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Nel centenario della nascita di Giuseppe Avolio si ripropone un articolo di Emanuele Bernardi e Alfonso Pascale pubblicato il 9 febbraio 2019 nel sito www.ceslam.cloud
Per comprendere l’europeismo di Giuseppe Avolio è utile ripercorrere, sebbene succintamente, la sua biografia e indagare, in particolare, il legame profondo che egli costruì con Lelio Basso fin dagli anni in cui quest’ultimo svolse la funzione di segretario del Partito socialista italiano (Psi). Nato ad Afragola il 10 dicembre 1924, Avolio compì gli studi classici a Napoli. Di famiglia socialista, divenne antifascista nel 1942. Chiamato alle armi nell’agosto del 1943, appena diciottenne, venne catturato dai tedeschi a Torino la sera stessa dell’8 settembre e deportato in Germania, dove rimase per due anni in campo di concentramento. Liberato dagli americani nel 1945, e tornato dalla prigionia, nel gennaio 1946 fu eletto segretario della sezione del Psi di Afragola. Dal 1948 al 1950 diresse l’edizione napoletana dell’Avanti! e l’anno dopo entrò a guidare, insieme al comunista Pietro Grifone, l’Associazione dei contadini del Mezzogiorno, sorta appunto a Napoli nel 1951.
Già in quel periodo Avolio, in linea con Basso, aveva un atteggiamento per nulla succube nei confronti dei comunisti e insieme a lui osteggiava anche l’idea di una fusione dei due partiti della sinistra. Tra i motivi di quella scelta c’era la convinzione che l’Italia fosse inclusa definitivamente nell’area occidentale e che il Partito comunista italiano (Pci) non potesse riuscire a conciliare l’adesione ai 21 punti della Terza Internazionale con la via nazionale al socialismo.
Sull’europeismo Basso condivideva l’idea del superamento degli Stati nazionali che ispirava il Manifesto di Ventotene. Dirà trent’anni dopo: «È chiaro che per un socialista che si richiama a Marx come io mi richiamo, non c’è nessuna difficoltà a riconoscere il superamento dello stato nazionale. Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello “proletari di tutti i paesi unitevi” i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati. I capitalisti hanno fatto l’internazionalizzazione nelle grandi “multinazionali”, mentre il movimento operaio è rimasto a livello nazionale»1. Quello che lo trovava dissenziente nei confronti della posizione di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni era il problema della priorità di quella battaglia per il superamento della sovranità nazionale su tutte le altre. L’esponente socialista riteneva la democratizzazione dello Stato italiano una precondizione per costruire successivamente un’Europa federale. L’idea degli “Stati Uniti d’Europa” era dunque nello sfondo dell’azione politica di Basso come obiettivo di medio lungo periodo, dovendosi prima realizzare un rinnovamento democratico, dal punto di vista politico, istituzionale e culturale, di un paese che egli considerava in quegli anni profondamente fascista. Quell’ispirazione di fondo influenzò giovani socialisti come Avolio, affascinati dalla salda cultura politica di Basso, studioso di Carlo Marx dei più agguerriti e di Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria di nascita e cultura polacca, morta nei moti di Berlino del 1919 insieme a Karl Liebknecht. Basso considerava Luxemburg la più vicina alle sue idee e scrisse negli anni Cinquanta una bella introduzione ai suoi scritti politici2.
Con la “svolta stalinista” del Psi al congresso di Bologna del 1951, Basso fu isolato per le sue idee da molti suoi “amici” ad eccezione di Avolio e di pochissimi altri compagni. L’ex segretario del Psi, successivamente, in una lettera indirizzata al giovane dirigente socialista ricorda il piacere del conforto ricevuto in quei momenti neri della sua vita politica3.
La creazione del Mercato Comune Europeo
Costituitasi a Roma, nel 1955 l’Alleanza nazionale dei contadini, Avolio ne venne eletto vicepresidente, prima con Ruggero Grieco e poi, dopo l’improvvisa scomparsa di questi, con Emilio Sereni presidente. L’Alleanza dei contadini assunse fin dall’inizio, in linea con le posizioni politiche dei partiti di riferimento – Pci e Psi – un atteggiamento critico verso il Mercato Comune Europeo (Mec). I punti più controversi sono abbastanza noti: la posizione dominante di gruppi economici attrezzati e monopolistici; la discriminazione verso aree deboli, e settori economici come l’agricoltura, in favore di un progetto di organizzazione commerciale e industriale dell’area occidentale contrapposto a quello dell’est, foriero di tensioni e quindi condizioni – si temeva – per una nuova guerra4. Va segnalato, allo stesso tempo, come i vertici dell’Alleanza – che aderì al Comitato Europeo per il Progresso Agricolo (Comepra) – ritenessero molto importante essere rappresentati nelle sedi internazionali, con una sensibilità che potremmo definire globale, di sistema, nel tentativo di superare le preclusioni e le barriere poste loro dall’integrazione in corso di stampo occidentale.
