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Comunicazione al Convegno dell'Agia su "Agricoltura e territorio: nuove opportunità per le imprese" - Bologna, EIMA - 12 novembre 2004
Ringrazio Gianluca Cristoni e Matteo Ansanelli di avermi coinvolto in questa riflessione collettiva su tematiche che considero strategiche per il futuro dell’agricoltura. Affronterò il tema che mi è stato assegnato partendo da alcune premesse che spiegano perché oggi l’impresa agricola si trova ad essere partner della pubblica amministrazione nella gestione del territorio in una funzione sussidiaria.
Gli agricoltori stanno fronteggiando una serie di fratture che si sono prodotte nel settore primario. Soprattutto quelle più recenti, come quella ambientale e quella territoriale, dovuta all’eccessiva specializzazione di alcune aree. Infine, c’è stata la rottura alimentare, determinata dal venir meno del rapporto di fiducia tra produttori e consumatori.
Il nuovo scenario in cui gli agricoltori agiscono non si configura più come un mondo a parte. Sono, infatti, entrati in campo nuovi portatori di interesse: consumatori, ambientalisti, operatori del terzo settore, residenti non agricoli in territori rurali, movimenti new global, soggetti pubblici e privati protagonisti dello sviluppo locale.
Si tratta, dunque, di rimeditare sul significato di quel complesso di regole, risorse, organizzazioni, relazioni che sono alla base dell’attività agricola e di interrogarsi su come questo mestiere possa di nuovo considerarsi utile alla società.
Centrale diventa il problema di ridefinire il profilo etico-politico della professione agricolo-rurale, una professione di sintesi, ad un tempo agricola, alimentare, ambientale, paesaggistica, ma espressione anche di una molteplicità di nuovi mestieri.
In discussione sono anche i nuovi e più ampli confini che racchiudono ciò che oggi consideriamo agricoltura. Tali delimitazioni non sono più disegnate sul tradizionale binomio agricoltura/produzione e agricoltura/protezione, bensì lungo il crinale del binomio agricoltura/sistema industriale e agricoltura/territorio. E tale nuovo rapporto non tende a divergere asimmetricamente, ma converge e si intreccia al punto tale da suscitare una pluralità di combinazioni imprenditoriali, ciascuna portatrice di specifiche esigenze e organizzata per rispondere a differenti bisogni della società.
Tale evoluzione mette in crisi anche le tradizionali funzioni di rappresentanza delle organizzazioni agricole. Per svolgerle bene, bisogna imparare ad integrare la salvaguardia degli interessi degli agricoltori con la capacità di assumere come vincoli-opportunità le aspirazioni provenienti dall’esterno del loro mondo.
Inoltre, le funzioni di rappresentanza diventano più complesse. Dovrebbero, infatti, tendere a convergere non solo su interessi settoriali o di filiera, ma in modo orizzontale su quelli dell’impresa tout court e dei sistemi territoriali.
Andrebbero, altresì, svolte nell’ambito di una più ampia aggregazione del mondo della produzione e dell’agricoltura di servizio con quello del terziario agricolo avanzato. E’ in questo quadro più articolato di relazioni con una molteplicità di portatori di interesse che l’agricoltura dovrebbe rimodellare il proprio sistema di rappresentanza.
Rappresentare e salvaguardare questo nostro mondo implica stare in una posizione di frontiera tra la categoria (con i suoi interessi) e la società (con le sue attese) che la ricomprende, l’avvolge e la valuta incessantemente.
Diffondere una cultura della responsabilità sociale diventa, pertanto, elemento primario della funzione di rappresentanza, nella logica della Corporate Social Responsibility (CSR), di cui in Europa si sta discutendo da diversi anni.
Il filosofo Nicola Abbagnano definì, già nel 1971, la responsabilità come “possibilità di prevedere gli effetti del proprio comportamento e di correggere il comportamento stesso in base a tale previsione”.
