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L'insediamento sparso fu la forma prevalentemente adottata dalla Riforma agraria, sostituendo i legami comunitari coi legami ideologici, familistici e clientelari, e non si raccolsero gli orientamenti che preferivano i borghi con funzioni non solo di servizio ma anche residenziali. Può essere utile, nel contesto odierno, reinventare i termini di quel dibattito per metterci in ascolto di comunità che si trasformano, cercano la loro sovranità, sviluppano la loro strategia digitale e vogliono rigenerare la democrazia
I poderi della Riforma agraria del 1950 assegnati ai contadini erano generalmente forniti di una casa colonica di nuova costruzione. Le case furono costruite con estrema decisione, tanto che già nei primi tre o quattro anni dall’inizio della Riforma oltre i due terzi delle nuove abitazioni occorrenti erano già state realizzate.
Ma c’è una spiegazione di quei tempi così rapidi: ogni cosa avveniva al di fuori di ogni progettualità urbanistica e senza la partecipazione delle persone beneficiarie. Fu così sciupata una grande occasione. Davvero un peccato, visto che il problema dell’insediamento, quale componente della questione più generale della trasformazione fondiaria e agraria dei latifondi, costituisse un tema di dibattito ancor prima delle leggi attuative della Riforma.
Il dibattito sull’insediamento degli assegnatari
A quella discussione aveva dato un notevole contributo Nallo Mazzocchi Alemanni – un valente tecnico della Cassa per il Mezzogiorno – fautore di un insediamento attraverso borghi con funzioni non solo di servizio ma anche residenziali per i contadini assegnatari o proprietari di piccole quote. Un insediamento da progettare – come egli auspicava – dopo aver svolto “indagini locali per afferrare il fenomeno nelle sue complesse differenziazioni” al fine di trovare soluzioni coerenti con la storia dei luoghi e “la psicologia degli abitanti”.
Se ne erano occupati anche Manlio Rossi-Doria e Gilberto Antonio Marselli con il “Gruppo di Portici”, Giorgio Ceriani-Sebregondi della SVIMEZ e Adriano Olivetti, nella veste di presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU). Fu proprio al Congresso dell’INU, che si svolse nel 1952 a Venezia, sulle esperienze di pianificazione regionale in Italia, l’occasione per un dibattito approfondito sull’insediamento nei comprensori di Riforma. Venne invitato Ceriani-Sebregondi a scrivere l’introduzione del volume degli atti. In essa, tra l’altro, partendo dal presupposto – che “la pluralità di soluzioni urbanistiche che si rendono necessarie in corrispondenza delle varie fasi di un processo di sviluppo regionale trovano riscontro nelle diversità di soluzioni che si richiedano per l’intervento in una zona piuttosto che in un’altra” e che “la necessità di rispondere alla duplice e, almeno apparentemente, contrastante esigenza della diffusione e della concentrazione degli investimenti ha sollecitato a riconoscere la fondamentale necessità di individuare, per ogni investimento, una precisa funzionalità rispetto al tutto, ossia di creare un nesso organico tra i vari elementi e aspetti dell’intervento”, egli giunge ad individuare tre fondamentali tipi di aree di intervento, rispettivamente definite di “sviluppo integrale”, di “sviluppo ulteriore” e di “sistemazione”. Nello scritto il dirigente della SVIMEZ attribuisce un particolare valore alla “presenza di forze sociali che coscientemente diventino portatrici degli interessi, non in quanto opposizione rivoluzionaria agli interessi dominanti, ma in quanto politicamente capaci di riuscire ad affermare linee generali di indirizzo all’azione di governo, democraticamente mature a far articolare l’intervento pubblico in rapporto alla varietà delle situazioni ambientali, ed efficaci nel suscitare nelle singole comunità iniziative delle popolazioni che concretino comportamenti morali, culturali e sociali di partecipazione alla realtà in sviluppo”.
La scelta verticistica dell’insediamento sparso
Tali riflessioni non ebbero alcuna ricaduta nell’azione degli enti di Riforma. Le forme dell’abitare furono decise a monte senza alcun coinvolgimento delle comunità che si stavano costituendo. E così passò la linea dell’individualismo più spinto nel modello di colonizzazione attuato: la formazione, cioè, di una piccola proprietà contadina autonoma anche nella forma dell’insediamento civile rappresentato dalla singola casa isolata in ciascun podere. Si costituivano nuove unità produttive ma non comunità rinnovate. Anzi, con l’intento esplicito di recidere ogni legame comunitario per sostituirlo con nuovi legami: ideologici, familistici, clientelari. Per questo ci furono inizialmente molti abbandoni di poderi da parte di coloni frettolosamente insediati su superfici esigue e su colline troppo ingrate.
