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Intervento di Alfonso Pascale svolto il 21 febbraio 2025 nell’ambito dei Venerdì Culturali (28° Ciclo) organizzati da FIDAF, SIGEA, ARDAF, Ordine Dottori Agronomi e Dottori Forestali di Roma – Cooperativa “Il Dottore in Agraria”
La parzialità delle culture contadine
Ogni società, come tale, non può esistere senza una sua “cultura”.
La cultura di una società è costituita dall’insieme delle conoscenze (scientifiche ed esperienziali) e i modi (individuali e di gruppo) di vivere, pensare, esercitare la propria creatività, relazionarsi con gli altri e con la natura, utilizzare le risorse per la propria sopravvivenza, lavorare e commerciare.
Come insegna l’antropologo Robert Redfield, società contadine e culture contadine del tutto autonome e autosufficienti si possono trovare solo in isolati popoli primitivi o tribali.
La gran parte delle società e delle culture sono state contadine solo parzialmente.
E questo perché esse interagivano a due livelli:
Per comprendere le culture contadine bisognerebbe, quindi, studiare a fondo tali interazioni.
Queste agivano sempre sia verso il basso che verso l’alto con influenze reciproche.
Lo studio approfondito dei contesti, con un approccio interdisciplinare, permette di conoscere meglio quelle particolari culture. E di comprendere perché siamo fatti come siamo.
La storia dell’Occidente si può fare attivando questi percorsi di ricerca.
La molteplicità delle culture contadine
La presenza di molteplici civiltà e le diverse tipologie di interazione tra piccoli centri e grandi centri fanno sì che le culture contadine siano plurali.
Ad esempio Frederick Friedmann rimase colpito dagli atteggiamenti dei contadini del nostro Mezzogiorno nei confronti della “miseria”.
S’accorse, infatti, che la miseria non era intesa dai contadini solo come un insieme di condizioni materiali ma come una filosofia, un sistema di vita.
E tale mentalità non si riscontrava dappertutto.
La stessa cosa avveniva nel rapporto tra questi atteggiamenti e le religioni.
Lo dimostrarono gli studi di Ernesto de Martino sui problemi storico-religiosi del folklore contadino lucano e pugliese.
Dalle culture contadine alla società globale
Alle società e culture contadine è progressivamente subentrata, con la rivoluzione industriale, la società industriale e, in questo primo quarto del nuovo secolo, è apparsa la società globale in forme solamente abbozzate.
Nella società globale tutte le culture, le lingue, i popoli sono compresenti, interagiscono, danno luogo ad una sorta di conversazione polifonica.
La società globale è l’esito dei cambiamenti indotti dal clima, dalla demografia, dalle migrazioni e dalle nuove Intelligenze Artificiali.
Come le società e le culture precedenti erano parzialmente contadine, così, nella società globale, ci sono sprazzi di culture contadine che continuano ad interagire con altre culture.
La società globale e le nuove periferie delle città planetarie
La società globale è formata dalle città planetarie, entità ancora prive di istituzioni in grado di governarle.
Esse sono grandi agglomerati in cui le antiche distinzioni tra città e campagna si sono dissolte in un continuum rurale-urbano.
Tale continuum rurale-urbano abbraccia anche quelle che continuiamo a chiamare aree interne.
Le molteplici periferie delle città planetarie sono entità distinte e diversificate in base alla variabilità storica.
Lo studio dei processi di inserimento – nelle città planetarie italiane – dapprima, dei contadini interni e, successivamente, delle diverse generazioni di immigrati provenienti da altri paesi unionali ed extra-unionali (con i loro sprazzi di culture contadine), permetterebbe di delineare il moto evolutivo delle condizioni periferiche.
Il conflitto che caratterizza la società globale
Il sorgere della società globale ha innestato un cortocircuito nelle democrazie.
Le democrazie non sono più le depositarie quasi esclusive delle conoscenze e del progresso tecnologico.
Le autocrazie stanno mettendo sotto scacco le democrazie perché si sono collocate alla testa dell’innovazione.
Il loro progetto ormai esplicito è provocare un’implosione dei regimi democratici per espandere la propria capacità di influenza.
