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Comunicazione presentata a Matera, Palazzo Lanfranchi, il 16/17 settembre 2016, in occasione del Convegno sul tema “Verso una nuova agricoltura, sintesi di culture identitarie e turismo”, organizzato da Italia Nostra e Conaf
Gli organizzatori del Convegno hanno posto al centro del dibattito due quesiti: “È possibile e auspicabile ridefinire un nuovo ruolo dell’agricoltura contemporanea più a diretto contatto con le comunità dei territori rurali e dei centri urbani? Può servire una nuova normativa per l’agricoltura contemporanea come forma di cura e conoscenza del territorio e di diffusione di moduli di economia etica per le comunità e per la salvaguardia del paesaggio agrario?”
Per tentare di rispondere bene ai due quesiti, occorre leggere attentamente le trasformazioni avvenute nelle campagne e nell’agricoltura negli ultimi decenni e, nello stesso tempo, formulare con chiarezza i problemi che la nuova realtà pone.
Le trasformazioni delle campagne
Per quanto riguarda il primo aspetto, gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si sono ridimensionati e quelli che restano si sovrappongono e creano nuove differenziazioni.
Tali diversità non hanno nulla in comune con quelle precedenti e riguardano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso, uso e consumo dei beni, modelli alimentari, modelli di welfare, scelte etiche e multidealità relative alle motivazioni degli imprenditori. Queste nuove differenze possono convivere senza contrapporsi, dialogare e contaminarsi, in uno spirito di rispetto reciproco e cooperazione, educandoci ad un atteggiamento laico, cioè privo della pretesa di imporre le proprie convinzioni e intransigenze ad altri.
Anche altre polarità si sono fortemente attenuate fino a scomparire: centro e periferia, metropoli e aree interne hanno perduto i significati originari, dando vita a nuove entità policentriche e multi-identitarie. E le nuove entità sono molto differenziate tra loro, ma a segnarne la distinzione sono il capitale sociale, i beni relazionali, le reti di interconnessione e i legami comunitari.
Dal versante più propriamente economico-produttivo, le antiche distinzioni tra imprese agricole, imprese industriali e imprese di servizi si diradano e vengono sostituite da imprese intersettoriali: imprese a rete nel comparto alimentare e imprese di servizi sociali, culturali, educativi, ricreativi, ambientali, paesaggistici, in cui il connotato agricolo è fornito da elementi non tanto materiali quanto immateriali. Anche le forme associative si diversificano. E specie per i rapporti tra imprese e soggetti non imprenditoriali si avverte il bisogno di sdoganare e ammodernare gli antichi contratti associativi, non essendoci più i rapporti sociali gerarchizzati di un tempo. Il senso di marcia sembra essere un’evoluzione dell’agricoltura da attività fortemente connotata da elementi produttivistici a terziario civile innovativo.
L’agricoltura generatrice di comunità legate al territorio
La nuova ruralità evoca la nascita dell’agricoltura, avvenuta diecimila anni fa per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Si riallaccia ad un’agricoltura intesa come forma di vita collettiva, ambito di regolazione condivisa delle risorse ambientali comuni al fine di organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra fu inventata come servizio per poter abitare un territorio.
L’agricoltura, dunque, non nasce per produrre cibo, come oggi siamo portati a credere per effetto di una comunicazione superficiale e non fondata sulla cultura e sulla scienza. Il cibo già c’era ed era in abbondanza. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane che legano il proprio destino ad un determinato territorio. La stretta interconnessione tra agricoltura e cibo è figlia della visione produttivistica dell’attività primaria che si è affermata negli ultimi due secoli, a seguito dei processi di industrializzazione e di urbanizzazione. La nuova ruralità si fonda, invece, sull’idea antichissima che la terra debba essere abitata, coltivata e fatta continuamente rifiorire. “Abitare” vuol dire stare a stretto contatto con il proprio territorio, amando il proprio ambiente di vita. “Coltivare”, in ebraico abad, letteralmente significa “servire”. Coltivare è, dunque, servire la natura e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo.