D’altro canto, Ulrich Beck afferma che nell’attuale “società del rischio, l’agire economico e tecnico-scientifico acquista una nuova dimensione politica ed etica e che il modello di politica gerarchico-razionalista, ispirato ai criteri del rapporto mezzi-fini è stato soppiantato da teorie che enfatizzano la consultazione, l’interazione, la negoziazione, la rete”.
Pertanto, essere socialmente responsabili significa per le imprese agricole non solo soddisfare gli obblighi giuridici, ma andare oltre. Si tratta di integrare, su base volontaria e contrattuale, le preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro attività e nelle relazioni coi portatori di interesse. Di fare i conti con la riflessione dell’etica. Di affermare un modello reputazionale di legittimazione delle attività agricole e rurali che sia condiviso dalla società e si fondi sull’inclusione all’interno e all’esterno delle aree rurali.
Non è una cosa particolarmente difficile per il nostro mondo. La ruralità si è sempre caratterizzata per una forte componente valoriale – legata al benessere delle popolazioni, alla solidarietà, alla reciprocità, alla tutela delle risorse naturali – ultimamente erosa dai processi di urbanizzazione e industrializzazione.
Rilanciare, ammodernare e valorizzare i contenuti di qualità e coesione sociale che storicamente connotano la ruralità significa, dunque, qualificare l’immagine del territorio rurale e renderlo anche economicamente e socialmente più competitivo. Si tratta, in tale quadro, di orientare l’assunzione di responsabilità verso più direzioni: le generazioni dell’agricoltura di domani; la scienza e l’innovazione; chi è dentro e chi resta fuori dalle profonde trasformazioni nel mercato mondiale degli alimenti; le risorse che appartengono a tutti, che non sono infinite e che non sono riproducibili.
Oggi vivono una difficile transizione anche organismi sorti in seno al mondo agricolo e che hanno alle spalle un passato glorioso, come i Consorzi di Bonifica. Essi affondano le proprie radici in epoca medievale, nelle prime esperienze padane di integrazione tra interessi privati e finalità pubbliche. Si sono poi innervati negli assetti dello Stato moderno alla fine dell’800 e, in modo compiuto, negli anni Trenta del secolo scorso, provvedendo a realizzare le grandi opere di bonifica. Ma negli ultimi decenni, la crisi di identità che ha investito il settore primario e le imprese che in esso operano inevitabilmente si è riversata anche su tali strutture.
Il sistema della bonifica ha reagito alla rottura ambientale candidandosi a svolgere nuove funzioni, che la recente legislazione regionale e nazionale ha ampiamente riconosciuto. E sta fronteggiando la rottura territoriale riqualificando il proprio ruolo come soggetto protagonista dello sviluppo locale socialmente equo insieme ad altre istituzioni. Il contributo della bonifica alla sicurezza territoriale, ambientale ed alimentare è stato ampiamente esposto nel Documento approvato dall’Assemblea dell’ANBI del 2003, che costituisce il “manifesto” del processo di rinnovamento a cui è chiamato l’intero sistema.
Ma bisogna essere consapevoli che le moderne azioni di manutenzione dei corsi d’acqua e degli scoli, il miglioramento qualitativo, riciclo ed uso plurimo delle risorse idriche, la difesa del suolo e la salvaguardia ambientale presentano una complessità tale che si fa fatica a racchiuderle nell’antica formula onnicomprensiva di “bonifica”. Spesso le ultime generazioni, che non conservano più la memoria storica delle grandi opere di prosciugamento delle paludi e di trasformazione di interi territori negli odierni paesaggi agrari, non collegano il termine “bonifica” con le nuove funzioni dei Consorzi.
