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Dare un’identità e un progetto al PD

La nostra identità originaria è stata sconfitta ben tre volte per un'insufficienza di riformismo e non per un suo eccesso. Ma questa volta non dobbiamo ripiegarci. Indipendentemente dalle nostre volontà, il congresso è stato aperto dagli elettori. E le alternative che abbiamo dinanzi a noi restano due

pd-europee

Noi democratici dobbiamo decidere una volta per tutte cosa vogliamo essere in questo nuovo secolo. Il PD è nato dieci anni fa come partito riformista a vocazione maggioritaria che ha i suoi punti di riferimento internazionali nelle forze che si riconoscono nella società aperta e accettano le sfide della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione, agendo, con la politica, per riformare le istituzioni nazionali e costruire nuove sedi globali dove stabilire nuove regole e realizzare nuove politiche.

Questa identità di partito è stata sconfitta tre volte non perché era sbagliata ma perché era accompagnata da un’insufficienza di riformismo e non da un suo eccesso.

La prima volta, il 17 febbraio 2009, quando Walter Veltroni si dimise ed ebbe timore di ricandidarsi e accentuare ulteriormente l’originario profilo programmatico riformista del PD.

La seconda volta, il 4 dicembre 2016, quando perdemmo al referendum costituzionale e da allora abbiamo rinunciato ad innalzare la bandiera di una profonda riforma dell’assetto istituzionale del paese, senza la quale non siamo credibili in Europa come soggetti capaci di mantenere i nostri impegni e di negoziare nuove istituzioni europee.

La terza volta, il 4 marzo scorso, in uno scenario internazionale completamente mutato, dopo la Brexit, la vittoria di Trump, la costituzione del gruppo sovranista di Visegrad e del raggruppamento euroscettico del Nord Europa.

Nel nuovo scenario i nostri punti di riferimento dovrebbero essere Emmanuel Macron, con la sua proposta di riformismo radicale delle istituzioni europee, e la nuova grande coalizione in Germania, sorta questa volta su una piattaforma dichiaratamente europeista. Ma questa scelta consapevole il PD non dimostra ancora di averla compiuta.

Siamo stati sconfitti in tutti questi anni perché non abbiamo trasmesso l’immagine di grande forza dotata di un progetto di rinnovamento dell’Italia e dell’Europa. E non siamo stati in grado di trasmettere tale immagine semplicemente perché questo progetto non c’è.

“Le cento cose fatte e le cento cose da fare” – su cui abbiamo svolto la campagna elettorale – non avevano alcun collante progettuale in cui riconoscersi. Un progetto che vuole coniugare Europa unita, riforme istituzionali, valorizzazione del merito e risposta ai bisogni sociali di chi è in grave difficoltà, non può infatti ridursi alla mera sommatoria di tante misure (ciascuna di essa sicuramente buona in sé) ma non in grado di far comprendere la direzione di marcia del cambiamento e la visione del mondo che proponiamo.

A questo grave limite si accompagna l’incapacità di mostrarci come comunità politica in grado di soffrire con chi soffre e di esprimere una tensione ideale ed emotiva nella ricerca di una risposta alla forte domanda di protezione e di tutela. Una risposta naturalmente da non trovare nei vecchi e inservibili ricettari del Novecento, ma nelle inedite compatibilità globali.

Ecco perché il nostro congresso, indipendentemente dalle nostre volontà, è stato aperto dagli elettori. E le alternative che abbiamo dinanzi a noi sono due: vogliamo essere quelli che contrastano l’innovazione e la globalizzazione, impugnando la bandiera della protesta e praticando la collaborazione competitiva coi populisti per testimoniare la nostra vicinanza a chi soffre anche senza offrire una risposta alla loro domanda di protezione e di tutela, oppure vogliamo riprendere e rilanciare il progetto di grande partito riformista a vocazione maggioritaria che vuole cambiare l’Italia e l’Europa collocandosi da protagonista – con proposte, linguaggio e ben definite alleanze internazionali – nel nuovo scenario politico mondiale?

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