La società globale sta determinando concreti cambiamenti epocali nel nostro modo di vivere, lavorare e commerciare.
Essa è sopraggiunta in anticipo rispetto alle nostre forme mentali.
Gli schemi mentali evolvono più lentamente delle pratiche di vita.
Noi siamo abituati, ad esempio, a pensare la politica nel solco delle tradizionali dicotomie destra/sinistra e progressismo/conservatorismo e non siamo per nulla avvezzi a ragionare nella nuova e fondamentale divisione democrazie/autocrazie.
La società globale si darà un ordine (istituzioni e regole) mentre si consuma e si conclude il conflitto che si aperto in questi anni.
Il nuovo ordine mondiale sarà l’esito – come sempre – della conta dei vinti e dei vincitori.
Le mitizzazioni della vita contadina e i nuovi populismi
In questo iato che si è creato tra nuove logiche del mondo reale e il nostro modo tradizionale di pensare sono sorti i nuovi populismi.
Riemergono ancora una volta – come in altre epoche storiche – le mitizzazioni della vita rurale o contadina, le suggestioni idilliache delle tradizioni, le nostalgie evocanti antiche radici e l’idea di un mondo rurale contrapposto alla modernità individualistica, liberale e tecnologica.
Queste mitizzazioni sono strumentalizzate dalle autocrazie (e dai loro epigoni occidentali) per creare consenso intorno al loro disegno espansivo.
Le esperienze del passato illuminano circa le forme assunte dal “romanticismo” in un’epoca tecnologica.
Anche i totalitarismi del Novecento tenevano insieme ideologie illiberali e antidemocratiche con il progresso tecnologico.
Pertanto, andrebbe chiarito che studiare noi stessi partendo da come eravamo per orientarci meglio su dove andare, non è allestire un apparato ideologico a beneficio dei nuovi populismi.
Una sorta di appoggio per sorreggere il nostro povero e smarrito “io” alle prese con le sfide immani della contemporaneità.
Un rifugio dove questo “io” angosciato va a nascondersi dinanzi alle grandezze scientifiche e finanziarie.
I semi di libertà nelle culture contadine
È proprio la specificità mediterranea e italiana delle culture contadine a indicarci, invece, una strada diversa.
In noi, sono radicati semi come la libertà individuale che sa conciliarsi con lo spirito comunitario o come l’intangibilità della dignità umana che sa integrarsi con lo spirito di fraternità.
Semi rafforzati, sul piano teologico e filosofico, dal cristianesimo.
E, in più, ci caratterizza quell’atteggiamento dubbioso ed esigente che ci proietta sempre verso nuove mete.
Abbiamo ereditato dai popoli del Mediterraneo quel vitalismo che si unisce al senso della misura, al rispetto, all’attenzione a non violare l’àperion, ossia l’illimitato.
Il Mediterraneo è un sentiero che unisce, uno spazio sincronico che esalta la distinzione contro la tragica opposizione, la capacità di sintesi, di coabitazione di tradizioni culturali diverse e anche contrapposte.
Questo patrimonio storico-culturale, se curato con attenzione, permetterebbe a noi, come paese, di contribuire a salvaguardare le nostre democrazie e ad adeguarle, coniugando democrazia e innovazione, per affrontare le nuove sfide.
Dalla società tradizionale alla società industriale
L’avvio della transizione
Quando si avviò la transizione dell’Italia da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale?
Iniziò con l’Unità d’Italia un processo lento e graduale di formazione di contadini proprietari che andò a vivificare le relazioni economiche e sociali dei diversi sistemi territoriali.
Un processo che prese le mosse nell’Alto Milanese, nella Brianza e nel Comasco e che dette vita ad un fenomeno nuovo: le società contadine, mantenendo le proprie caratteristiche, da una parte promuovevano una crescita dell’agricoltura e, dall’altra, si dissolvevano in piccole attività manifatturiere e, dunque, in società semi-contadine o semi-industriali.
La pluriattività individuale e familiare, da condizione necessaria, diventava un’abitudine e veniva così a costituirsi come il nerbo dell’economia italiana.
