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È un errore porsi sulla difensiva. Il taglio della Pac ci sarà comunque se non si propongono profonde correzioni alla politica attuale. E la ri-nazionalizzazione è già nelle cose
Il 23 febbraio scorso si è tenuto a Bruxelles il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue, il primo del 2018. Non doveva decidere niente. All’ordine del giorno c’era solo l’avvio della discussione sulle prospettive istituzionali e finanziarie dell’Europa post 2020. Una discussione complessa da seguire in modo consapevole.
Le sfide da affrontare sono molteplici: battere i populismi e fermare le ventate antieuropeiste; quietare le insicurezze socio-economiche; gestire le ondate migratorie; contenere derive autoritarie e scarso rispetto dei valori europei in alcuni Governi dell’Est; farsi carico dei nuovi oneri in materia di difesa e sicurezza dopo l’avvento dell’”America First” di Donald Trump; rilanciare l’economia investendo in conoscenza e sviluppo sostenibile; essere protagonisti credibili ed efficaci nel nuovo mondo globalizzato. Queste sfide richiedono riforme significative a partire da una nuova quadratura finanziaria.
Per ora solo Francia, Germania e Italia hanno messo in comune alcune ipotesi di soluzione. Quella più nota è la cosiddetta “Europa a più velocità”, attraverso una “cooperazione rafforzata” tra quei Paesi che ritengono necessario costruire nuove politiche comuni, come le migrazioni, la difesa, la sicurezza, la ricerca, l’innovazione e la competitività. Ed è per questo che Emmanuel Macron e Angela Merkel si sono a lungo mostrati ai fotografi in compagnia di Paolo Gentiloni. Sulla leadership condivisa di questi tre Paesi ricade, infatti, l’onere di dare l’impulso nella fase di transizione che si è aperta. E per confermare tale leadership comune sarà determinante il risultato positivo del PD e delle forze europeiste alle prossime elezioni politiche in Italia. Come sarà decisivo il consenso alla “grande coalizione” al referendum tra gli iscritti del Partito socialdemocratico tedesco.
I contrasti
L’Ue è profondamente spaccata tra Est e Ovest. E, poi, all’interno del fronte occidentale, tra Sud e Nord. Ad Ovest alcuni Stati (Francia, Germania e Italia) ritengono di dover condizionare l’erogazione dei fondi Ue di coesione (di cui i Paesi dell’Est sono i grandi beneficiari) all’accoglienza dei rifugiati in nome del principio della solidarietà condivisa, nonché al rispetto dei principi fondamentali dell’Ue (come l’indipendenza della magistratura e la libertà d’espressione) e delle regole di governance europea (come il patto di stabilità). A questa linea si oppongono fermamente Polonia e Ungheria, spalleggiate dall’intero Gruppo di Visegrad.
Ma anche sul versante occidentale c’è una frattura che si annuncia lacerante. La Germania si è detta pronta a fronteggiare i nuovi oneri e responsabilità comuni aumentando il budget comunitario con ulteriori esborsi. La Francia e l’Italia per ora temporeggiano. Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia, Belgio e Lussemburgo sono nettamente contrarie a tale prospettiva. In che modo allora si potranno finanziare le nuove politiche comuni? E come i nuovi oneri si potranno conciliare coi finanziamenti delle politiche tradizionali (Pac e coesione)?
L’inadeguatezza degli Stati nazionali
Se osserviamo le uscite dell’attuale bilancio dell’Ue, notiamo che quasi il 39% serve a sostenere l’agricoltura e la pesca; il 34% è investito nelle regioni meno favorite per stimolarne la crescita (compreso il nostro Mezzogiorno); il 13% supporta l’innovazione e le reti (trasporti, energia, telecomunicazioni); il restante 14% va a iniziative, come la gestione dei migranti, gli aiuti umanitari ai Paesi in via di sviluppo (specie in Africa), la sicurezza del cibo, la politica estera. Per realizzare queste politiche l’Ue dispone ogni anno di 155 miliardi.
Per comprendere bene di cosa stiamo parlando, va notato che l’insieme della spesa dei governi nazionali è di 40 volte superiore (6.900 miliardi) alla spesa comunitaria. Le entrate del bilancio Ue sono, attualmente, alimentate soprattutto dalle contribuzioni degli Stati in proporzione alla loro prosperità (misurata dal reddito nazionale lordo, Rnl), ai quali si aggiungono una minima parte dell’Iva pagata in Europa (circa l’1%) e il gettito dei dazi sui beni importati da Paesi extra-Ue. In totale, il bilancio dell’Unione, nel periodo in corso 2014-2020, è pari a circa l’1% della somma dei Rnl dei diversi Stati membri.
La spesa pubblica europea (cioè dell’Ue e dei governi nazionali) è la più grande del mondo, perché è la percentuale più alta del mondo del pil più grande del mondo. Ma il 99% di questa enorme quantità di ricchezza è gestito dagli Stati nazionali, ossia ad una scala dimensionale sub-ottimale, strutturalmente inadeguata a fornire risposte ai problemi primari dei popoli: difesa e sicurezza, crescita e occupazione.
Negli Usa, la seconda spesa pubblica più grande del mondo è gestita per metà a livello federale. È questa sfasatura la principale ragione del populismo e del suo diffondersi in tutta Europa. La colla populista che tiene insieme i sovranisti è il rifiuto della burocrazia europea. Ma pochissimi sanno che il personale amministrativo che lavora per la Commissione europea (che gestisce le politiche che coinvolgono mezzo miliardo di abitanti) è poco più della metà di quello che lavora per il Comune di Roma (le cui politiche coinvolgono meno di tre milioni di abitanti).