Nello stesso tempo, si è creata nel Paese una situazione fortemente differenziata. Ci sono Consorzi che vivono la propria missione in sintonia con la contribuenza e partecipano attivamente al governo del territorio in collaborazione con gli enti locali. Purtroppo, però, vi sono anche strutture consortili che si sono ridotte ad essere quotidiano bersaglio di attacchi da parte dei consorziati, delle istituzioni locali e delle forze sociali per le pervicaci inefficienze e la mancanza di trasparenza ed equità nell’imposizione dei tributi, i cui costi vanno ad incidere pesantemente sulla competitività delle imprese e dei sistemi territoriali.
Vi è, pertanto, bisogno di avviare un processo profondo di rinnovamento, che permetta al sistema della bonifica di rilegittimarsi nei confronti della propria base consortile e della società. Occorre, però, poter intervenire in modo differenziato. La flessibilità dei modelli di gestione all’interno di una medesima Regione, qualora fosse prevista da una ammodernata legislazione nazionale, eviterebbe che gli agricoltori disponibili a farsi carico di gestioni efficienti paghino le conseguenze di atteggiamenti omissivi.
Il mondo agricolo potrà meglio difendere e rilanciare l’”autogoverno” del territorio se dimostrerà senso di responsabilità e capacità gestionale, perseguendo trasparenza e innovazione. E se aprirà un dialogo con altri soggetti economici e sociali interessati a sistemi territoriali competitivi da realizzare unitamente ad un governo efficiente delle risorse ambientali. E’ noto, infatti, che in alcune realtà la contribuenza extragricola sta ormai superando quella del nostro mondo. E’, dunque, nell’interesse degli agricoltori ricercare alleati e favorire la partecipazione all’autogoverno da parte di quel mondo imprenditoriale che, come noi, utilizza le risorse naturali ed è disponibile a collaborare per una loro efficiente gestione. Anche in questo modo potremo più efficacemente difendere i Consorzi e rilanciare la loro insostituibile funzione.
Se questo è il quadro in cui gli agricoltori operano, dovremmo essere noi stessi a sollecitare approcci nuovi allo sviluppo, non più settoriale, ma da “economia delle risorse”, integrato. Non hanno più senso, infatti, politiche pubbliche con ottiche meramente settoriali quando gli snodi da costruire diventano le relazioni che gli usi degli spazi, delle risorse e delle funzioni richiedono. Un tempo si mirava ad ottenere la massima produzione per unità di superficie; ora si deve cercare di ridurre al minimo il consumo di acqua, di energia, di fertilizzanti o fitofarmaci e di contenere il più possibile il loro impatto. C’è un’inversione di logica e le pratiche agricole non sono più le stesse.
In questa problematica più complessa, si inserisce quell’insieme di approcci allo sviluppo che prende il nome di Sviluppo Rurale. E’ un tema che occuperà parte dell’azione amministrativa dei prossimi mesi, sia come applicazione della recente riforma della PAC, sia come componente importante della Politica Strutturale dell’Unione Europea, che dovrà essere riorganizzata e rifinanziata.
Non si può, tuttavia, non rilevare che oggi la politica di sviluppo rurale costituisce di fatto un aspetto della PAC e non ha per nulla un approccio integrato con le altre politiche regionali. Eppure, i dilemmi dello sviluppo contemporaneo delle aree rurali (dalla risk society alla globalizzazione, dalla crisi del welfare state al mancato decollo della welfare society) richiedono effetti d’integrazione, da produrre in parte per via attiva e in parte per impatti indiretti.
Pertanto, l’Unione Europea dovrebbe trasmettere nei paesi membri impulsi più incisivi per accelerare la transizione verso politiche attive e integrate e per riorganizzare gli assetti amministrativi e gestionali al fine di rendere operative tali politiche. Altrimenti difficilmente si potranno afferrare le opportunità economiche derivanti dalla valorizzazione delle risorse ambientali e culturali e seriamente affrontare i nodi dell’invecchiamento della popolazione e della fragilità delle reti di protezione sociale e di quelle infrastrutturali, materiali e immateriali, che caratterizzano la gran parte dei territori rurali europei. Si tratta, insomma, di riorientare la spesa comunitaria affinché il denaro pubblico serva a preparare il futuro e non a congelare il presente o a perpetuare un passato ormai messo in discussione.
