precettore Saint-Preux  si stabilisce per stare vicino a Giulia, la sua allieva, a cui riserva (come Berardo) un intenso amore ricambiato nonostante il divario sociale che divide i due amanti e l’opposizione del padre di lei. Una lettera del precettore a Clara, cugina e amica di Giulia, offre l’occasione a Rousseau di descrivere così l’affascinante paesaggio montano, che solo può – lontano  dalle convenzioni sociali – restituire la purezza ai sentimenti e la pace interiore: “…Quel giorno raggiunsi le montagne meno alte;  poi, percorrendone l’andamento diseguale, quelle più alte che m’erano più vicine… Lassù, nella purità dell’aria, riuscii a districare sensibilmente la vera cagione del mio umore mutato e del ritorno di quella pace interna che avevo smarrito da tanto tempo… Credo che nessuna violenta agitazione, possa resistere a un prolungato soggiorno lassù, e mi meraviglio che salutari bagni nell’aria benefica delle montagne non siano uno dei massimi rimedi della medicina e della morale…”. Ma è un poeta, medico e naturalista, Albrecht von Haller a scrivere in versi alessandrini il “Die Alpen” (1729), in cui canta la bontà e la virtù dei montanari, le loro occupazioni, la caccia al camoscio e il loro amore per la libertà.

Lo spirito romantico s’invola verso le vette

In pieno Romanticismo, il valore simbolico della montagna ha un’espressione altissima nel quarto atto del “Faust” (1831) di Goethe che è ambientato in Hochgebirg, cioè in alta montagna, sulle rigide vette di rupi dentate e auf dem Vorgebirg, sui contrafforti, mentre nel finale dell’ultimo atto, il quinto, si è in Bergschluchten, cioè gole montane, in un paesaggio di rupi e foreste popolate di santi anacoreti. È qui che si consuma il dissidio tra il dominio della tecnica e il paesaggio naturale, sconvolto dalla volontà di potenza dell’uomo. E non si possono tralasciare, per il forte spirito romantico che promanano, alcuni brani tratti dalle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” (1802) di Ugo Foscolo: “Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; sulle rupi dell’erta sedeano le nuvole… Nella terribile maestà della natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticati i suoi mali… Tutto, tutto quello ch’esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Caro amico! fra le rupi la morte mi era spavento; e all’ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno”.

Una descrizione molto suggestiva di una visione dall’alto la si trova poi nel romanzo “Tartarino sulle Alpi” (1885) di Alphonse Daudet: “Da là fin verso di loro si estendeva un panorama ammirevole, un degradare di campi di neve dorati, resi arancione dal sole, o di un azzurro profondo e freddo, un ammonticchiarsi di ghiacci bizzarramente strutturati a torri, a guglie, a pinnacoli, creste, rilievi giganteschi, da credere che sotto dormisse il mastodonte o il megaterio scomparsi. Tutte le tinte del prisma vi scherzavano, si riunivano nel letto di vasti ghiacciai che facevano scorrere le loro cascate immobili, incrociate con altri piccoli torrenti ghiacciati, le cui superfici più brillanti e più unite erano liquefatte dall’ardore del sole. Ma a grande altezza quello scintillìo si calmava, ondeggiava una luce, eclettica e fredda, che faceva tremare Tartarino così come la sensazione di silenzio e di solitudine di tutto quel bianco deserto dalle pieghe misteriose”.

Simbolo sociale e politico, ma perfino alimentare

Nel corso dei secoli, la montagna ha costituito anche un segno sociale e politico. Così, ad esempio, nella Convenzione nazionale francese del 1792-1795 il gruppo politico assiso sui banchi più elevati della sinistra dell’assemblea si denominò “La Montagne”, in opposizione al “Marais”, cioè alla palude dei centristi che sedevano in basso. E’ noto che i montagnardi riuscirono a prevalere almeno fino a quando rimase alta la stella di Robespierre, loro capofila. Inoltre, la montagna è stata anche un simbolo alimentare, una fuga dal paese della fame, una ricerca del paese di Cuccagna, cioè di un mondo dell’abbondanza e di piacere alimentare. E la scelta dei briganti meridionali di rifugiarsi in montagna per sfuggire prima ai Francesi e poi ai  Savoia fu, talvolta, anche un modo per interpretare e realizzare bisogni e sogni alimentari delle popolazioni. Non a caso la “Nuova Gerusalemme” (1202) di Gioacchino da Fiore e la “Città del Sole” (1602) di Tommaso Campanella, le grandi utopie, al limite tra fede ed eresia, che avevano alimentato le visioni mitiche dei contadini del Sud, erano collocate sui rilievi, luoghi ambiti di felicità e perfezione. Ma com’era fatta la Città del Sole? Fra’ Tommaso immagina la repubblica dei Solari nella forma piramidale del Purgatorio dantesco: “Sorge nell’ampia campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte… Essa è distinta in sette gironi grandissimi nominati dalli sette pianeti”.

