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Intervento al Convegno "Ciro Candido a cento anni dalla nascita: da spaccapietre a organizzatore di movimenti di massa, a pubblico amministratore". Montescaglioso - Abbazia - 29 luglio 2023
Ho avuto modo di frequentare Ciro Candido nella seconda metà degli anni Settanta quando entrambi eravamo dirigenti della Confcoltivatori in Basilicata.
Proveniva dalla Cgil, come Cosimo Vitelli e Giovanni Campanella. E insieme dirigevano l’organizzazione materana.
Ciro presidiava il Patronato INAC. Un’attività non facile che richiedeva una conoscenza approfondita delle normative sociali e previdenziali associata ad una sensibilità umana particolare.
Egli possedeva entrambe queste doti. E si dedicava a tale attività con la sua consueta passione.
Era agevolato dal prezioso bagaglio di esperienze che portava con sé dai tempi in cui aveva diretto la Camera del Lavoro ed era stato Sindaco di Montescaglioso.
Avevo letto la ricerca di Rosa Maria Salvia sulle lotte per la terra, che si erano svolte alla fine degli anni Quaranta nel Materano. E così avevo appreso le vicende che lo avevano visto protagonista dell’epopea contadina.
Quando lo incontrai la prima volta in un’assemblea regionale a Potenza fui immediatamente colpito dai suoi tratti premurosi e fraterni nei rapporti politici. E lessi nel suo sguardo, sempre aperto e sorridente, l’orgoglio di aver vissuto quell’esperienza e la consapevolezza di essere stato interprete di una grande storia collettiva.
L’impegno in un’organizzazione di imprenditori agricoli era una sfida non indifferente per chi proveniva da un sindacato di lavoratori dipendenti.
Ma Ciro era ben consapevole dell’innovazione che incarnavamo. E, pertanto, era sempre molto attento, quando interveniva nelle riunioni, a mettere a fuoco questa specificità . Una prova difficile per la sinistra lucana che era uscita dai sommovimenti socio-culturali ed economici avvenuti tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta.
Ricordo le riunioni nella Federazione del PCI di Matera convocate dal segretario Nicola Savino. Andavamo in macchina da Potenza Umberto Ranieri, segretario regionale del partito, Giovanni Bulfaro ed io per discutere con Cosimo e Ciro come rilanciare l’organizzazione nella Collina Materana.
Ci dibattevamo con un problema serio di inadeguatezza della cultura politica, che ci riguardava tutti e rendeva ardua la comprensione dei cambiamenti intervenuti. Nuove figure sociali e stili di vita, un fragile ma significativo tessuto di piccole e medie imprese e campagne che stavano assumendo spontaneamente i connotati di una ruralità di tipo nuovo, non più di miseria ma di relativo benessere.
Con il declino del ciclo fordista dello sviluppo industriale (che nel Sud – tranne che in pochissime realtà limitate – non si era nemmeno avviato), la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, l’agricoltura spontaneamente apriva la lunga stagione di quello che sarà definito “sviluppo sostenibile”.
Noi invece continuavamo a leggere la realtà con gli occhi del passato. Avevamo intuito il problema, ma facevamo fatica ad affrontarlo con gli strumenti culturali adeguati.
Le lotte per la terra
L’epopea contadina e meridionale degli anni Quaranta era lontana, con il carico di sacrifici e di lutti con cui si era conclusa. Per mano della polizia, era caduto Giuseppe Novello a Montescaglioso. E, un po’ prima, Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro a Melissa. C’erano stati poi gli strascichi giudiziari grondanti sofferenze, in cui era stato coinvolto anche Ciro.
Quell’ultimo grande conflitto tra città e campagna e tra Sud e Nord del Paese si era concluso con una bruciante sconfitta del movimento per la terra e meridionale. La rivoluzione del Sud non c’era stata.
A sconfiggere il movimento avevano contribuito essenzialmente due elementi.
Innanzitutto la riforma agraria. Essa era stata elaborata dalla DC e dalla sinistra non comunista. Manlio Rossi-Doria aveva più volte, tra 1946 e il 1948, messo in guardia il movimento: occorreva dotarsi di una proposta efficace e realistica di sviluppo dell’agricoltura e, in generale, del Mezzogiorno. C’era stata la polemica del gatto nero tra lui e Ruggero Grieco che non aveva però condotto a soluzioni di compromesso tra la maggioranza di governo e l’opposizione. Si era, dunque, fatta una riforma agraria che costituiva certamente il necessario colpo d’ariete per dare impulso al processo di modernizzazione del Paese. Ma, in sostanza, si era risolta come primo mattone nella costruzione del sistema di potere democristiano.
L’altro elemento che aveva contribuito alla sconfitta del movimento per la terra era stata l’emigrazione non governata. Questa si era concretizzata nell’identica forma con cui era avvenuta nel periodo del post-brigantaggio: come soluzione individuale del proprio destino.
La lezione era stata compresa per tempo da Rocco Scotellaro che era passato dalla politica attiva, come Sindaco di Tricarico, alla “politica del mestiere”, sulla scia di Rossi-Doria. Aveva compreso che ci volevano strumenti culturali nuovi di intervento politico: l’inchiesta sociologica partecipata, la con-ricerca, la raccolta di storie di vita, la ricerca qualitativa.
E’ l’esperienza di Portici quando il professore di Economia agraria, con Scotellaro e Gilberto Marselli, apre l’Osservatorio alla Sociologia.
Ma tutto si blocca un mese prima della morte del poeta di Tricarico. Nel novembre 1953, in un convegno a Napoli organizzato dalla Cassa del Mezzogiorno, Pasquale Saraceno, direttore della SVIMEZ, annuncia la strategia dell’industrializzazione forzata dall’alto come panacea dei mali del Sud . Una strategia che si rivelerà del tutto fallimentare.
La politica come impegno collettivo
In quelle riunioni materane cui accennavo, Ciro richiamava le esperienze dei decenni precedenti per ricordarci il senso che lui dava all’impegno politico e sindacale.
“La politica – egli diceva – serve a risolvere i problemi, grandi e piccoli”. E ci ricordava che “i diritti si conquistano con la partecipazione attiva alla vita politica e sindacale, con le iniziative e con le lotte”.
Ciro era convinto che i fini di una società che vuole progredire fossero le esigenze di giustizia, di eguaglianza, di libertà , di accettazione dell’altro. E gli strumenti (dalla politica all’autorganizzazione sociale, dal benessere economico alla tecnica) dovessero essere subordinati a questi fini.
Per noi più giovani, il rapporto con compagni come Ciro aveva il significato di un percorso educativo alla politica come impegno collettivo.
Per questo, nel centenario della sua nascita, avvertiamo il bisogno di esprimere tutta la nostra riconoscenza.