Nonostante i limiti richiamati sopra, la riforma di medio termine della PAC può offrire nuove opportunità, che per essere colte, richiedono conoscenze più mirate, valutazioni di carattere strategico e capacità di innovazione. Ad esempio, il carattere di multifunzionalità del settore è destinato ad estendersi in modo più deciso ai complessi fenomeni che caratterizzano il rapporto tra agricoltura e ambiente, sia in termini di sostenibilità e di tutela, sia in chiave di valorizzazione delle risorse naturali.
Attualmente il sostegno alla gestione del territorio, all’interno degli interventi di sviluppo rurale, è irrisorio ed è erogato in modo dispersivo e disorganico. Le misure che lo riguardano sono, infatti, molteplici: “silvicoltura” (o “altre misure forestali”); “miglioramento fondiario”; “gestione delle risorse idriche in agricoltura”; “sviluppo e miglioramento delle infrastrutture connesse con lo sviluppo dell’agricoltura”; “tutela dell’ambiente in relazione all’agricoltura, alla silvicoltura, alla conservazione delle risorse naturali, nonché al benessere degli animali”; “imboschimento delle superfici agricole”. Dal momento che le Regioni tendono generalmente a spalmare le risorse finanziarie su tutte le misure in modo indifferenziato, gli interventi che si realizzano sono per lo più di scarsa entità. Nonostante le sollecitazioni non si è ottenuta una maggiore concentrazione di risorse su determinate misure per la gestione del territorio.
Forse un impulso a migliorare la situazione potrà venire dalla programmazione 2007-2013. Infatti, la bozza di regolamento sul sostegno dello sviluppo rurale per quel periodo prevede che sia assicurato all’asse tematico “ambiente e gestione dello spazio rurale” il 25 per cento del finanziamento complessivo, comprendendo anche le iniziative di sviluppo rurale legate ai siti Natura 2000.
Per quanto concerne, invece, l’integrazione delle istanze ambientali nella PAC, già a partire dalla fine degli anni Novanta, si era proposto il cosiddetto sostegno condizionato (o condizionalità). Tale scelta ha determinato una proliferazione di svariati “livelli di riferimento”: “Requisiti minimi”, “Buone Pratiche Agricole”, “Criteri Obbligatori di Gestione”, “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” e “Buone Pratiche Zootecniche”. Da un lato questa pluralità di “livelli di riferimento” consente di graduare e finalizzare meglio gli interventi, dall’altro rischia di generare confusione tra gli operatori e notevoli complicazioni gestionali per le autorità amministrative.
Adesso la riforma di medio termine ha rafforzato le misure agroambientali già esistenti ed ha stabilito che gli agricoltori che beneficiano dei pagamenti diretti debbano rispettare alcuni “criteri di gestione obbligatori” ed impegnarsi anche “a mantenere la terra in buone condizioni agronomiche e ambientali”. Pertanto, i “livelli di riferimento” si ampliano ulteriormente ed alcuni, operanti nel primo e nel secondo pilastro, si sovrappongono. Ma non vi è dubbio che muta la qualità dell’approccio. Si passa, in sostanza, da una politica di “tutela dell’ambiente” tout court ad una più ampia politica di “gestione della tutela dell’ambiente”. Se consideriamo che in Italia la superficie che sarà soggetta alla condizionalità dovrebbe attestarsi intorno agli 11-12 milioni di ettari e che finora le misure agroambientali hanno interessato solo 3 milioni di ettari e con uno scarso legame alla gestione del suolo, si comprende la valenza strategica di tale innovazione, ma anche la sua complessità.