Agricolture plurali, civili e multi-ideali
Accanto alle tradizionali agricolture scaturite dai processi di modernizzazione e dedite esclusivamente alla produzione “food” e “non food”, si sono reinventate multiformi agricolture di relazione e di comunità in cui le attività svolte sono intese come mezzo di incivilimento per migliorare il “ben vivere” delle persone. “Agricolture” perché molteplici sono le funzioni, le attività e i modelli che esse esprimono. Del resto, una configurazione plurale dell’agricoltura, dal punto di vista sia delle attività, che da quello dei soggetti che le esercitano non è una novità nemmeno sul piano giuridico. Infatti, essa è ben delineata dall’art. 39 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al paragrafo 2. E da tempo la legislazione agricola comunitaria ha oltrepassato la dimensione esclusivamente produttivistica dell’agricoltura.
Non solo esiste un “altro modo” di possedere la terra (la proprietà collettiva, oltre quella privata e pubblica), ma adesso si vanno imponendo (non solo nella realtà ma anche negli ordinamenti giuridici) “altri modi” di pensare all’agricoltura e ai soggetti che la praticano. Sono agricolture civili perché affondano le radici nella tradizione della scuola napoletana dell’economia civile di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. A differenza di Adam Smith, per questi pensatori il solo interesse personale non conduce automaticamente al buon funzionamento del mercato. Ci vuole anche una virtù civile fondamentale che consiste nel rispetto reciproco e nella coltivazione del bene comune.
Recentemente, queste agricolture sono state definite da Francesco Adornato “multi-ideali” e da Guido Turus “bioresistenze”. Esse infatti si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Con esse (ri)emerge un volto delle campagne che rimanda alle tradizioni di solidarietà e reciprocità delle antiche società rurali che avevano un forte senso della comunità e, su tale valore, imperniavano le regole d’uso e di possesso delle risorse.
Quali sono queste agricolture civili e multi-ideali? In letteratura le più citate sono quelle prese dall’esperienza statunitense: i mercati degli agricoltori, le cooperative di produttori, la community supported agriculture (agricoltura sostenuta dalla comunità), gli orti condivisi. In Italia, riguardano un ambito ancora più ampio e comprendono i “fazzoletti di terra” a fini di autoconsumo personale e familiare, le agricolture urbane, le filiere corte, la gestione dei demani civici e delle terre collettive, la tutela e la valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare, l’agriturismo e le diverse forme di agricoltura sociale praticate dalle imprese agricole e dalle cooperative sociali.
I problemi nuovi da affrontare
Le agricolture civili e multi-ideali pongono problemi nuovi che si possono così riassumere: a) abbattere alcune barriere normative; b) combattere una serie di pregiudizi; c) chiarire taluni fraintendimenti concettuali.
a) abbattere alcune barriere normative
Per quanto riguarda il quadro normativo, manca ancora un chiaro riconoscimento dell’impresa agricola di servizi. I servizi sociali, socio-sanitari, educativi, culturali e ricreativi offerti dalle imprese agricole sono ancora oggi attività considerate connesse a quelle di coltivazione e allevamento e non già attività agricole a tutti gli effetti. Questa barriera va abbattuta, passando al riconoscimento pieno delle agricolture plurali.
Ci aveva provato il gruppo di studio formato da alcuni docenti universitari di diritto agrario, insediato dal sottosegretario alle Politiche agricole, Roberto Borroni, nel 1998 che tentò di proporre una riforma organica del quadro normativo dell’agricoltura. Ma non si raggiunse una larga condivisione di fondo su quegli obiettivi di ammodernamento e gli atti della commissione, che aveva prodotto una relazione introduttiva e 59 articoli, andarono a finire in qualche faldone del ministero delle Politiche agricole.
Si manifestarono immediatamente forti resistenze ad una coraggiosa innovazione normativa e solamente alcune formulazioni proposte dalla Commissione Borroni poterono trovare spazio nel decreto legislativo n. 228 del 2001 e in quelli successivi. Quali novità furono introdotte nella nuova definizione di imprenditore agricolo? Il nuovo articolo 2135 del codice civile ha offerto un’interpretazione autentica a tutto quello che già la dottrina e la giurisprudenza avevano elaborato per adattare la vecchia norma alle trasformazioni avvenute nel settore. Si sono chiarite così alcune definizioni di attività sorte successivamente all’emanazione del Codice civile del 1942. D’altro canto, la nuova norma ha introdotto esplicitamente, tra le attività agricole, la fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola.