Il “colpo d’ariete”
Un’accelerazione di tale processo si ebbe tra il 1950 e il 1980 e assestò all’antico assetto sociale il “colpo d’ariete” (prendo in prestito la suggestiva interpretazione di Giuseppe Medici – e fatta propria da Luigi Einaudi – delle ondate di trasformazioni indotte dalla riforma agraria del 1950).
Con la riforma agraria furono espropriati 700 mila ettari e, già nel 1960, oltre 417 mila ettari di terra passarono in mano a contadini.
Nel frattempo, un moto spontaneo di accesso alla terra fu favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali.
In virtù di tali misure – tra il 1948 e il 1968 – passarono nelle mani dei contadini un altro milione e 600 mila ettari.
Quindi, in un paio di decenni, la proprietà coltivatrice si allargò su altri due milioni di ettari.
Con gli interventi della Cassa del Mezzogiorno venne completata la bonifica ed estesa l’irrigazione su oltre 500 mila ettari. Si costruirono nuovi acquedotti e si migliorò ovunque la viabilità.
Molti contadini assegnatari si trasformarono in imprenditori e la produzione agricola si raddoppiò.
Ci fu una nuova e più consistente domanda di mezzi tecnici, soddisfatta dalla creazione di nuove imprese industriali.
Si sviluppò ulteriormente l’industria manifatturiera nel settore alimentare.
Le indennità di esproprio furono investite nell’edilizia e nell’industria.
La rapidità del processo
Per comprendere la rapidità di quel processo, è sufficiente considerare alcune coppie di date.
Nel 1958 gli occupati in agricoltura cedevano il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria e, nel 1963, si aveva il “boom economico”. A distanza di appena cinque anni.
Vediamo un’altra coppia di date lontane appena quindici anni: tra il 1955 e il 1970 erano tre milioni le persone che avevano spostato la residenza dal Sud in un comune settentrionale.
E, poi, ancora un’altra coppia di date discostate da appena vent’anni: tra il 1951 e il 1971 le campagne perdevano 4,4 milioni di agricoltori, ma guadagnavano 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani.
Insomma, quella trasformazione avveniva nel lasso di tempo di una generazione. In termini sociologici, ci riferiamo al tempo necessario per far crescere una persona fino alla maggiore età, quindi diciamo venti, venticinque anni circa.
Le campagne venivano urbanizzate e industrializzate. Restavano campagne ma avevano un altro volto.
I contadini si liberavano finalmente dalla miseria, dalla fame e dalla fatica.
Si inurbavano ma restavano contadini di fabbrica o di città.
Il tutto avveniva secondo le regole di moduli organizzativi di una rivoluzione industriale che, in Inghilterra, aveva richiesto quasi due secoli e qui solo una generazione.
Gli esiti
Nel Mezzogiorno si acuì il divario tra zone di “osso” e zone di “polpa” (fortunata metafora di Manlio Rossi-Doria).
Le zone d’”osso” scontarono una progressiva senilizzazione. E negli ultimi decenni, spopolate e prive di identità e di protezione idraulico-forestale, sono diventate estreme periferie delle città planetarie.
Nelle zone di “polpa” la modernizzazione fu, invece, reale con lo sviluppo di un’agricoltura fiorente e, in alcuni casi, con la creazione di nuovi centri urbani, dove i nuovi imprenditori agricoli preferirono andare a vivere. Oggi, anche queste sono diventate periferie delle città planetarie.
Nel “triangolo industriale” e in altre aree metropolitane, milioni di contadini fuggiti dalla miseria cominciarono ad assaporare un minimo di benessere, di eguaglianza sociale e di diritti democratici. Negli ultimi decenni, negli stessi luoghi di immigrazione dei nostri contadini sono arrivate le ondate di immigrati unionali ed extra-unionali.
Anche nella transizione dalla società rurale alla società industriale, il cambiamento di ordine pratico era in anticipo rispetto alle forme mentali.
Nessuno badò a collegare e raccordare gli schemi logico-mentali, cioè i modi di ragionare, e le effettive pratiche di vita che andavano per conto loro.
Si creò una schizofrenia sociale che rimase non governata.