In questo quadro, le dinamiche politiche nazionali aiutano a capire come l’europeismo di Avolio diventi presto uno strumento di soluzione delle contraddizioni che esistevano a sinistra sulla collocazione del nostro paese. Egli infatti aderì alla corrente di Basso sorta dal congresso socialista di Venezia del 1957, quando quel partito – senza rinunciare al “mito” dell’Urss -, si distaccò dall’esperienza staliniana del comunismo sovietico e decideva un voto favorevole in Parlamento per quel che riguarda l’Euratom e di astenersi sul Mec, mettendo fine alla relazione “frontista” col Pci per avviare un dialogo ravvicinato con la Democrazia cristiana5.
L’astensione parlamentare dei socialisti sui Trattati di Roma – la dichiarazione di voto fu pronunciata da Basso – rifletteva una posizione critica verso gli assetti del nucleo europeo che si veniva formando, ma positiva nel riconoscere i vantaggi potenziali e futuri, commerciali e occupazionali, dell’integrazione economica. Differenziandosi dai comunisti, attestatisi sul “no”, la via italiana per il socialismo si combinava con l’idea di un’Europa non atlantica, senza allineamenti, immaginata come un “ponte” verso l’Est, per la distensione internazionale, nel superamento delle logiche divisive della prima fase della guerra fredda. In quest’ottica, lo spazio europeo diveniva contendibile alle forze conservatrici, un’area politica nella quale muoversi nell’ottica e con una responsabilità di governo6.
Anni Sessanta, la militanza nel Psiup
Eletto deputato alla Camera nella III, IV e V legislatura, Avolio, critico tanto verso la Dc quanto verso le posizioni “aperturiste” di Pietro Nenni, divenne uno degli animatori della “fronda” interna al Psi che avrebbe portato, nel 1964, alla scissione del Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), con la partecipazione di figure come Vittorio Foa, Tullio Vecchietti, oltre allo stesso Basso. Un percorso travagliato, scandito da un’acuta preoccupazione che gli ideali socialisti potessero essere posti a repentaglio dall’esperienza di governo e da un’ansia altrettanto forte di ricostruire in forme nuove e più ampie la sinistra, come base necessaria per l’alternativa alla Dc e alle forze conservatrici.
Accanto a questa sensibilità tutta politica, camminava la storia dell’agricoltura italiana, e continuava la competizione con la Dc e le organizzazioni a lei collaterali per spostare gli equilibri politici nazionali; spostamenti considerati necessari per influire sugli stessi equilibri europei, secondo la convinzione che in Europa si stessero riproducendo, su scala maggiore, le storture e le anomalie italiane.
La situazione mondiale era caratterizzata d’altronde non solo dai fatti europei, ma anche – e forse soprattutto – da grandi avvenimenti e questioni, come la guerra nel Vietnam, che dividevano le coscienze e costituivano motivo di forti divisioni, tensioni e faticose trattative diplomatiche tra le nazioni. Con le campagne condotte dalle colonne del giornale Mondo Nuovo, di cui Avolio fu direttore dal 1964 al 1967, la fine della guerra in Vietnam e la sollecitazione di un accordo di collaborazione tra israeliani e palestinesi furono considerate condizioni decisive per la pace nel Mediterraneo, “cerniera” dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo.
Nell’ambito del conflitto arabo-israeliano Avolio diede mostra di grande iniziativa, col recarsi al Cairo, insieme al segretario Vecchietti, ad incontrare il leader egiziano Gamal Abdel Nasser, per rafforzare l’ipotesi della pace:
“Ricordo che ci recammo insieme [a Vecchietti] al Cairo per incontrare Nasser nella primavera del 1968, […]. Nasser aveva dato le dimissioni, ma spontanee e grandi manifestazioni popolari a suo favore lo indussero a ritirarle. L’impianto politico centrato sul panarabismo andava, però, modificato. In questo senso Tullio espose in modo impareggiabile la nostra posizione favorevole, tra l’altro, alla costituzione di uno stato plurinazionale in Palestina, in cui potessero convivere pacificamente arabi ed ebrei, convincendo Nasser a battersi per questa soluzione. Nasser affermò di essere personalmente convinto che fosse quella da noi indicata la sola scelta realistica, ma aveva molti dubbi che sarebbe passata. Il giorno dopo, infatti, partecipammo a una grande manifestazione popolare in suo onore e comprendemmo che la direzione del movimento era nelle mani degli oltranzisti della corrente dei ‘fratelli musulmani’7.