Pertanto, diventa necessario costruire sinergie tra i vari settori dell’amministrazione coinvolti, adeguare le scelte di programmazione attuate nell’ambito dei POR e PSR, armonizzare a livello nazionale gli standard minimi ambientali per evitare disparità di trattamento, razionalizzare i controlli e promuovere la sussidiarietà orizzontale.
Tra le misure per lo sviluppo rurale, è stato opportunamente introdotto un sostegno alla consulenza aziendale. Esso è finalizzato non solo ad accelerare l’adeguamento delle imprese alle norme obbligatorie, ma anche a fare in modo che le stesse si conformino “ad un’agricoltura moderna e di alto livello qualitativo”. Tale misura va considerata, dunque, come un’occasione da non mancare per riorganizzare e rilanciare il sistema dei servizi alle imprese, per farne centri propulsivi della multifunzionalità in collegamento con la ricerca e la sperimentazione. C’è, a tale proposito, un aspetto che merita di essere sottolineato. L’esclusione degli investimenti tra le possibilità di sostegno di questa misura rende necessario un collegamento tra questa e la misura relativa agli investimenti aziendali che prevede proprio il sostegno di interventi strutturali volti a tutelare e a migliorare l’ambiente naturale, le condizioni di igiene e il benessere degli animali.
In tale quadro, manutenzione del territorio e gestione della tutela ambientale potrebbero finalmente essere considerate a pieno titolo sia come funzioni riconosciute dall’intervento pubblico all’impresa agricola, sia anche come azioni volte ad aggiungere valore ambientale ad attività produttive di beni e servizi remunerate dal mercato, sia ancora come entrambe operanti nell’ambito di strategie della qualità legata al territorio. E’ sempre più ampia, infatti, la fascia dei consumatori e dei cittadini che orienta le proprie scelte anche sulla base di bisogni ed attese culturali ed etiche, come a voler premiare i sistemi produttivi che implementano logiche di tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio.
In questa concezione unitaria di sistemi agricoli, orientati al mercato di qualità ad alla valorizzazione dell’ambiente, trova più facilmente spazio la possibilità per gli agricoltori di realizzare specifici interventi di sistemazione e manutenzione del territorio, di cura e mantenimento dei fenomeni di desertificazione e di tutela delle vocazioni produttive del territorio, in convenzione con l’operatore pubblico.
Finora tali funzioni sono state riconosciute all’agricoltura mediante le attività svolte dai Consorzi di Bonifica, che naturalmente dovranno continuare a realizzarle in un rinnovato assetto, più flessibile e differenziato, che veda meglio integrate le loro funzioni con quelle degli altri attori territoriali.
Ma adesso anche gli agricoltori potranno farsi riconoscere dalla collettività la realizzazione di piccole opere di difesa dalle inondazioni, la pulizia degli argini e dei canali di bonifica, l’estirpazione di erbe acquatiche lungo gli alvei, la chiusura di piccole rotte degli argini, la ripresa di frane lungo le sponde dei canali, la riparazione e sostituzione di tubazioni irrigue, lo sgombero delle foci dei canali di scolo e di irrigazione.
La legge di orientamento agricolo ha introdotto fin dal 2001 una nuova normativa che finalmente riconosce anche all’impresa agricola la capacità di produrre quel mix di beni e servizi che caratterizza le imprese di tutti i settori economici. Inoltre, ha previsto la possibilità di individuare i distretti rurali e agroalimentari di qualità ed ha messo a disposizione dei sistemi locali strumenti amministrativi – come i contratti di promozione e di collaborazione, nonché le convenzioni con gli operatori agricoli – per realizzare la modalità distrettuale.