I percorsi di sviluppo fondati sugli studi di comunità e l’apporto di competenze educative e psicologiche che pure si sperimentarono, furono presto abbandonati e non più finanziati.
La rapidità di quella transizione, quando negli anni ottanta si concluse, aveva stremato il paese che appariva stanco, invecchiato, privo di speranza e di forza.
E c’era uno scollamento profondo tra domande della società e capacità di ascoltarle, interpretarle e soddisfarle.
Nell’odierna transizione dalla società industriale alla società globale, questi problemi si sono moltiplicati.
Le politiche strutturali europee non hanno inciso in modo significativo nel ridurre la schizofrenia sociale e la progettazione attuale ignora i problemi della nuova transizione.
Gli effetti benefici degli sprazzi di culture contadine
Se si vanno a guardare attentamente gli esiti della transizione dalla società rurale alla società industriale si può constatare che, in Italia, il processo è avvenuto senza quelle lacerazioni socio-culturali che si sono prodotte altrove.
Tale risultato va ascritto alla capacità di ampi strati della popolazione di conservare e rielaborare spontaneamente le culture contadine di cui erano e sono portatori.
Gli sprazzi vitali di quelle culture hanno consentito agli italiani di smorzare i contraccolpi della modernità.
Si può affermare, con Franco Ferrarotti, che gli italiani sono ancora un popolo di contadini.
La nostra società industriale è apparsa più solida di altre perché ha potuto poggiare sui semi positivi e non ancora storicamente inverati delle culture contadine mediterranee.
Vediamo come questo è avvenuto nel concreto nei gruppi operai, nei distretti industriali della cosiddetta “Terza Italia” e nei gruppi giovanili che dettero vito al fenomeno dell’agricoltura sociale.
Le biografie operaie
Tra gli anni Settanta e Ottanta, Ferrarotti raccolse con Pietro Crespi le storie di vita operaia (poi pubblicate a metà anni Novanta in un libro dal titolo “La parola operaia”).
Gli autori scrivono: “I gruppi operai italiani sono fortemente radicati nella realtà contadina e, anzi, trovano puntualmente nelle specifiche situazioni locali e nell’ambito familiare quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio, che in altri contesti sociali e storici hanno dato luogo ai noti fenomeni di sradicamento e di alienazione operaia”.
Quando si vanno a leggere le storie di vita si comprende che il vissuto esistenziale rompe gli schemi. Si possono avere i piedi nella società industriale, lavorare alla catena di montaggio o seduti davanti al monitor di un computer, , ma la testa, gli schemi mentali prevalenti sono ancora fermi al “paese mio”, immersi nella cultura del borgo, chiusi nel suo controllo sociale.
Le grandi migrazioni interne degli anni Sessanta, dal Sud al Nord e dall’Est all’Ovest, riguardavano lavoratori che non si lasciavano alle spalle una cultura, non erano uomini nel limbo fra una cultura abbandonata e un’altra cultura che non li accoglieva, non erano quindi persone sospese “a mezza parete”, come invece accadrà ai più recenti immigrati extra-unionali.
“Continente mezzadrile” e distretti industriali
Il sistema mezzadrile era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna; da una dimora più grande, talora una vera e propria villa, che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva del proprietario, dalle fattorie intese come centri di servizi, e dai centri abitati.
Nel podere isolato abitava la famiglia mezzadrile.
Nel centro cittadino c’era il mercato di sbocco dei prodotti agricoli, ai cui flussi non erano estranei i mezzadri, e c’erano le relazioni con altri soggetti sociali, economici e istituzionali.
Il perno su cui ruotava il sistema territoriale era la fattoria, dove si concentravano i servizi amministrativi e tecnici, quelli di conservazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti, e i servizi sociali per i dipendenti (abitazioni, mense, infermerie, ecc.)
Qui le vecchie reti relazionali, mentre si dileguavano, avevano dato vita a processi di imprenditorialità diffusa intersettoriale da far ipotizzare una “Terza Italia”.
Mezzadri e fattori si erano tramutati in artigiani e industriali e avevano continuato a tessere relazioni tra imprese, associazioni, banche locali e amministrazioni municipali, tenendo in vita reti solidali e collaborative.
