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I braccianti di don Tonino Bello

Per il vescovo salentino lo sviluppo presuppone necessariamente un’iniziativa contro i conservatorismi e per le riforme a tutti i livelli e in tutti gli ambienti: Stato, Chiesa, società civile. Ma poi va perseguito - qui è il succo del suo insegnamento - premettendo un percorso comunitario di coesione sociale, di educazione, di autoapprendimento collettivo. Altrimenti non si realizza alcuna modernizzazione. Oppure quella che appare tale, in realtà è priva di sviluppo

Toninobello

Don Tonino Bello era noto per la sua dedizione agli ultimi.  Quando ancora era parroco di Tricase, nel basso Salento, istituì la Caritas e promosse un osservatorio della povertà. Nominato vescovo della diocesi di Molfetta, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenze. Successivamente guidò il movimento cattolico internazionale per la pace Pax Christi e fondò la rivista mensile Mosaico di Pace.  Aveva 58 anni quando morì nel 1993, lasciando un vivido ricordo di sé nei territori dove aveva operato.

Don Tonino aveva studiato a Bologna nel seminario dell’Onarmo per la formazione dei cappellani del lavoro, dove era approdato nel 1953. Le materie di studio erano molteplici: pensiero sociale della Chiesa integrato con pastorale d’ambiente e teologia del lavoro, storia economica, psicologia individuale e sociale, sociologia industriale e generale, storia dei movimenti sindacali e delle organizzazioni operaie, elementi di medicina del lavoro, principi di diritto pubblico e del lavoro.  Non solo in aula, ma anche nelle fabbriche per mettere in pratica quello che si apprendeva.  Del Concilio Vaticano II ancora non si parlava e nella Bologna del cardinale Giacomo Lercaro già si facevano le cose in grande.

Nel 1954 esce il numero unico della Rivista dell’ONARMO che contiene un articolo di don Tonino intitolato “I braccianti di Puglia”. Un testo denso di annotazioni sulle condizioni  di questa categoria sociale molto diffusa nella sua terra d’origine: “Tra i proletari, i braccianti, senza dubbio, costituiscono oggi la categoria che si trova nella più disumana inferiorità sociale. L’instabilità del lavoro, l’incertezza di trovarlo anche quando è richiesto, la retribuzione meschina svantaggiano in modo evidente nei suoi più fondamentali diritti la personalità del bracciante”. Poi, parla delle misure che si stanno prendendo per venire incontro al disagio di questi suoi conterranei: “Vaste zone sono state scorporate a grandi latifondi; casette modeste, ma comode, sono state costruite; corsi di istruzione vengono impartiti per i braccianti stessi; numerosi cantieri di lavoro riducono, temporaneamente almeno, la disoccupazione; in ogni zona della Puglia si sono costituite le comunità braccianti, le quali, oltre al perseguimento di fini materiali, curano in modo particolare l’impostazione cristiana dei problemi del mondo bracciantile”.  E a questo punto si avverte l’impazienza del giovane seminarista, angosciato di raggiungere troppo tardi i luoghi dell’impegno pastorale che lo attende.  Scrive: “Il terreno pare proprio preparato per l’azione del sacerdote: ma i sacerdoti che si dedicano a questo campo d’apostolato in Puglia sono ancora pochi. Se giungiamo in ritardo c’è la possibilità che questa grande forza ci sfugga di mano”.

In questa pagina il giovane mostra già una piena consapevolezza delle trasformazioni che stanno avvenendo nella sua regione, a seguito dell’avvio della riforma agraria e dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno. E avverte l’urgenza di accompagnare i processi sociali mediante un’attività educativa e di intervento sociale per fare in modo che i valori della cultura contadina non si disperdano con una modernizzazione priva di sviluppo umano. Come, purtroppo, di lì a qualche anno avverrà.

La sua urgenza non è dettata dalla preoccupazione per i cambiamenti che stanno avvenendo. Non c’è nostalgia del passato. Egli prova ripulsa per le condizioni di miseria dei braccianti e vuole che escano da quelle catene e progrediscano. Lo scrive chiaramente in un’altra pagina in cui descrive le condizioni del basso Salento sul finire degli anni Trenta: “Una terra senza risorse. Bella nella patina ferrigna delle sue rocce. Splendida nel biancore dei suoi paesi. Malinconica nel contorcimento degli ulivi secolari. Struggente nella purezza del mare, e nel fulgore del suo biblico sole. Ma arida di piogge e di speranza. Geograficamente emarginata, era fatta fuori dalle grandi linee di comunicazione e di trasporto.  Con tutti i problemi che si accompagnano alla povertà provocata dallo strapotere degli altri. Priva di leaders capaci di interpretare  i bisogni, sembrava che gravassero sul suo popolo una certa quota di fatalismo, una punta di inerzia agli stimoli del cambio, un costume di assuefazione all’insicurezza e allo sfruttamento. Anche la Chiesa, sia pur animata da eccezionali figure di sacerdoti, non si distingueva certo per eccessi di audacia profetica (improponibile del resto a quei tempi) e, se non era complice del ristagno sociale, perlomeno si adattava senza troppi sussulti al ruolo della conservazione”.

È evidente in questi scritti di don Tonino la chiarezza di un approccio ai temi dello sviluppo che guarda alla crescita della persona umana nella sua integrità, tenendo unite le sue varie dimensioni:  la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità.  Secondo il suo pensiero, lo sviluppo presuppone necessariamente un’iniziativa contro i conservatorismi e per le riforme. A tutti i livelli e in tutti gli ambienti: Stato, Chiesa, società civile. Ma poi va perseguito – qui è il succo del suo insegnamento – premettendo un percorso comunitario di coesione sociale, di educazione, di autoapprendimento collettivo. Altrimenti non si realizza alcuna modernizzazione. Oppure quella che appare tale, in realtà è priva di sviluppo.

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