Viene, inoltre, confermata l’idea che l’imprenditore agricolo è un imprenditore in senso tecnico e non può mai essere un semplice operatore o produttore. All’imprenditore agricolo si applica la norma generale sull’imprenditore: è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Il carattere imprenditoriale è dato dal fatto che l’attività deve essere volta a remunerare i fattori produttivi. È escluso il carattere imprenditoriale dell’attività quando l’erogazione dei beni o servizi prodotti avviene in forma del tutto gratuita. È imprenditore agricolo chi produce beni o servizi per il mercato, indipendentemente dallo scopo di lucro.
A questa norma fa riferimento anche la legge n. 96 del 2006 che disciplina l’agriturismo. L’operatore agrituristico deve essere un imprenditore a tutti gli effetti. Ma per quanto riguarda la connessione tra la fornitura di servizi di ricezione e ospitalità e le attività propriamente agricole, introduce un criterio quantitativo di prevalenza – con particolare riferimento al tempo di lavoro – che non è previsto nell’art. 2135 del codice civile.
Al contrario, la legge n. 141 del 2015 sull’agricoltura sociale introduce due elementi di discontinuità. Il primo riguarda l’ampliamento della platea degli operatori dell’agricoltura sociale a soggetti imprenditoriali che svolgono solo in parte l’attività agricola di cui all’art. 2135 del codice civile: si tratta di quelle cooperative sociali il cui fatturato è solo parzialmente derivante dall’attività agricola. Il secondo elemento di discontinuità concerne il criterio della connessione dei servizi educativi, sociali e socio-sanitari: a differenza di quanto previsto dalla legge sull’agriturismo, per questa tipologia di servizi svolti dall’imprenditore agricolo, la connessione non è legata al principio della prevalenza.
Questa scelta operata dal legislatore non è avvenuta in modo estemporaneo e inconsapevole ma è un risultato importante conseguito dalle reti di agricoltura sociale nel confronto con le Commissioni parlamentari. Si è scongiurata l’indicazione di un criterio quantitativo di valutazione della connessione. La connessione si ha con il semplice congiungimento da parte dell’imprenditore agricolo dei servizi educativi, sociali e socio-sanitari con le attività tradizionalmente considerate agricole dalle normative già in vigore. Si recupera così un’idea che già negli anni ’80 alcuni studiosi avevano avanzato: quella di accostare all’impresa agricola di coltivazione, allevamento e silvicoltura, l’impresa agricola di servizi.
Se non è la prevalenza dell’attività di coltivazione, allevamento e silvicoltura a caratterizzare i servizi erogati dall’impresa agricola sociale, l’unico elemento che resterebbe da valutare sembrerebbe essere il connotato “agricolo” della modalità di svolgimento delle attività di agricoltura sociale. Anche qui, ad evitare il rischio di imporre a queste attività strettoie burocratiche e complicati criteri valutativi, il legislatore dell’agricoltura sociale è stato previdente. E nel definire le attività sociali ha efficacemente utilizzato siffatta espressione: “prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura”. È scomparso così l’aggettivo “prevalente” accanto alla parola “utilizzazione”. Non c’è più l’avverbio “normalmente” per connotare l’impiego delle attrezzature e delle risorse nelle attività agricole. E appaiono due nuovi aggettivi a caratterizzare le risorse aziendali impiegate: “materiali” e “immateriali”. Sicché, il connotato “agricolo” delle attività dei servizi educativi, sociali e socio-sanitari va ricercato, più che nelle attuali attività di coltivazione, allevamento e silvicoltura, nella qualità delle partnership e delle collaborazioni, nella reinvenzione della cultura agricola e rurale locale, nel rilancio in forme moderne delle pratiche solidali tradizionali e dei beni relazionali propri dei territori rurali.
