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Legame con il territorio e presenza nei mercati internazionali non sono strategie alternative. Ma occorrono politiche industriali per l’internazionalizzazione fondate sul “fare squadra” in Italia e all’estero, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla capacità di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato, sull'innovazione sociale. Il contrario di quello che viene fatto
Battista D’Alessandro è un giornalista che si occupa di storia locale. Vincenzo Montesano è invece un agronomo che fa il ricercatore presso il CNR e insegna Botanica all’Università degli Studi di Basilicata. Insieme raccontano, in un bel volume pubblicato da Archivia, i cinquant’anni della Cooperativa ortofrutticola “Trisaia” di Rotondella, le cui vicende s’intrecciano con quelle delle trasformazioni dell’agricoltura che hanno interessato il Metapontino dalla riforma agraria ad oggi.
I pregi di questo libro sono molteplici. Non è semplicemente il resoconto delle attività svolte da una struttura associativa così come emergono dai verbali e dalla documentazione conservata nell’archivio. Sarebbe bastato già questo per farne un’opera preziosa. Ma c’è molto di più. I protagonisti di questa storia sono le persone e la comunità, il territorio e l’ambiente, i saperi contadini e le conoscenze tecnico-scientifiche. È la storia degli uomini, delle risorse e della tecnica. E così si comprende l’evoluzione dei modelli sociali, si apprezza il segno dei mutamenti, s’identificano i progressi e gli arretramenti. “Cooperativa Trisaia” è uno studio importante perché ci fa capire come avviene un percorso di incivilimento di una comunità locale e come si costruisce l’autoapprendimento collettivo di gruppi dirigenti consapevoli.
Fin dalle prime pagine, l’agro di Trisaia – oggi “un’amena area ortofrutticola tra le più progredite del Metapontino” – emerge nella sua evoluzione storica come una piana che, a fasi alterne, una volta accoglie gruppi umani e si lascia plasmare dal loro ingegno e, un’altra volta, arretra a zona malarica a seguito di una peste o un terremoto o ancora una carestia. Con la gestione del feudo dei Doria-Del Carretto da parte dei Donnaperna, numerose famiglie ottengono in concessione piccoli appezzamenti a colonia perpetua. Il casino di Santa Laura, costruito nella seconda metà del Settecento dalla duchessa di Tursi, Giovanna Doria, sul suolo dell’antico monastero di S. Maria del Lauro, diventa il grande centro servizi per la Trisaia. E così si può superare la carestia e contenere la zona malarica. Quando viene distrutto il sistema colonico, agli inizi dell’Ottocento, indubbiamente migliora la condizione di vita dei contadini rispetto a quella precedente che presentava aspetti inaccettabili. Ma una volta distrutto completamente quel modello sociale, il successivo processo di formazione di piccole e medie proprietà coltivatrici non è in grado di reinventare un sistema territoriale complesso capace di tenere in equilibrio uomini, risorse e tecnica. I cereali erano prima la coltura prevalente da destinare ai diversi mercati; ad essa si accompagnava l’industria del cotone e, a fini di autoconsumo, la produzione di frutteti e ortaggi. Nel nuovo assetto proprietario che subentra al sistema colonico, la cerealicoltura si rivela presto insufficiente. Nel primo Novecento si affianca l’allevamento mentre sopravvive il cotone. Con le Cattedre di Agricoltura istituite dai primi governi liberali, il rapporto tra conoscenza scientifica e saperi esperienziali diventa sistemico: si affinano e diffondono i metodi di concimazione e si utilizzano sementi elette per accrescere la produttività del grano. Con l’istituzione del Consorzio di Bonifica di Metaponto si progetta la trasformazione della zona malarica in area irrigua e nasce l’idea del borgo rurale a Trisaia. La riforma agraria degli anni Cinquanta sfiora appena il territorio di Rotondella perché l’appoderamento era già avvenuto agli inizi dell’Ottocento. Ma gli effetti culturali, sociali ed economici delle trasformazioni che la riforma produce nel Metapontino si riverberano anche in questo piccolo centro collinare che si specchia nello Jonio. Ci sono tutti i presupposti per avviare un nuovo sistema territoriale complesso. La piana di Trisaia è avvantaggiata perché l’innovazione ha avuto modo di incubare per un periodo più lungo. C’è una dimestichezza antica tra agricoltori e tecnici pubblici che altrove non si riscontra. Viene però a mancare una strategia nazionale che dia continuità alla riforma agraria e alle imponenti opere infrastrutturali realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno nel primo decennio di vita. La scelta di puntare prioritariamente sull’industrializzazione forzata dall’alto mette ai margini ogni impegno sulla costruzione di sistemi territoriali e su politiche che considerano la coesione sociale una premessa e non l’esito dello sviluppo.