Con la stipula di atti negoziali nell’insieme dei territori rurali, le imprese agricole potranno svolgere meglio la funzione di conservazione e riproduzione dell’equilibrio ecologico. E’ dall’esercizio di quest’opera continua di manutenzione che dipende la qualità dei territori rurali, la loro competitività, il successo delle attività che vi si realizzano. Ed è per questo motivo che i criteri per individuare i distretti in agricoltura non attengono solo alle vocazioni produttive, ai livelli di specializzazione, agli indicatori occupazionali, ma anche al valore estetico e culturale dei paesaggi agrari, sempre più elemento peculiare della biodiversità. E poi alla sicurezza idrogeologica delle colline e delle vallate, al percorso dei fiumi, alla capacità di accumulo degli invasi, al valore ricreativo delle montagne. Si tratta, in sostanza, di misurare le dinamiche di evoluzione e crescita di biosistemi, perché nei distretti si vanno ad integrare processi socio-economici e processi ecosistemici, nella logica della “bioregione”.
Coi nuovi strumenti pattizi tra pubblico e privato, inoltre, si potranno ricucire meglio le fasi frantumate dei processi produttivi e le attività di servizio; remunerarle se non lo fa il mercato. E si potrà superare l’inefficacia dei provvedimenti imperativi e unilaterali nel perseguimento di finalità di interesse generale. A tale proposito, va segnalato che si aprono nuove prospettive anche in campo urbanistico, perché gli impegni assunti contrattualmente dai soggetti privati possono diventare il criterio regolatore nelle scelte di localizzazione all’interno delle aree rurali e la leva più efficace per integrare, salvaguardare e valorizzare le risorse naturali.
Tali innovazioni si sono inizialmente rivelate di difficile applicazione per la mancanza di coordinamento con le norme previdenziali, assicurative e fiscali. E il ritardo dovrebbe farci riflettere se davvero sia conveniente rimanere in regimi normativi speciali o individuare nuovi strumenti selettivi di sostegno della competitività delle imprese simili a quelli operanti in altri settori.
Si è perso tempo anche perché si è voluto ricomporre – a dire il vero abbondantemente fuori tempo massimo come spesso accade nel nostro Paese per tanti contrasti spesso viziati da pregiudizi ideologici – un annoso contenzioso giuridico che si trascinava dal 1975, quando l’Italia recepì la Direttiva comunitaria del 1972 che istituiva la figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale. Coloro che a ragione sostenevano l’estensione di tale qualifica anche alle società hanno ottenuto – col decreto legislativo n. 99 del 29 marzo 2004 – che la nuova definizione di imprenditore agricolo professionale valesse anche per le società agricole.
Ma nessuno ha voluto accorgersi che il contenzioso non aveva più motivo di esistere perché nel frattempo – con il regolamento comunitario n. 1257 del 17 maggio 1999 sullo sviluppo rurale – era andata finalmente in pensione, dopo circa un trentennio, la definizione di imprenditore agricolo a titolo principale. Sicché, a livello europeo, la garanzia di una efficiente utilizzazione delle risorse è ora riposta in tutte quelle aziende agricole che dimostrano redditività, che rispettano requisiti minimi in materia di ambiente, igiene e benessere degli animali ed il cui imprenditore possiede conoscenze e competenze professionali adeguate. Non sono previste altre condizioni. Solo l’Italia si attarda ancora a misurare la professionalità di un agricoltore in base alla quantità di tempo dedicato all’attività agricola oppure al rapporto tra il reddito aziendale e quello proveniente da altre fonti. E lo sta facendo con modalità diverse da Regione a Regione. Mentre la Francia, con tutt’altra logica, misura le competenze professionali di un agricoltore con un criterio assolutamente moderno: la partecipazione ad un periodo minimo annuale di formazione e aggiornamento.
Dal momento che si è voluto mantenere la figura dell’imprenditore agricolo professionale, è stato giusto estendere la nuova definizione anche alle società agricole. In tal modo, l’ammodernamento e il rilancio di un antico strumento (la vecchia mezzadria era anche un contratto societario!) può costituire una grande opportunità per far confluire in un’ impresa agricola capacità professionali e capitali pubblici e privati anche in modo distinto.