La strada sembra, dunque, abbastanza spianata per introdurre norme che riguardino la fornitura di servizi di cura del paesaggio e di conoscenza del territorio svincolate da criteri di prevalenza e rientranti tra le attività agricole. Anche queste attività, per essere economicamente sostenibili, dovrebbero essere svolte da soggetti imprenditoriali in grado di organizzare e vendere servizi a soggetti pubblici o privati. Non si tratta, dunque, di introdurre e definire nuovi soggetti ma una funzione che viene ad aggiungersi e a qualificare soggetti già esistenti che, in parte, la svolgono senza un riconoscimento giuridico da parte della società e delle istituzioni.
Questo non significa che altri soggetti non imprenditoriali non debbano partecipare attivamente all’organizzazione dei servizi di cura del paesaggio e di conoscenza del territorio. Ma questo dovrebbe avvenire mediante le giuste forme di collaborazione tra le imprese agricole e l’associazionismo dei cittadini, facendo interagire motivazioni, competenze, conoscenze ed esperienze diverse.
b) combattere una serie di pregiudizi
L’altro problema da superare è il pregiudizio verso l’impresa e il mercato considerati elementi incompatibili con l’etica. Una delle dicotomie che la cultura occidentale si porta dietro da secoli e che crea tanti problemi alla nostra vita è, infatti, quella che oppone il dono al mercato, la gratuità al doveroso. Le conseguenze sono gravi perché portano a considerare la gratuità come una faccenda estranea alla vita economica normale e ad “appaltare” il dono a settori per specialisti, come il “non profit”, il volontariato o la filantropia. Ma il tutto è frutto di un pregiudizio. L’economista Luigino Bruni ha scritto su questo pensiero riposto pagine molto intense e persuasive per confutarlo. È ancora oggi opinione diffusa ritenere che il dono non debba essere contaminato da pratiche mercantili e il mercato non debba essere indebolito e snaturato con pratiche di dono, pena il danno per entrambi i mondi. Un pregiudizio – spiega Bruni – che impedisce alla giustizia di espandersi e dare i suoi frutti. Un mercato senza gratuità diventa, invero, semplice gioco speculativo e respinge la vera innovazione. Un dono che rifugge dai contratti e combatte la reciprocità tra equivalenti e il doveroso delle regole diventa il “gratis”, lo “sconto”, lo “straordinario”, il “superfluo” che presto si tramutano in “non necessario” e persino in “inutile”.
Come tutti i pregiudizi, anche questo ne genera altri, tra cui la dicotomia competizione / collaborazione; dicotomia che, in molte realtà imprenditoriali, non esiste. Un’economia civile, generativa e feconda, non può che nascere dalla varietà, dalla diversità, dalla multi-idealità, dalla promiscuità e dalle contaminazioni tra realtà diverse. Già oggi il mercato e la gratuità, da una parte, e la competizione e la collaborazione, dall’altra, sono facce della stessa buona vita comune. Basta guardarsi intorno per notare che la gran parte delle imprese sono mosse da obiettivi diversi (sociali, relazionali, ideali, simbolici), e non solo dai profitti. E questa caratteristica non pregiudica affatto il loro essere imprese di mercato a tutti gli effetti. La loro valenza non solo “for profit” non comporta affatto che siano destinate, inesorabilmente, a soccombere nel mercato globale.
c) chiarire taluni fraintendimenti concettuali
Infine, occorre sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti concettuali: la multifunzionalità dell’agricoltura non è in antitesi con la competitività; la filiera corta può benissimo convivere con l’internazionalizzazione delle imprese perché la prossimità non si ha solo quando l’esperienza del rapporto produttore/consumatore avviene nel medesimo territorio ma può essere realizzato anche tra comunità lontane che però, attraverso le tecnologie digitali, costruiscono relazioni intime, cioè collaborative; la gran parte dei demani comunali non sono di proprietà dei comuni ma sono proprietà delle popolazioni, cioè proprietà collettive, e dovrebbero essere gestite da amministrazioni separate, elette dai cittadini appositamente per organizzare servizi alle popolazioni locali.