Si rompeva con una tradizione di pensiero che da Carlo Cattaneo ad Arrigo Serpieri aveva affermato un principio importante: la coesione comunitaria è una premessa dello sviluppo, non il suo esito. Una rottura che Corrado Barberis ha raccontato così: “Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere. I molti tecnici emiliani e toscani attivi nei comprensori di Riforma avrebbero dovuto saperlo, anche per le esperienze della tentata colonizzazione del latifondo siciliano in periodo fascista. In parecchi casi il podere fu creato sulla mappa catastale ma non sul terreno, sia dove l’ordinamento rimase cerealicolo pastorale, sia anche in presenza di alcuni vigneti e oliveti e persino di colture ortive governabili dal borgo, grazie alla conquistata motorizzazione. Le aziende hanno tenuto assai meglio delle case, la trasformazione economica e sociale (nel senso dell’impresa) è stata senza paragone più importante rispetto alla trasformazione ecologica (nel senso dell’abitato)”.
Nelle polemiche politiche di quegli anni si argomentava che la scelta dell’insediamento sparso corrispondesse alla preoccupazione, da parte delle forze di governo, di attenuare nelle campagne meridionali la spinta politica dei nuovi ceti agricoli che venivano a formarsi. Così scriveva Marcello Fabbri in un articolo intitolato La città in campagna pubblicato nella rivista Nord e Sud n. 47 del 1958: “Gli abitanti sparsi nelle casette avrebbero trovato minori occasioni di incontrarsi, di intraprendere iniziative collettive, e idee, fatti, avvenimenti sarebbero giunti agli assegnatari attraverso il filtro dei borghi di servizio e dell’apparato ‘sociale’ dell’ente; solo così, in definitiva, la vita degli abitanti sarebbe stata molto più facilmente controllabile”.
Al di là delle polemiche calde del tempo, oggi appare del tutto evidente che la scelta quasi generalizzata dell’insediamento sparso costituì un grave errore strategico nell’azione di modifica dei rapporti fra popolazione e territorio: si ritenne di mantenere gli assegnatari in una condizione di isolamento rispetto agli altri cittadini che vivevano nei paesi, prosciugando una risorsa fondamentale del mondo rurale, costituita dalla socialità e dalla capacità di generare beni relazionali.
Le caratteristiche dei fabbricati colonici
Entrando più nel dettaglio dell’azione di insediamento, va rilevato che la spesa sostenuta per costruire le case coloniche fu senza dubbio la maggiore fra tutte quelle necessarie alla trasformazione fondiaria delle aree espropriate. I costi dei fabbricati furono contenuti nei limiti più bassi possibile, compatibilmente però con l’esigenza di assicurare la durevole stabilità, nonché di soddisfare le necessità essenziali per la vita della famiglia e per la coltivazione dei terreni.
Il criterio guida fu quello di progettare costruzioni di dimensioni ridotte, ma suscettibili di successivi ampliamenti per sovvenire ad eventuali necessità future, determinate da mutamenti di composizione della famiglia o da intensificazioni degli ordinamenti produttivi. E ciò non solo per una saggia parsimonia dei limitati finanziamenti disponibili, ma anche per il preciso obiettivo di impegnare lo stesso assegnatario in un progressivo miglioramento del fondo mediante quella capitalizzazione del suo lavoro che ha costituito, in effetti, frequente ragione di più tenace attaccamento alla propria terra.
Comunque ogni casa fu dotata fin dall’inizio degli annessi colonici indispensabili, quali il porcile, il pollaio, la concimaia, e fu provvista di acqua, mediante l’escavazione di pozzi, e la costruzione di cisterne, nei casi in cui non fu possibile l’approvvigionamento idrico mediante acquedotto.
Fu generalmente data la preferenza ai tipi di casa a due piani, particolarmente per quelle che dovevano essere di maggiore ampiezza in dipendenza delle caratteristiche del podere servito. Oltre al minor costo determinato da uno sviluppo minore delle fondazioni e della superficie coperta, esse consentirono, infatti, una più netta divisione tra abitazione al primo piano e locali per l’attività aziendale al piano terreno e assicurarono una maggiore difesa dall’umidità degli ambienti abitati dalla famiglia. Solo in particolari condizioni, specie nelle zone fortemente ventilate, si preferì la costruzione ad un solo piano per le case dei poderisti, mentre essa fu di norma quella adottata nelle piccole case dei quotisti.