Il contribuente europeo è, infatti, quello che paga al prezzo più alto un controvalore che non contempla, se non in modo poco più che simbolico, beni comuni essenziali, da sempre considerate funzioni primarie della sovranità, a cominciare dalla sicurezza e dalla difesa. In cambio di una tassazione elevata, ottiene, è vero, il welfare più ampio del mondo, ma anche questa conquista gli appare in ritirata e in declino.
Prima la sovranità dell’Europa
Il populismo propone di tornare indietro, di ripristinare la condizione nella quale lo Stato nazionale deteneva il sostanziale monopolio della sovranità. Questa risposta è tanto efficace sul piano comunicativo, di costruzione del consenso, quanto controproducente su quello dei possibili suoi effetti: perché se i problemi hanno acquisito una scala dimensionale sovranazionale non c’è, non può esserci nessuna via d’uscita nel ripristino, o anche solo nella difesa a oltranza di una sovranità ormai svuotata di potere reale.
È il tipico comportamento irrazionale della folla che, dinanzi a un pericolo o ad una minaccia, si abbandona al panico e finisce così per ingigantire gli effetti del problema dinanzi al quale si trova. Di qui la necessità che una leadership condivisa di Francia, Germania e Italia guidi il processo di costruzione della nuova Europa, superando i veti interni soprattutto dei Paesi antieuropeisti a cui guardano i nostri populisti. E i timori e le vere resistenze al cambiamento si annidano anche all’interno delle forze politiche europeiste. È inquietante, ad esempio, la posizione espressa in questi giorni dal vice presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Paolo De Castro: “Forzare la mano per riformare la Pac in pochi mesi è quanto meno azzardato – ha dichiarato in Commissione – non c’è alcuna possibilità di giungere ad un accordo entro questa legislatura e i rischi andrebbero da un forte taglio di bilancio per i nostri agricoltori alla ri-nazionalizzazione delle misure”. Eppure a De Castro non dovrebbe sfuggire che il taglio ci sarà comunque se non si propongono profonde correzioni alla Pac attuale e che la ri-nazionalizzazione è già nelle cose. A seguito dell’ultima riforma, la Pac risulta meno “comune” che nel passato. Lo afferma senza mezzi termini una relazione informativa del Cese “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti” (relatore Mario Campli) trasmessa alle istituzioni europee. Lo studio del Cese rileva che la riforma prevedeva settanta opzioni delegate agli Stati membri. E tali opzioni così numerose erano l’esito della defaticante procedura di co-decisione (Consiglio – Parlamento) dei regolamenti comunitari. Per salvare la Pac bisogna avere il coraggio di individuare con chiarezza gli interventi effettivamente e necessariamente da ritenere comuni. Tutto quello che può essere più propriamente deciso dagli Stati membri dev’essere scorporato e lasciato alla loro competenza.
Per una Pac sdoppiata
Nei trattati, l’unione doganale, la politica commerciale comune e la conclusione di accordi internazionali sono chiaramente individuate come competenze esclusive dell’Unione. In materia di sicurezza degli alimenti, gli Stati membri hanno, nel tempo, attribuito all’Unione Europea una serie di competenze delimitate in modo abbastanza lindo, le quali rispondono a due obiettivi ben specificati: 1) proteggere la salute umana e gli interessi dei consumatori; 2) favorire il corretto funzionamento del mercato unico europeo. In tale quadro, l’Unione Europea provvede affinché siano definite (e rispettate) norme di controllo nei settori dell’igiene dei prodotti alimentari e dei mangimi, della salute animale e vegetale e della prevenzione della contaminazione degli alimenti da sostanze esterne. L’Unione Europea disciplina altresì l’etichettatura dei generi alimentari e dei mangimi. Tali competenze è bene che continuino ad essere attribuite al livello istituzionale europeo per l’insieme dei 27 Paesi dell’Unione.
Per la materia agricoltura occorre, invece, uno sdoppiamento. Andrebbero estrapolate dall’attuale Pac quelle competenze che si legano effettivamente ad obiettivi raggiungibili esclusivamente mediante una politica comune. Tutte le altre competenze andrebbero attribuite esplicitamente agli Stati membri per il semplice motivo che solo questi possono effettivamente governare la convivenza virtuosa e non conflittuale della pluralità delle agricolture europee.
La Pac andrebbe, pertanto, fortemente semplificata e ridotta ad alcuni interventi essenziali e configurabili come effettiva politica comune: 1) sostegno e coordinamento del sistema della conoscenza e dell’innovazione nelle molteplici agricolture europee; 2) sostegno del sistema assicurativo per gestire i rischi degli agricoltori derivanti dalla volatilità dei prezzi e dai cambiamenti climatici; 3) coordinamento tra i primi due interventi e le altre politiche comuni. I suddetti interventi dovrebbero essere riservati esclusivamente ai Paesi dell’Eurozona con risorse finanziarie adeguate alle necessità.
Una scelta incentrata sulla conoscenza, sul capitale umano e sull’innovazione comporta l’integrazione dello sviluppo rurale nella politica regionale. Lo sviluppo rurale ha svolto finora la funzione di trattenere nell’ambito della Pac i sostegni agli investimenti. Ma questi, per essere efficaci, dovrebbero essere destinati non più agli agricoltori bensì ai sistemi territoriali, in cui le molteplici agricolture s’intrecciano con gli altri settori produttivi e coi sistemi di welfare. È il tempo delle scelte coraggiose e non dei veti e dei rinvii.