Le agricolture di relazione che erogano servizi sociali, culturali, ricreativi, ambientali alle persone e alle comunità non vanno concepite come una nuova arcadia, distinta e separata, a cui aggrapparsi per poterci difendere dai rischi della modernità e della globalizzazione. Idealità e mercato, collaborazione e competizione, responsabilità e sostenibilità economica non sono coppie di termini in conflitto tra loro. Bensì binomi bisognosi di nuove sintesi. Le piccole aziende agricole che producono soltanto alimenti sono mediamente insostenibili dal punto di vista economico. Le può condurre soltanto chi ha altre fonti di reddito per vivere. Il futuro delle campagne sta nella sostenibilità globale, nell’agricoltura di servizi (quella a 360 gradi e non misurabile con bilancini quantitativi: servizi alle persone e alle comunità, servizi alle imprese, turismo rurale, artigianato artistico, produzioni bioenergetiche, ecc.) da re-inventare non in modo isolato e autoreferenziale, bensì in contesti di sviluppo locale comunitario, autopropulsivo, collaborativo e generativo. Percorsi che non possono essere lasciati alla spontaneità degli agricoltori e che presuppongono un’azione condivisa e partecipata della società civile e dell’ente locale di prossimità.
Anche l’idea di prossimità va chiarita. Nelle culture che si sono succedute e contaminate nell’area del Mediterraneo, l’idea di vicinato e di prossimità non ha mai avuto a che fare con la geografia o con le appartenenze di qualsiasi tipo, ma sempre coi doveri di reciprocità nei confronti degli altri. Nelle culture che si sono formate intorno al “Mare Nostrum”, prossimo è colui che si prende cura e si fa carico dell’altro, indipendentemente dalle distanze fisiche e dai legami etnici, politici, religiosi e culturali. Prossimo non ha nulla a che vedere con il chilometro zero o il chilometro mille, con il brand di un’associazione o con quello di un’altra, con la bandiera di una nazione o con l’emblema di un’altra, ma ha a che fare con il grado di “intimità” o superficialità delle relazioni che le persone, le imprese e le comunità costruiscono tra di loro per convivere e collaborare.
Le tecnologie digitali oggi fanno miracoli nel permettere la costruzione di relazioni “intime” tra imprese e territori di regioni e Paesi anche molto lontani. L’applicazione di tali ritrovati tecnologici consentirebbe di cogliere meglio le opportunità della globalizzazione. Non c’è contraddizione tra reti di imprese che guardano ai mercati internazionali e filiere corte. Entrambe le forme possono coesistere e interagire per mettere radici nei territori e allungare i rami verso il mondo.
Infine, va chiarito l’equivoco dei demani civici e delle proprietà collettive. Essi costituiscono un patrimonio fondiario che non appartiene né allo Stato, né alle Regioni, né agli enti locali anche se talvolta è imputato catastalmente ai Comuni. Sono beni di proprietà delle collettività locali. Le proprietà collettive sono beni e diritti inalienabili, indivisibili, inusucapibili, imprescrittibili. Il loro uso non può essere per alcuna ragione modificato. Sono diritti reali di cui i residenti godono da tempi immemorabili e continueranno a godere per sempre ma in comune – cioè senza divisione per quote – per ritrarre dalla terra le utilità essenziali per la vita. A seconda dei territori in cui sono presenti, le proprietà collettive vengono variamente denominate: “associazioni degli antichi originari”, “cantoni”, “vicinìe”, “vicinanze”, “consorterie”, “consorzi”, “consortele”, “regole”, “interessenze”, “partecipanze”, “comunaglie”, “comunanze”, “università agrarie”. Nei territori dell’ex Regno di Napoli, nella Sicilia e nella Sardegna le terre di uso collettivo sono di proprietà comune della generalità dei cittadini del Comune o delle frazioni che separatamente le amministrano e vengono denominate “demani comunali”. Gli enti che gestivano le terre collettive originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane. Non costituivano mai solo comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita.