La distribuzione interna dei nuovi ambienti fu tale da renderli indipendenti e funzionalmente connessi. Tutte le abitazioni furono dotate degli indispensabili servizi igienici. In particolare la stalla fu solo in alcuni casi inclusa in uno stesso corpo di fabbrica comprendente l’abitazione e i servizi; in altre fu costruita adiacente al fabbricato principale; in altre, infine, ne fu staccata, ma collegata a questo da un portico di rimessa per gli attrezzi agricoli e per il lavoro al coperto.
La cubatura complessiva dei fabbricati, sempre contenuta nei limiti strettamente occorrenti, variò però sensibilmente in rapporto al tipo ed alle caratteristiche dell’unità di assegnazione servita. Nel comprensorio maremmano, ad esempio, oscillò tra un minimo di mc 236 per le case di quotisti ed un massimo di mc 950 per le case poderali più grandi, fornite di cinque camere da letto e di stalla per 10 capi.
I vecchi edifici esistenti nei terreni espropriati furono accuratamente esaminati tanto sotto il profilo della loro sicurezza statica, quanto sotto quello della loro funzionalità e della convenienza del riattamento. Alcuni furono demoliti, altri restaurati, altri ampliati, altri, molto spaziosi, suddivisi in due o più unità abitative.
Tentativi di attenuazione degli inconvenienti dell’insediamento sparso
Nell’ubicazione delle nuove case furono, per quanto possibile, attenuati gli inconvenienti dell’insediamento sparso. Infatti, pur costruendo le case su singoli fondi, esse furono, ogni qualvolta le condizioni topografiche lo consentirono, allineate lungo strade interpoderali, sì da ridurre al minimo i costi per gli accessi ai singoli fabbricati e per il loro allacciamento ad elettrodotti ed acquedotti.
Quando la maglia poderale poteva, specie negli espropri pianeggianti di dimensioni maggiori, essere tracciata secondo un reticolato a riquadri di superficie pressoché costante, l’eccessivo isolamento delle abitazioni fu attenuato costruendole a gruppi di 3 o 4 sui crocicchi delle strade a servizio di più fondi. Fu così possibile l’impianto di un unico cantiere per ciascun nucleo di case ed anche di manufatti ad uso comune (forno da pane, lavatoio, abbeveratoio, ecc.) con evidente risparmio di costi.
In alcuni sporadici casi si ricorse alla costruzione di case multiple sostituite cioè da 3 o 4 unità abitative, dotate dei necessari locali aziendali, ma riunite in un solo corpo di fabbrica. Questa soluzione, che comportava sensibili risparmi di murature e quindi di costi non ebbe la diffusione che avrebbe meritata, malgrado che per la contiguità delle abitazioni consentisse, in prospettiva, una certa elasticità dimensionale: con il passaggio di uno o più vani dall’una all’altra qualora la variata composizione di due famiglie confinanti lo rendesse di reciproco interesse.
Analogamente, più funzionale sarebbe risultata la fusione di due o più unità di assegnazione in un’unica proprietà coltivatrice dotata di una più vasta casa, anziché di due o più case isolate. A queste considerazioni si opponeva tuttavia quella che le case isolate erano suscettibili di qualsiasi ampliamento in ogni direzione senza essere condizionate dalle abitazioni adiacenti e che l’immediato contatto con le varie dipendenze aziendali avrebbe potuto costituire – come già si è detto – una fonte di discordie, particolarmente per le attività di bassa corte.
La reinvenzione del dibattito sulle forme dell’abitare
Tornando a ragionare sul dibattito tra forme di insediamento sparso e forme di residenzialità rurale accentrate, il sociologo Achille Ardigò previde – in un saggio del 1965 intitolato Gli aspetti sociali e culturali del mondo contadino – che il tema delle forme dell’abitare sarebbe riemerso “a seguito della congestione dei centri urbani, della crescente disfunzionalità delle megalopoli, del senso di oppressione e del disagio delle famiglie urbane e del bisogno dei cittadini di un migliore rapporto con la campagna, con ambienti e valori che sono ad un tempo vilipesi ed esaltati”.
Noi stiamo vivendo il tempo preconizzato da Ardigò ed è sicuramente utile riprendere e reinventare, nel nuovo contesto della globalizzazione, delle migrazioni intensive e della rivoluzione digitale, i termini del dibattito degli anni Cinquanta del Novecento. Solo così, in territori non più né urbani né rurali ma dove gli elementi dell’urbanità si sovrappongono e si integrano con quelli della ruralità, potremo metterci in ascolto di comunità che si trasformano, restando se stesse, che cercano la loro sovranità, rimanendo aperte e connesse, che sviluppano la loro strategia digitale, coltivando la partecipazione fisica dei cittadini nelle piazze, che vogliono rigenerare la democrazia, partendo dalla loro dimensione di gruppi umani legati fisicamente da bisogni e desideri comuni.