Nel periodo della sua militanza nel Psiup e, in particolare, della direzione di Mondo Nuovo (che non si limitava alla funzione di bollettino del partito, ma si ergeva a tribuna di riflessione teorica), Avolio accumulò una formidabile esperienza di promotore di dibattiti culturali, mettendo a confronto apporti provenienti da ambienti anche molto lontani tra di loro (Amendola, Libertini, Lombardi, Panzieri, Santi, Amato, Labor, Luigi Bobbio, Rostagno) con l’intento chiaro e determinato di produrre una nuova cultura della sinistra, guardando soprattutto alle esperienze spagnola e francese. Tramite il responsabile esteri Pino Tagliazucchi, una singolare figura di intellettuale e sindacalista dell’ufficio internazionale della Cgil, poté allacciare rapporti coi partiti socialisti di altri paesi dell’Europa occidentale8.
1973-1977, responsabile della politica agraria del Psi
La fine degli accordi di Bretton Woods e la svalutazione del dollaro decise da parte americana, insieme alla crisi petrolifera, segnarono profondamente la prima fase degli anni Settanta, mostrando ancora una volta la profonda interdipendenza dell’economia dei paesi europei con quella americana. La Politica agricola comune (Pac) aveva dispiegato alcuni dei suoi effetti più contraddittori, manifestando luci e ombre del processo di integrazione.
Tale politica si era, infatti, progressivamente modellata in funzione dei rapporti di forza dei diversi Paesi, dove erano prevalsi gli interessi francesi e tedeschi e, pur di conservare con la Pac quel bandolo di progetto europeo che essa rappresentava (essendo pressoché l’unica politica comune), si erano progressivamente accettati compromessi rivolti ad assicurarsi, su di essa, il consenso più vasto e immediato possibile: (a) in primis si era rinviato nel tempo e ridotto ad un miserrimo impegno di bilancio il progetto di accompagnare la politica dei mercati con una adeguata politica strutturale (che sarebbe stata fondamentale soprattutto per affrontare l’arretratezza dell’agricoltura italiana); (b) il livello dei prezzi garantiti, iniziando dall’Organizzazione Comune dei Mercati (Ocm) dei cereali e poi a cascata su tutte le altre Ocm, prendendo a riferimento l’“azienda familiare sana” della Baviera, veniva fissato ad un livello particolarmente elevato (con grande vantaggio soprattutto per i grandi produttori dell’agricoltura francese), trascurando l’impegno (sancito nel Trattato di Roma) ad assicurare “prezzi ragionevoli” per i consumatori, e soprattutto innescando quella reazione che renderà rapidamente la Comunità europea eccedentaria in quasi tutti i prodotti agricoli protetti; (c) si erano trascurate in gran parte le produzioni mediterranee di frutta, ortaggi freschi, agrumi, vino con la conseguenza (anche per grave responsabilità dei governi italiani, più attenti all’agricoltura padana che a quella del resto d’Italia) di concentrare i benefici della Pac sui prodotti dell’agricoltura continentale; (d) si erano avvantaggiati principalmente pochi grandi beneficiari dei territori già favoriti in termini di potenziale agricolo e di posizionamento rispetto ai mercati (il 20% che percepisce l’80% dei benefici), trascurando i territori interni e più periferici e le imprese agricole di minori dimensioni e con maggiori condizionamenti ambientali e problemi strutturali assegnando sostegni modesti e spesso inadeguati.
Nel 1972, esauritasi l’esperienza del Psiup e la sua attività parlamentare, Avolio ritornò nel Psi, e nel Congresso di Genova venne eletto membro della direzione. Un anno dopo, e fino al 1977, assunse l’incarico di responsabile nazionale della politica agraria del partito, cui dedicò particolari energie, coinvolgendo altre figure, come Ercole Bonacina, Venerio Cattani e Manlio Rossi-Doria, nello studio della politica agricola nazionale e comunitaria. Sono gli anni tra l’altro, nei quali l’Italia presta finalmente adeguata attenzione alla realtà comunitaria, con il democristiano Franco Maria Malfatti a presidente della Commissione europea, Altiero Spinelli prima e Antonio Giolitti nominati commissari, e con un netto ampliamento del numero e del livello dei funzionari e dei tecnici attivi a Bruxelles, tra i quali possono essere ricordati Luciano Cafagna, Vincenzo Guizzi, Claudio Guida, Riccardo Perissich, Vito Saccomandi. Gran parte dei quali impegnati tra l’altro a formulare una piattaforma socialista sui temi dell’Europa, dell’agricoltura e del Mezzogiorno.