Nonostante tali persistenze e anacronismi, non sembrano più esserci difficoltà nell’utilizzazione dei nuovi strumenti normativi da parte della pubblica amministrazione. La Regione Lombardia, ad esempio, è stata tra le prime a recepire nella propria legislazione le novità dei decreti di orientamento. Ed ha definito, nell’ambito dei criteri e delle procedure per la concessione di contributi finalizzati ai regimi di aiuti, quali le “misure forestali” e le “sistemazioni idrauliche forestali”, le forme di coinvolgimento delle aziende agricole.
Esse, infatti, si possono attivare secondo due modalità: 1) indirettamente, come affidatarie di lavori pubblici; 2) direttamente, in qualità di beneficiarie di contributi, in particolare in quanto concessionarie a titolo gratuito di terreni di proprietà pubblica. Per quanto riguarda la prima modalità, la circolare regionale fornisce alle amministrazioni pubbliche gli indirizzi a cui attenersi ai fini dell’affidamento dei lavori e mette a disposizione degli enti pubblici che intendono avvalersi di imprese agricole la modulistica necessaria. Per quanto concerne, invece, la seconda modalità, viene definita la procedura da adottare nel caso in cui un’impresa agricola, in assenza di un contratto d’affitto o di una concessione temporanea a titolo gratuito dei terreni di proprietà pubblica, intenda eseguire interventi selvicolturali finalizzati a miglioramenti ambientali e paesaggistici su proprietà pubbliche.
Naturalmente, anche i Consorzi di Bonifica, annoverati a pieno titolo tra le “pubbliche amministrazioni”, possono stipulare “in deroga alle norme vigenti” contratti di appalto con gli imprenditori agricoli per affidare ad essi lavori che rientrano nelle proprie competenze. Attraverso la derogabilità, si può realizzare, infatti, quella “flessibilità” della disciplina, necessaria per renderla adeguata alle esigenze specifiche delle singole opere che si intendono affidare alle imprese agricole.
E’ dall’ottobre 2001 che l’ANBI ha predisposto uno schema di contratto che si può adattare ai diversi casi che si possono presentare. Se l’opera che si intende affidare è di una certa complessità tecnica, sarà necessaria la progettazione vera e propria; se, invece, il lavoro consiste ad esempio nello sfalcio di erbe, sarà sufficiente una semplice perizia. Ancora. Di fronte ad un lavoro di importo significativo si potrà procedere ai pagamenti attraverso stati di avanzamento; per un lavoro semplice e di importo modesto il pagamento potrà avvenire a consuntivo. Inoltre, se il lavoro è di importo considerevole si potrà chiedere la cauzione definitiva nella misura del 10 per cento; mentre se l’importo è di lieve entità sarà opportuno rinunciare alla cauzione. Infine, se il lavoro, per le modalità di esecuzione, può presentare rischi di danni a terzi, il Consorzio potrà richiedere la polizza assicurativa; a tale polizza specifica potrà rinunciare se l’impresa è già in possesso di una polizza a copertura generale dei rischi a terzi; nessuna polizza sarà da richiedere se il rischio dei danni a terzi è insussistente e irrilevante.
Pertanto, è rimesso al prudente apprezzamento dei Consorzi valutare di volta in volta, a seconda della rilevanza tecnica ed economica del lavoro, nonché delle modalità di esecuzione dello stesso, se procedere o meno a progettazione, se richiedere cauzione, polizza assicurativa, se pagare per stati di avanzamento o a consuntivo.
