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Sta emergendo un protagonismo civile di tecnici e ricercatori interessati ad un approccio laico ai temi scientifici legati al settore primario
Sono tanti i pregiudizi che gravano sull’agricoltura. Il più vetusto è quello che gli abitanti delle città hanno imposto a danno degli abitanti del contado, la parte di territorio che circonda le città. Un pregiudizio che ha un padre nobile: il sommo poeta. Il quale, per segnalare la propria avversione nei confronti degli agricoltori, sentenzia: “Non altrimenti stupido si turba/ lo montanaro e rimirando ammuta/ quando rozzo e selvatico si inurba?” (Purgatorio, XXVI, 67-69). Questo pregiudizio sembra essersi attenuato negli ultimi decenni sull’onda di processi spontanei avvenuti nella società dal basso. Processi che segnalano un avvicinamento dell’urbano e del rurale, una volta nettamente separati e, soprattutto, fortemente squilibrati. Per fare in modo che a tale evoluzione spontanea corrisponda anche una consapevolezza delle classi dirigenti in senso lato ci vorrà ancora del tempo. Le trasformazioni sociali avvenute, infatti, mettono in discussione rendite di posizione e privilegi, i cui detentori non sono ancora disponibili a mollare.
Un altro pregiudizio, più recente, è quello che permea il mito dell’industrializzazione forzata dall’alto, indifferente alle culture e ai contesti territoriali, e pertanto fallimentare. Un preconcetto sorto alla fine degli anni Cinquanta e che ha segnato e segna ancora nel profondo la mentalità attendista e assistenzialistica di una parte notevole delle comunità meridionali. I tecnici e gli operatori sociali che indicarono la strada di uno sviluppo industriale “dal basso” – uno sviluppo integrato e connesso all’agricoltura e alle risorse locali – furono tacciati di “gracchismo” o di “neoruralismo”. Questo pregiudizio fu all’origine della rottura ecologica e permise uno sviluppo caotico e squilibrato, una modernizzazione tradita.
Il pregiudizio antiscientifico e negazionista
C’è poi un terzo pregiudizio che pesa sull’agricoltura e che oggi è predominante: quello antiscientifico che si fonda sulla falsa distinzione tra un’agricoltura tecnologica e un’agricoltura cosiddetta naturale e sull’atteggiamento negazionista nei confronti del carattere innovativo assunto dalla “rivoluzione verde”.
Il giornalista Donatello Sandroni ha paragonato tale pregiudizio all’Idra, il mostro mitologico a più teste contro cui si trovò a combattere Eracle. E lo storico dell’agricoltura Luigi Mariani, facendo propria la metafora del mito, ha delineato la testa centrale (quella immortale) della novella Idra in tre aree concettuali:
“Concimi di sintesi: oggi dall’azoto atmosferico trasformato in ammoniaca con il metodo inventato da Haber-Bosh nel 1908 dipende il 48% del soddisfacimento del fabbisogno proteico del genere umano. L’Idra rifiuta tale metodo e tale rifiuto se eretto a sistema significherebbe una immane catastrofe alimentare.
Varietà: per stare al frumento, le varietà in uso nel 1910 avevano altezze di 180 cm e avevano rese medie di 1-2 t/ha mentre le varietà odierne hanno altezza di 90 cm e resa di 6-8 t/ha. Per il bestiame abbiamo esempi del tutto analoghi (per la zootecnia da latte basta confrontare per gli Usa la produttività e l’impatto ambientale di un allevamento brado degli anni ’30 del XX secolo e dell’attuale allevamento intensivo in stalla aperta basata su frisona). L’Idra rifiuta l’innovazione propugnando il ritorno a varietà e razze antiche il che significherebbe una immane catastrofe alimentare.
Agrofarmaci: oggi disponiamo di prodotti curativi con persistenza e impatto ambientale oltremodo contenuti. L’Idra pretende il ritorno ai prodotti in uso 150 anni fa (zolfo e rame in primis), anche qui con impatti ambientali evidentissimi e senza nessun effetto curativo. Anche qui rifiutare l’innovazione significherebbe avere perdite produttive enormi con un ulteriore contributo alla catastrofe alimentare dianzi evocata”.
L’origine della novella Idra
Com’è potuto accadere che nell’arco di così pochi decenni si formasse un pregiudizio così potente da influire pervicacemente sull’opinione pubblica? La causa principale va ricercata nel venir meno, dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi, di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali che guardavano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale. Con l’imperversare del mito industrialista, si inaridì infatti quel filone di pensiero e di iniziativa che originava da Carlo Cattaneo e individuava nella coesione sociale una premessa, non l’esito dello sviluppo. Iniziò allora un fatto gravissimo: veniva sempre più ridotto il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. La gran parte dei tecnici che uscivano dalle scuole e dalle facoltà di agraria venivano assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventavano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra questi e le industrie produttrici di mezzi tecnici.