Un impasto di nostalgia, speranza e delusione

Nel Novecento, la montagna intesa come metafora di un mondo mitico, sommerso e rimasto tuttavia vivo come nei segreti e nelle favole dei bambini, un mondo dove scienza e poesia si confondono, torna con “Gente in Aspromonte” (1930) di Corrado Alvaro. I pastori che discendono a valle sono portatori di un impasto di nostalgia, speranza e delusione, di forti sentimenti contrastanti. Amano il vecchio mondo contadino delle madri di un amore disperato e deluso, e il mondo moderno che li affascina ma nel contempo li respinge. Il breve romanzo alvariano, coevo di “Gli indifferenti” di Alberto Moravia e di “Fontamara” di Ignazio Silone, apre la nuova letteratura narrativa e quel senso cosmico del paesaggio della montagna calabrese descritto in quelle pagine non verrà più raggiunto nelle opere successive dell’autore.

Un profondo sentimento religioso ed etico

Sempre nel Novecento si torna anche ad una visione della montagna associata ad un sentire religioso o fortemente etico con Thomas Merton, uno scrittore convertitosi al cristianesimo nel 1938 e vissuto nella trappa del Gethsemani nel Kentucky (Usa). Egli intitolò la sua autobiografia spirituale proprio “The Seven Storey Mountain” (1948), tradotta in italiano nel 1950 come “La montagna dalle sette balze”, uno scritto divenuto popolare per l’immediatezza quasi diaristica di questa ascesa sul monte della contemplazione, vicenda sofferta e gloriosa al tempo stesso. Ma prima di lui è Thomas Mann a pubblicare nel 1924 un romanzo col titolo “La montagna incantata”, vera e propria parabola dell’Europa malata. Ambientata a Davos, in un sanatorio svizzero d’alta montagna, la trama vede il protagonista Hans Castorp approdare in quella clinica in visita al cugino malato. Ma una malattia, prima, e un fascino magico, poi, attanagliano anche Hans su quel monte per sette anni, fino al 1914, allorché lo scoppio della guerra lo induce a tornare in Germania. Quei sette anni sullo sfondo impervio dei monti si trasformano in una straordinaria avventura vitale: sboccia l’amore tra Hans e una degente e si sviluppano complessi dibattiti teorici tra un liberale italiano e un comunista ceco. Per ironia della sorte, il protagonista, convertito alla vita, torna dalla montagna incantata, regno di Venere e di Minerva, in un mondo in cui servire la vita significa servire con le armi, e dunque scompare alla vista del lettore avanzando oscillante nel fango di un campo di battaglia verso la morte.

Non c’è fissità, anche le montagne cambiano

Andando in vacanza ad alta quota, la montagna si presenta come un blocco immobile che diventa in qualche modo il nesso attorno al quale girano ininterrottamente esseri umani e animali, tutti perituri, ma tutti ricondotti alla memoria di un solo luogo fisso. Il tempo sembra fermo per la montagna mentre è vorticoso per le generazioni. Trae in inganno la nuda terra, una terra compatta senza erba né fiori né piante né corsi d’acqua, una terra oscura, sempre uguale a se stessa. Ma non è vero: tutto cambia, anche le montagne cambiano, si tratta solo di velocità diverse. Quello che conta – scrive Vittorio Foa nel bel libricino dal titolo “Sulle montagne” (2002) – è di avere consapevolezza di quello che cambia in fretta per impedire che cambi in peggio. Dall’alto delle montagne, quando andiamo lì a raccoglierci, è più facile percepire i mutamenti che avvengono a valle.

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