Agli inizi degli anni Sessanta avvengono in agro di Trisaia fatti che segnano una svolta epocale. L’archeologo Lorenzo Quilici documenta un gruppo di 10 “siroi”, che in età magno-greca fungevano da magazzini per lo stoccaggio di prodotti agricoli in attesa di una loro commercializzazione. Nasce una vocazione dell’area prima di allora inimmaginabile. E quasi contemporaneamente, nella stessa zona, si avviano i lavori di realizzazione del CNEN (oggi ENEA-Trisaia), un tassello fondamentale delle competenze nazionali pubbliche di ricerca in ambiti strategici. Nel 1966 la Coldiretti locale promuove il Club 3P “Trisaia inferiore” a cui aderiscono 22 giovani agricoltori. Un nucleo molto attivo che sollecita e ottiene nuove opere irrigue e s’impegna nella formazione di quadri cooperativi, rovesciando la logica degli enti di riforma che tentano di diffondere una cooperazione “imposta” dall’esterno.
È in tale clima politico e culturale che nasce la Cooperativa “Trisaia”, fucina di nuove economie locali ma anche di capacità professionali e stimoli sociali e morali per la crescita della comunità locale. La sua prima decisione riguarda l’acquisto di una mietitrebbia e di una macchina irroratrice. La seconda è quella di aprire un magazzino per smerciare concimi e sementi. Nel 1970 avviene l’incredibile. Il nuovo presidente Tonino Bianco, che era stato animatore del Club 3P, presenta alle elezioni amministrative una lista civica ed entra, con altri due dirigenti della Cooperativa, nel Consiglio comunale di Rotondella. La Dc è il primo partito ma resta all’opposizione. Un nuovo ceto s’impone sulla vecchia guardia. Pci, Psi e Psdi si accordano con la lista civica ed è Tonino Bianco ad essere eletto sindaco. “Ri massar’ ra’ Trisaia” prendono le redini dell’amministrazione comunale e mettono in un angolo il ceto dei professionisti e quello dei cerealicoltori restii all’innovazione per aprirsi all’Europa guardando ai nuovi equilibri dei mercati agroalimentari internazionali. Il nuovo sindaco si avvia ad una carriera politica che lo vedrà amministratore dell’ESAB e successivamente Vicepresidente e Assessore alle attività produttive della Regione Basilicata. E così ulteriori e urgenti opere stradali e ampliamenti di quelle irrigue caratterizzano la nuova fase di sviluppo di Rotondella. Si sperimentano nuove cultivar di pesche e albicocche e si impiantano vigneti e fragoleti per rifornire i mercati del Nord-Italia. Qualcuno introduce babaco, feijoa e avocado. La Cooperativa “Trisaia” potenzia i propri servizi ai soci. L’elemento decisivo che caratterizza questa esperienza cooperativa è il legame profondo che si stabilisce fin dall’inizio con le competenze tecnico-scientifiche. Personalità del mondo universitario e dell’amministrazione statale e poi regionale, come Decio Scardaccione e Vincenzo Valicenti, fortemente impegnati anche in politica, costituiscono punti di riferimento importanti per orientare le scelte dei giovani agricoltori di Rotondella.
È a questo punto del racconto che gli autori introducono due elementi importanti che vanno sottolineati. Il primo riguarda il rapporto tra agricoltori che vivono esclusivamente delle attività di coltivazione e allevamento e piccoli proprietari di agrumeti che non svolgono in modo preminente l’attività agricola. Quest’ultimi costituiscono una cooperativa ortofrutticola denominata “Caramola” animata da un insegnante. Sono una cinquantina di produttori che si inseriscono nel fenomeno della nuova ruralità: un esodo urbano che subentra all’esodo rurale. La corrente interessa tutte le regioni centro-settentrionali, mentre al Sud è presente solo in Puglia e in Sardegna. Rotondella e altri pochissimi centri del Materano sono un’eccezione in una regione che sarà coinvolta dal fenomeno solo successivamente. Ma la nuova esperienza cooperativa si esaurisce dopo qualche anno perché, nonostante i tentativi, non nasce un’intesa tra questa struttura e la Cooperativa “Trisaia”, formata prevalentemente da agricoltori professionali. Un’incomprensione del fenomeno della nuova ruralità – in cui il part-time è l’elemento dominante – da parte delle organizzazioni agricole e delle istituzioni impedisce il dialogo e si tramuta in una visione angustamente difensiva. Il difficile dibattito che precede l’approvazione della legge sull’agriturismo nel 1986 ne è la testimonianza. L’episodio della Cooperativa “Caramola” segnala un problema che ancora oggi riguarda molti territori del Mezzogiorno in cui sono in gioco paesaggi agrari storici a rischio di estinzione. Si tratta dei fazzoletti di terra in cui si tramanda la coltura degli ortaggi, degli agrumi e degli olivi. Dai proprietari di questi piccoli appezzamenti si continua a pretendere l’adeguamento a modelli organizzativi la cui efficienza è rapportata a una estensione della superficie aziendale che si presume ottimale, a comprovate capacità professionali e alla disponibilità ad associarsi. La logica è l’omologazione a modelli precostituiti. E non si comprende che la mancata adesione a quei modelli non deriva da un presunto individualismo bensì da limiti intrinseci ai modelli stessi. Non si comprende che forse bisogna reinventare in forme moderne modelli sociali che in passato caratterizzavano quei sistemi territoriali. Non si comprende che non ha alcun senso imporre a questi produttori di aderire a cooperative o a consorzi. Essi hanno bisogno di servizi per poter continuare a svolgere le proprie attività. Si tratta allora di costituire e diffondere imprese agricole di servizi che si fanno carico dei fazzoletti di terra, permettendo a quei proprietari di svolgere saltuariamente e nelle loro possibilità le varie operazioni colturali. C’è un modello sociale storico da reinventare – ripulito degli aspetti inaccettabili del tempo – ed è la masseria o il casino baronale del sistema colonico e mezzadrile meridionale. Una tradizione innovativa per fornire servizi alle famiglie e alle comunità di carattere sociale, socio-sanitario ed educativo. Permettere ad una persona di continuare a mantenere una qualche forma di rapporto con il proprio piccolo orto o uliveto o agrumeto è un servizio sociale che gli imprenditori agricoli dovrebbero organizzare in modo diffuso per la sostenibilità sociale e ambientale dei paesaggi agrari storici del Mezzogiorno.