Proprio in quel lasso di tempo, la Pac andava cambiando forma. Il 17 aprile 1972 il Consiglio della Cee, emanò tre Direttive concernenti: 1. L’ammodernamento delle aziende agricole. 2. L’incoraggiamento alla cessazione dell’attività agricola e alla destinazione della superficie agricola per scopi di miglioramento delle strutture. 3. L’informazione socio-economica e la qualificazione professionale. A queste tre, si sarebbe aggiunta poi una direttiva circa la montagna.
Influenzato dal Memorandum dell’olandese Sicco Mansholt (1968)9, il dibattito politico sul recepimento di queste direttive si sviluppò problematicamente sulla “questione” dell’adeguatezza delle direttive comunitarie: se queste, seppure imperfette, fossero comunque strumenti utili per spingere dall’esterno l’agricoltura italiana verso obiettivi convergenti e condivisi con altri paesi; o se esse rischiassero invece di ritardare la riorganizzazione del settore primario e il cammino comune, e andassero quindi per questo adattate alle specifiche condizioni ambientali, sociali e culturali di ogni paese. Un “nodo” presente tutt’oggi all’attenzione delle classi dirigenti dell’Italia.
Per Avolio e il Psi, il passaggio dei finanziamenti europei dal sostegno ai prezzi agli interventi sulle strutture – come profilato con le nuove direttive – andava valutato positivamente, ma erano i redditi agricoli il vero problema dell’Italia. Il processo d’intensificazione colturale e di modernizzazione dell’agricoltura italiana aveva effettivamente inciso sulle sacche di povertà di alcune zone del nostro paese, ma aveva avuto un costo sociale troppo alto – ragionò a più riprese il dirigente socialista – con un’emigrazione sregolata, il fenomeno della senilizzazione della forza lavoro, il progressivo abbandono delle aree interne e la marginalizzazione di interi pezzi del mondo rurale: un quadro che indicava una “fragilità complessiva” dell’apparato produttivo, che l’Italia aveva portato in Europa, senza dargli una risposta pianificata.
Il “vincolo esterno” costituito dalle direttive comunitarie sulle strutture agrarie poteva essere, in questo quadro, una sorta di opportunità, per avviare “contestualmente” una politica di interventi riformatori in campo nazionale, come la regionalizzazione della politica agricola, i piani zonali, la fine dei contratti di mezzadria e colonia, le provvidenze per i piccoli proprietari concedenti, la legge sui fitti rustici, la cooperazione. Alla luce delle molte differenze interne e contraddizioni dell’agricoltura italiana, tali direttive, – era la proposta – potevano essere recepite senza essere considerate definitive, bensì “a tempo”, lungo un percorso di valutazione, come in un esperimento, per pesare i loro effetti reali nei singoli contesti agricoli.
1977-2000. Presidente della Confcoltivatori (poi Cia)
Globale, nazionale e locale si muovevano dunque dentro la riflessione di Avolio, secondo un impianto culturale che connoterà anche l’azione della Confederazione italiana coltivatori (Cic), di cui venne eletto presidente nel 1977, a seguito di un intenso lavoro di coordinamento tra diverse sigle sindacali. Avolio fu uno dei principali protagonisti di quel processo di unificazione10. Lo animò la profonda convinzione che proprio le dinamiche europee, entro quelle globali, rendessero strategica l’unità del mondo agricolo per consolidare la democrazia italiana e modificare, o almeno attenuare, alcune delle conseguenze più negative dello sviluppo industriale nazionale.
Solo attraverso l’unità delle organizzazioni professionali agricole sarebbe stato possibile raggiungere quella massa critica necessaria a condizionare prima la politica economica nazionale, e poi a pesare in Europa. Il ri-bilanciamento del rapporto di forze poteva e doveva essere un obiettivo di tutti i partiti e le culture politiche, che senza distinzioni dovevano contribuire, per le sorti di uno sviluppo nazionale più equilibrato, a dar vita ad un solido fronte agricolo, abbandonando ogni idea di collateralismo: convergere per superare la frammentazione, e quindi la debolezza, della rappresentanza agricola, in Italia come in Europa.
