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Globalfederalismo

Se il PD e la sinistra europea avranno come obiettivo una Europa politica capace di guidare il processo di costruzione dello Stato sociale globalizzato, l'idea federalista potrà uscire dall'ambiguità e costituire la risposta alle spinte separatiste e populiste

mondo

L’esito del referendum sulla richiesta di maggiore autonomia delle regioni Lombardia e Veneto impone al PD una riflessione sul federalismo e su cosa fare concretamente per rispondere alle domande politiche poste dai cittadini di quest’area del Paese. Ma cosa significa “Stato federale”? Dobbiamo darci una “struttura federale” per “unirci meglio” o per “dividerci meglio”? C’è una confusione lessicale che nasce anche dalla scarsa consapevolezza dell’evoluzione dell’idea federalista in Italia.

C’è stato un periodo della nostra storia nazionale in cui l’idea federalista accomunava diverse culture politiche; un’idea che affondava le sue radici nel federalismo europeo delle repubbliche urbane e delle loro associazioni in età medievale. La motivazione che sorreggeva tale idea riguardava la posizione di debolezza che l’individuo aveva (e continua ad avere) nei confronti dello Stato moderno: uno Stato che spesso non garantisce le libertà, i diritti e i servizi essenziali e opprime, il più delle volte, le imprese e i cittadini con l’eccessivo prelievo fiscale, inibendone lo spirito d’iniziativa. Un’idea nobile e una motivazione di grande forza rimaste irrisolte nella coscienza e nel modo di pensare di tante persone.

C’è stato un gruppo di federalisti cattolici che nel 1943 fondò la rivista Il Cisalpino e che rimase in clandestinità fino al 1945. L’iniziativa s’inseriva nel solco tracciato da Giuseppe Toniolo in occasione del II Congresso cattolico italiano degli studiosi di scienze sociali, svoltosi a Padova nel 1896. In quella occasione, il fondatore della Settimana sociale dei cattolici italiani aveva evidenziato che le libertà di cui avevano goduto i Comuni nel medioevo erano dovute all’assenza dello Stato, che con la sua costituzione aveva avocato a sé quasi tutte le funzioni. Il programma massimo e minimo della democrazia cristiana, elaborato e presentato da Romolo Murri nel 1901, aveva aperto in modo diretto e concreto all’istanza autonomista, saldandosi alla concezione di Toniolo e superandola in senso democratico. Ma con Luigi Sturzo l’analisi autonomista dei cattolici era diventata “adulta” e da dottrinaria e teorica si era trasformata in pratica quotidiana nelle gestioni municipali. Il pensiero autonomista sturziano era stato poi sintetizzato nello scritto Nord e Sud. Decentramento e Federalismo del 1901 ed era confluito nell’Appello agli uomini liberi e forti con cui il sacerdote di Caltagirone, nel 1919, aveva dato vita al Partito popolare italiano.

C’è stato anche un federalismo gramsciano, nutritosi non solo con la peculiare cultura sardista dell’intellettuale comunista, ma anche, e soprattutto, con le letture di Salvemini e Dorso e con l’attenta osservazione dell’ingresso dei cattolici nella politica nazionale e della questione meridionale e di quella contadina. Nel 1926 quell’idea era poi confluìta nelle Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia.

C’è stata un’attenzione notevole del Partito socialista, fin dalla sua costituzione nel 1892, per la conquista degli enti locali e per l’affermazione di una linea autonomista fatta di realizzazioni e sperimentazioni. E ci sono stati filoni federalisti importanti nella cultura laica e liberale, da Cattaneo a Garibaldi, da Salvemini a Dorso, da Lussu a Einaudi, da Silvio Trentin a Gobetti. Un’idea che nel 1941 era stata fatta propria, in una visione europeista, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni con il “Manifesto di Ventotene”.

Allora la domanda è: se si arrivò alla Costituente con un siffatto retroterra politico e culturale, ampiamente favorevole ad una struttura federale dello Stato, come mai, nella stesura della Carta fondamentale, prevalsero la soluzione dello Stato unitario e una scelta regionalista debole?

Spinsero in direzione del mantenimento di strutture centralizzate dello Stato e verso forme di unificazione politica le vicende internazionali che seguirono la seconda guerra mondiale e la divisione del mondo in due. Sono state le appartenenze ideologiche derivanti dalla “guerra fredda” a frenare la scelta regionalista. Furono create delle strutture regionali deboli perché c’era una diffidenza reciproca tra gli schieramenti, che pure avevano trovato un compromesso nella prima parte della Costituzione.

Ma poi il Muro di Berlino è caduto e sono venute meno le motivazioni politiche dell’accentramento. Perché non si è andati speditamente verso un’organizzazione federale dello Stato?

In realtà, sono prevalse la confusione e la Babele di linguaggi. Con l’espressione “Stato federale” s’intendono cose diverse: la costruzione di uno Stato regionale ridotto a mero decentramento politico di tipo regionale; la secessione per costituire entità regionali sovrane per poi unirle con un patto federale. Ma l’ambiguità del linguaggio nasconde la crisi politica dello Stato moderno e delle sue categorie; una crisi che nasce dall’impossibilità dello Stato – con la globalizzazione e con la rivoluzione tecnologica in atto – di tenere insieme mercato e coesione sociale. La riforma regionalista del 2001 ha ingarbugliato la matassa, anziché districarla. L’ultima riforma costituzionale aveva previsto una razionalizzazione della materia, ma il referendum del 4 dicembre scorso l’ha bocciata. A livello europeo è sotto gli occhi di tutti la crisi dell’Unione monetaria ed economica. La quale, in assenza di una contestuale Unione politica, ha creato sovrapposizioni di competenze e strumenti e grivigli burocratici così odiosi, da alimentare un diffuso sentimento antieuropeista. Sicché, quello che dapprima s’identificava in un processo di integrazione si è nel tempo trasformato nel suo contrario: un vero e proprio processo di dis-integrazione.

Come riprendere ora il discorso? L’unico elemento che può dare certezza e porre nel giusto binario il tema del federalismo è l’obiettivo di costruire finalmente l’Unione politica europea. Un’Europa politica che si assuma il compito di guidare il processo di costruzione dello Stato sociale globalizzato, cioè del grande conpromesso tra mercato e socialità in una dimensione globale.

Se il PD e la sinistra mondiale assumono quest’orizzonte di senso, si può pensare ad una nuova architettura istituzionale senza più sovrapposizioni e confusioni di competenze e strumenti di intervento che generano conflitti, malessere e, quindi, spinte separatiste e populiste. Un’architettura istituzionale che preveda: a) l’individuazione di poche e ben definite competenze a livello europeo; b) il recupero di sovranità e la conseguente riorganizzazione degli stati nazionali in materie  su cui non ci dovranno più essere invasioni di campo da parte delle istituzioni europee; c) la costruzione di un regionalismo efficace individuando con precisione le materie di competenza regionale e le giuste dimensioni dei confini regionali. Il tutto all’insegna della lotta agli sprechi, di una maggiore efficienza delle istituzioni e di un fisco più equo. Un assetto federale che non divida ma unisca meglio il Paese in una Europa politica capace di guidare i processi in atto verso un equilibrio globale tra capitalismo e giustizia sociale.

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