Nel Centro-Nord il patrimonio collettivo viene normalmente gestito da un ente dotato di personalità giuridica. Nell’Italia meridionale e insulare viene, invece, gestito dai Comuni e si è fatto di tutto per dimenticare la sua origine. Tuttavia, oggi costituisce un’opportunità per formare una nuova società civile da responsabilizzare nella gestione sostenibile di fondamentali beni comuni. Per questo tale patrimonio non dovrebbe essere privatizzato nemmeno nella forma dell’assegnazione ad associazioni private.
In base alle normative vigenti (nazionali e regionali), tale patrimonio può essere disgiunto dalla gestione dei Comuni e gestito dall’A.S.B.U.C. (Amministrazione Separata dei Beni Uso Civico). Promuovendo e formando amministratori di beni comuni che non rispondano a logiche partitiche o proprie della pubblica amministrazione, ma direttamente ai cittadini che li eleggono ogni quattro anni per quella determinata finalità, forse si potrà contribuire a creare una nuova classe dirigente locale. Bisognerebbe scommetterci per generare benessere, valorizzare risorse naturali e rivitalizzare capitale sociale
Sperimentando una varietà di istituti giuridici che vanno dall’A.S.B.U.C. alle cooperative di comunità e alle fondazioni di partecipazione, si potrebbe fare in modo che il protagonismo delle comunità-territori poggi su una platea la più ampia possibile. In tal modo, si potrà transitare dalla proprietà pubblica a quella collettiva, reinventando, in forme moderne, la gloriosa tradizione giuridica delle terre collettive e degli usi civici. Qualora si rilanciasse questa forma di possesso della terra, si potrebbe pensare a incentivi fiscali per favorire la confluenza di appezzamenti di terra abbandonati di proprietà privata nelle gestoni collettive per riattivarne l’utilizzo a beneficio delle popolazioni locali. In particolare, andrebbe promossa l’A.S.B.U.C. che è un’entità organizzata, distinta dal Comune e appositamente costituita per la gestione separata delle terre collettive e per la loro valorizzazione e fruizione sociale. In base alla normativa vigente, il comitato per gestire l’A.S.B.U.C. è composto di cinque membri e dura in carica quattro anni. Esso viene eletto dalla generalità dei cittadini residenti nel Comune dove è situato il bene. Per avviare un’A.S.B.U.C. occorre costituire un comitato promotore (in media sono sufficienti cinque persone) che si faccia carico di interagire con l’amministrazione comunale e coi competenti uffici regionali al fine di trasmettere al Prefetto la richiesta di adozione del decreto per l’indizione delle elezioni comunali.
La nuova ruralità e l’imprenditoria multi-ideale dell’agricoltura, interagendo in modo virtuoso, contribuiscono a dare centralità alla responsabilità e alla partecipazione come categorie sociali capaci di rompere definitivamente il circolo vizioso della cultura della dipendenza e della delega e di realizzare concretamente processi di autonomia ed emancipazione delle realtà locali. È dunque un’opportunità per le amministrazioni locali che dovrebbero acquisire una più spiccata capacità di programmare gli interventi e di promuovere e accompagnare i percorsi progettuali partecipativi “dal basso” in cui integrare obiettivi di sviluppo sostenibile, inclusione sociale, tutela e valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche, rigenerazione urbana, riconversione ecologica, e finalità delle azioni riguardanti la promozione dell’agricoltura sociale e la gestione dei rifiuti per riciclaggio e riuso. Si tratta di formalizzare tali percorsi mediante la metodologia della ricerca-azione, producendo così un’innovazione sociale derivante da un’osmosi orizzontale e circolare tra conoscenza scientifica, saperi esperienziali comunitari e azione politica e amministrativa.
Il recente terremoto nell’Italia centrale ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la drammatica situazione dell’”osso” italiano, dove è in atto un accelerato processo di spopolamento con conseguenze potenzialmente minacciose, dal punto di vista idrogeologico, a danno delle pianure sottostanti. Sarebbe una proposta lungimirante e incoraggiante quella di favorire un’accoglienza delle comunità provenienti da paesi extra-europei nelle aree interne, per ricreare in forme moderne quell’equilibrio tra insediamenti umani e risorse che costituisce la condizione ineludibile per la tutela del paesaggio agrario e la manutenzione continua del territorio.