La sperimentazione di detto contratto ha dato esito positivo in diverse Regioni e non sono state segnalate particolari difficoltà nell’adozione di tale strumento. Tant’è che nella legislazione regionale sulla bonifica, prodotta negli ultimi anni, si è recepita la nuova strumentazione, dandole un più forte valore giuridico. Ad esempio, la legge regionale della Regione Calabria, approvata nel luglio 2003, prevede espressamente all’art. 19 che “i Consorzi possono stipulare convenzioni, ai sensi e con le modalità di cui all’art. 15 del decreto legislativo n. 228/2001, con gli imprenditori agricoli, di cui all’art. 2135 c.c., iscritti al Registro delle Imprese, in particolare per realizzare attività ed opere di tutela e conservazione delle opere di bonifica e del territorio”. In tal modo, i Consorzi non solo contribuiscono a rafforzare la multifunzionalità delle imprese agricole, ma accrescono la loro rilegittimazione nei confronti dei consorziati.
Anche gli enti parco possono stipulare contratti con gli agricoltori che operano nelle aree protette per affidare loro compiti specifici di tutela ambientale e di promozione della biodiversità. Lo prevede espressamente il Protocollo di Intesa tra le Organizzazioni agricole, la Federparchi e la Legambiente, sottoscritto nell’aprile scorso. Il contratto-tipo elaborato dall’ANBI potrebbe essere preso come riferimento e adattato alla realtà delle aree protette.
La pratica negoziale finalizzata alla manutenzione del territorio andrebbe estesa pure ai rapporti tra i Comuni e gli agricoltori nell’ambito di programmi territoriali di promozione del welfare locale, affidando alle iniziative di sviluppo sostenibile il ruolo di riqualificare ed espandere i servizi sociali nelle aree rurali. Un Protocollo di Intesa tra le Organizzazioni agricole e l’ANCI potrebbe favorire la diffusione di relazioni pattizie tra gli enti locali e le imprese agricole per rafforzarne la multifunzionalità ed accrescere l’efficienza dell’intervento pubblico.
Nelle aree montane, invece, esiste già una esperienza consolidata, vigendo dal 1994 una norma (art. 17 della legge n. 97) che prevede la possibilità di appaltare lavori di manutenzione del territorio agli agricoltori. E che, in caso di scambio di servizi tra soci di una stessa associazione, fa scattare i benefici fiscali. Si tratta della prima enunciazione dell’impresa agricola di servizi che, successivamente, coi decreti di orientamento trova il suo compimento. Significative sono state anche le esperienze che in questi anni si sono realizzate nei rilievi in virtù di questa legislazione antesignana, pur tra le difficoltà dovute alla mancanza di coordinamento delle norme.
E’ ora all’esame della Camera la proposta di legge La Loggia, volta a rinnovare la normativa sulla montagna. Essa non solo conferma i contenuti dell’art. 17 della legge attuale con le modifiche apportate successivamente, adeguando il limite dei lavori che si possono affidare agli agricoltori da 50 milioni di lire a 75 mila euro. Ma prevede anche che tutti gli enti, compresi quelli interessati ai servizi ambientali, possono istituire centri multifunzionali, il cui funzionamento potrà essere assicurato mediante la stipula di convenzioni e contratti con imprenditori agricoli sulla scorta di quanto previsto dai decreti di orientamento. Si potranno aprire così varchi mai esplorati di collaborazione a vasto raggio tra il potere pubblico e le imprese agricole per tutelare e valorizzare la montagna, passando da un riconoscimento indiretto ad uno diretto del ruolo insostituibile degli agricoltori che operano nelle aree montane.
La logica negoziale tra il pubblico e il privato per la manutenzione del territorio, pertanto, ha molteplici possibilità di esprimersi. Tuttavia, essa si potrà affermare se la promozione della cooperazione istituzionale e sociale a livello locale sarà accompagnata da un’azione di indirizzo, coordinamento e supporto da parte delle organizzazioni imprenditoriali, sindacali e della società civile sul piano nazionale. E’ a questo livello che occorre un maggiore impulso per favorire intese volte a migliorare i contesti ambientali e i sistemi di certificazione così come previsto dall’Accordo Quadro sottoscritto al CNEL da 21 organizzazioni nel maggio scorso.