La cultura agronomica ed economico-agraria, nonché quella nel campo dell’ingegneria idraulica, si erano fatte carico, fino a quel frangente, di una funzione decisiva nell’influenzare le decisioni politiche che avevano guidato l’elaborazione e l’attuazione delle leggi di riforma agraria e la realizzazione delle opere infrastrutturali nelle campagne meridionali mediante l’intervento straordinario nel Mezzogiorno. I tecnici agricoli avevano espletato questa funzione convinti di portare una responsabilità intellettuale e civile ben superiore alla semplice erogazione di specifiche competenze. Avevano mostrato un’attenzione alla dimensione etico-politica dell’agire sociale ed erano stati attenti al consolidamento di una reputazione coltivata per decenni e legata ad una loro propria funzione specifica: espandere il progresso, affermare la centralità dell’agricoltura nell’economia e attribuire una specificità di valori al mondo rurale.
Tutto questo venne meno in pochissimi anni. E così, negli anni Settanta e Ottanta, prende forma la novella Idra sull’onda di una giustificata presa di coscienza della rottura ecologica che solo tecnici con forte sensibilità politica e culturale, come Manlio Rossi-Doria e Giuseppe Medici, seppero cogliere per tempo. A nulla valse il loro tentativo generoso di edificare una nuova cultura riformista dello sviluppo sostenibile, da fondare su un ripensamento critico – ma non negazionista e antiscientifico – della lunga tradizione agronomica europea. Si imposero invece i Petrini, i Pecoraro Scanio e i Capanna, che seppero sfruttare la fase di decadenza della politica e dei media – fortemente indeboliti dai cambiamenti epocali che stavano avvenendo dopo la caduta del Muro di Berlino – per imporre i messaggi catastrofisti dell’Idra e costruire su di essi le proprie “fortune”. Nel frattempo, sarà la Coldiretti a fiutare l’”affaire” e a inglobare l’ambientalismo ideologico nella propria holding, dopo aver buttato alle ortiche quella davvero utile agli agricoltori: la Federconsorzi. Anzi, quel fallimento, anziché essere motivo di vergogna e di scandalo, si tramuta, nell’ottica di Idra, in titolo di merito, in un’opportunità. Se la grande organizzazione economica dell’agricoltura italiana svolse un ruolo protagonista nella “rivoluzione verde” – questo è il succo del messaggio trasmesso all’opinione pubblica – è giusto che diventi il capro espiatorio di una storia tutta da rimuovere. E ben venga, dunque, per “redimersi” e riciclarsi, il “pentimento” e la “conversione” dell’organizzazione professionale che ha la responsabilità di aver condotto la vecchia holding al crack e di disperdere lo storico patrimonio della rete dei servizi nelle campagne, cresciuta attorno ai consorzi agrari. Non importa se nessuno paga per quella immane appropriazione di ricchezza pubblica. Rinviati a giudizio, i responsabili della procedura fallimentare sono assolti, mentre gli amministratori e i sindaci, dopo quasi trent’anni, attendono ancora un verdetto.
Una nuova leva di tecnici e ricercatori
Oggi finalmente riemerge un protagonismo intelligente e vivace di tecnici e ricercatori – politicamente disincantati ma fortemente motivati sul piano etico e civile – che vogliono ristabilire un approccio laico ai temi scientifici e tecnologici dell’agricoltura. Il gruppo informale che li tiene uniti si chiama SeTA – Scienze e tecnologie per l’Agricoltura e si presenta come il novello Eracle alle prese con Idra. Non è una sfida semplice quella che lo attende perché questo pseudo-ambientalismo antiscientifico è un fenomeno non solo italiano ed europeo e si avvale dei social per espandersi globalmente. Si tratta, dunque, di ingaggiare una battaglia democratica contro le fake news, i falsi miti, i potentissimi veleni che vengono sparsi contro l’agricoltura e gli agricoltori sui temi più disparati. Per iniziativa di Enrico Bucci, si è già partiti con una petizione contro la disinformazione sull’epidemia di Xylella fastidiosa, a cui hanno aderito già un migliaio di organizzazioni, ricercatori, tecnici e semplici cittadini. Si tratta di combattere una battaglia culturale capace di attaccare la testa centrale dell’Idra, come suggerisce il coordinatore di SeTA, Luigi Mariani. Una battaglia civile che riprenda e aggiorni, nelle condizioni dell’oggi completamente diverse dal passato, quell’opera avviata, con scarsa fortuna, da Medici e Rossi-Doria volta a costruire un pensiero riformista e liberale dello sviluppo sostenibile, totalmente assente nel nostro Paese.