L’altro elemento importante è il rapporto tra agricoltura e mezzi tecnici. Gli autori hanno trovato nei verbali del consiglio di amministrazione della Cooperativa “Trisaia” i primi segni di una consapevolezza dei guasti ambientali prodotti da un uso smodato di antiparassitari e di altri ritrovati chimici in agricoltura. Cos’era avvenuto? Nella seconda metà degli anni Cinquanta, anziché avviare percorsi di sviluppo locale ricostituendo il tessuto comunitario, era prevalsa l’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto. Un’idea passata trasversalmente in tutti i partiti che temevano, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale. La Dc vedeva nell’insediamento dell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci individuava nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni. In quegli anni all’agricoltura era venuta così a mancare l’attenzione delle forze politiche. Si era sempre più ridotto il sostegno pubblico all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. La gran parte dei tecnici che erano usciti dalle scuole e dalle facoltà di agraria erano stati assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e, più complessivamente, nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale, avevano costituito la causa fondamentale della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali.
Negli anni Ottanta s’incomincia a prendere coscienza di quanto era avvenuto e si corre ai ripari. Il consiglio di amministrazione di “Trisaia” lamenta il calo nella distribuzione dei prodotti chimici tra i soci. E la causa di questo fenomeno viene individuata nel fatto che essi si approvvigionano altrove senza avvalersi dei consigli dei tecnici dell’AASD “Pantanello” di Metaponto con cui la Cooperativa ha stretti contatti. La Regione Basilicata istituisce un gruppo di lavoro per la “lotta guidata” e finanzia una ricerca sul campo proposta e realizzata dall’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Bari e svolta su un campione di 122 aziende tra Rotondella, Scanzano Jonico e Policoro. I risultati confermano l’uso massiccio di fitofarmaci e vengono pubblicati con grande risalto. Dopo alcuni anni si sperimenteranno le prime albicocche biologiche.
La fine degli anni Novanta sono segnati dall’assenteismo dei soci e da un conseguente disavanzo finanziario: problemi che si superano nel tempo con nuove idee e nuovi programmi di crescita della Cooperativa. Ma dopo cinquant’anni resta il nodo di fondo: la debolezza degli agricoltori nelle relazioni con gli altri settori economici che si può affrontare solo in una logica di sistema, superando divisioni per aree di appartenenza, chiusure corporative e aprendo invece l’insieme dell’agricoltura ad un rapporto coi territori nel loro complesso e, nello stesso tempo, coi mercati internazionali. Le colpe della Coldiretti sono evidenti nell’impedire tale evoluzione. Non può dunque bastare l’impegno di una sola struttura a superare tali limiti. Bisogna dare atto agli autori che su questo punto sono molto espliciti a conclusione del loro lavoro. La rivoluzione tecnologica in atto può aprire una nuova prospettiva allo sviluppo dei territori e dei mercati internazionali in cui l’agricoltura e l’agroalimentare possono diventare elementi qualificanti e partecipare attivamente, con il proprio capitale umano e sociale e in relazione con l’insieme dei sistemi produttivi locali, al salto tecnologico che si sta realizzando. Si tratta di invertire l’ordine di priorità tra sviluppo e coesione sociale, anticipando la seconda come premessa del primo per civilizzarlo. E di ridisegnare completamente il rapporto tra territori e mercati internazionali che non sono alternativi o in contrapposizione. Ma occorrono politiche industriali per l’internazionalizzazione fondate sul “fare squadra” in Italia e all’estero, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla nostra capacità – da sempre dimostrata nella nostra storia – di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato (a partire dai territori con più antiche tradizioni di sviluppo locale) e sul rendiconto alle comunità territoriali dei risultati conseguiti.