I distretti industriali sono nati laddove la società locale ha incorporato la cultura, il saper fare, i valori di tante generazioni che sono vissute nei poderi mezzadrili.
La persistenza diffusa della famiglia contadino-operaia, con le sue particolari caratteristiche di comportamento, ha contribuito all’industrializzazione di diverse realtà del paese.
Le cooperative giovanili e l’agricoltura sociale
Da spinte diverse, negli anni settanta e ottanta, nacquero le cosiddette cooperative giovanili.
Nelle campagne sicuramente prevaleva una pressione indotta dalla sensibilità ecologica da parte, soprattutto, di giovani laureati e diplomati disoccupati.
Ma anche professionisti che non trovavano occasioni di lavoro, e studenti, i quali guardavano all’agricoltura non già con gli occhi dei padri e dei nonni che erano scappati via per le condizioni di miseria, ma incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un contesto di relativo benessere, il settore presentava in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di sperimentazione di nuovi servizi di accoglienza.
Anche i figli dei contadini che tornavano dalle università portavano con sé quel bisogno di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori.
E questi nuovi agricoltori istruiti dialogavano coi giovani di provenienza urbana.
Convergevano anche le iniziative per conquistare i diritti civili, rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare in modo nuovo la tossicodipendenza e la condizione carceraria.
In quegli anni si approvarono la legge 285 sull’occupazione giovanile (che prevedeva sostegni alle cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura), la riforma sanitaria, la legge 180 (ispirata dal movimento di Psichiatria democratica), la legge sulle terre incolte e mal coltivate e la legge “Quadrifoglio”.
S’incrociavano diverse spinte culturali che davano vita a cooperative agricole con la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti, anticipando il fenomeno che avremmo poi inquadrato nell’agricoltura sociale.
I semi contadini dell’agricoltura sociale
Quali sono gli elementi delle culture contadine da cui è potuto nascere questo fenomeno?
Tracciamo un breve elenco di pratiche comunitarie della società rurale:
la molteplicità dei riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti;
il vegliare nelle serate invernali stando tutti insieme per educarsi reciprocamente alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria, i saperi e quei valori essenziali per dare un senso alla vita;
lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali;
l’idea di vicinato legata ad una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue e alla consuetudine della prestarella o aiutarella;
i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva;
le società di mutuo soccorso e le associazioni locali, diffuse soprattutto nel Sud, come le chiese ricettizie, le confraternite, i monti frumentari, i monti di pietà;
le forme cooperativistiche sorte tra i braccianti padani, che hanno segnato il movimento cooperativo in Italia come l’unico in Europa ad avere origini agricole.
Erano forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Una sorta di ruralitudine, rimasta inconsciamente nei caratteri di fondo degli italiani.
Una ruralitudine che conviveva con altri elementi, i cui residui putrefatti sono tuttora i familismi mafiosi e gli iniqui clientelismi.
Ma se si valorizzassero le esperienze virtuose, si potrebbero reinventare forme moderne di welfare in sostituzione di quelle stataliste e centralizzate, che si rivelano sempre più inefficienti.
Se trasmessa con accuratezza e convinzione alle nuove generazioni, questa ruralitudine, chissà, potrebbe servire nella società globale per inventare nuove forme di vita in comune, fondate sulla libertà e dignità delle persone.
L’agricoltura sociale nella società globale
Nei prossimi anni, bisognerà governare tre processi:
Le “migrazioni verticali” (stagionali e definitive) dalle pianure delle città planetarie verso le periferie d’alta quota (alta collina e montagna) porterà quest’ultime a “nuova vita”.
Il “paesaggio verticale”, che Emilio Sereni considerava la caratteristica preminente della nostra Italia, è una grande opportunità per affrontare i problemi di una popolazione invecchiata.
Mentre, l’arrivo di nuove popolazioni è motivo di speranza per rendere di nuovo abitabili, in una condizione di relativo benessere, le nostre aree più interne.
Nei processi che stanno per aprirsi, l’agricoltura sociale, valorizzando il lascito delle culture contadine, potrà svolgere un ruolo essenziale.