Avolio sollecitò Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti, in una lettera del 1984, a «ricavare insieme le ragioni di un possibile cammino da continuare in comune, in un momento nel quale sempre meno si giustificano le divisioni ed i contrasti fra le organizzazioni di rappresentanza degli interessi dei produttori agricoli»11. Ma intervenendo al 3° Congresso della Cic del 1986, Lobianco rispose a quella sollecitazione in modo polemico: «Storicamente abbiamo lavorato per ottenere il consenso dei coltivatori sulla base di progetti e capacità di gestione di programmi derivanti dalle caratterizzazioni politiche ed ideologiche delle nostre organizzazioni; ed un patto di vertice, amici della Confcoltivatori, non può cancellare queste diversità, di colpo. Le ammucchiate non hanno senso, come non hanno senso gli accordi di salotto». La replica di Avolio fu ferma e inequivoca, ponendo l’esigenza dell’unità della rappresentanza agricola non come un vezzo o un capriccio, ma come una condizione oggettivamente necessaria per essere ascoltati dalle istituzioni: «Noi ci siamo trovati più volte insieme, e io questo lo dico non per menare un vanto, ma per dare conto ai nostri coltivatori e a quelli delle altre organizzazioni, che abbiamo fatto una opera giusta, indispensabile, necessaria, a favore dell’agricoltura. Perciò io confermo che su questa strada dobbiamo fare ancora molti passi innanzi, e questo non deve essere inteso come una sorta di proposta dell’ammucchiata. […] Nessuna organizzazione può avere la pretesa di rappresentare da sola gli interessi dell’agricoltura italiana. Soltanto insieme possiamo pretendere di rappresentarli e, se saremo insieme, potremo pretendere di essere ascoltati»12.
Con la fondazione della Cic, Avolio volle imprimere una svolta nel modo come la sinistra italiana guardava all’agricoltura, alle sue trasformazioni e alle contraddizioni che si erano aperte a seguito della sua tumultuosa modernizzazione. Intorno alla sua leadership autorevole e coinvolgente anche sul piano umano, si formò una leva di giovani dirigenti, operatori e studiosi dell’agricoltura. I mercati che incominciavano a diventare globali, le innovazioni tecnologiche sempre più dirompenti, le prime timide avvisaglie dei limiti dello sviluppo e della necessità di un ripensamento dei meccanismi della crescita economica e dell’uso delle risorse ambientali, costituivano le sfide da affrontare.
Quel progetto, tuttavia, nonostante la sua forza innovativa per quindici anni rimase monco. Solo dopo la caduta del Muro di Berlino e lo scandaloso disfacimento della Federconsorzi che anticipava l’imminente fenomeno di “Tangentopoli”, poté essere corretto un errore d’impostazione che era rimasto impresso anche nel nome di battesimo: CIC – Confederazione italiana coltivatori. Infatti, al V congresso, che si tenne il 25 giugno 1992, fu finalmente adottata l’attuale denominazione: CIA – Confederazione italiana agricoltori e Avolio concluse l’assise con queste parole: «È finita l’epoca degli ideologismi, nessuno può pensare di farcela da solo. Il processo unitario non può aspettare i tempi delle organizzazioni […]. C’è chi ha ricevuto un’eredità cospicua e ha paura di gestirne i resti, mentre noi, che abbiamo dovuto faticosamente conquistarci il diritto di essere alla pari con gli altri, ci sentiamo pronti e andremo avanti».
Tornare sulle ragioni di quel ritardo aiuta a comprendere la temperie culturale, sociale e politica in cui l’atto fondativo avvenne. Perché l’Alleanza dei contadini (da cui negli anni del primo centro-sinistra si era scissa una costola per dar vita ad un’organizzazione collaterale ai socialisti: Uci – Unione coltivatori italiani) e la Federmezzadri (affrancatasi finalmente dal cordone ombelicale che la teneva legata alla Cgil, nonostante i propri aderenti fossero lavoratori autonomi) decisero di dar vita ad una nuova organizzazione che si identificava con il termine “coltivatori” e non già “agricoltori” come sarebbe stato più giusto?
Fin dagli albori della Repubblica, la sinistra aveva coltivato il sogno – realizzato solo tardivamente nel 1955 – di un’organizzazione contadina, perfettamente speculare e in competizione con la Coldiretti. La quale era frutto della scissione della Federazione italiana degli agricoltori (FIDA), sorta, durante la lotta di Liberazione, dalle ceneri della vecchia confederazione fascista dell’agricoltura. Ma quella scissione – condotta cinicamente a freddo dalla Dc e dalla Chiesa di papa Pacelli – era all’origine della debolezza della rappresentanza del settore primario, il quale, nei principali Paesi europei, si fregiava di grandi e pressoché uniche organizzazioni professionali nazionali. Anziché valorizzare il pluralismo collaborativo e non conflittuale tra i diversi modelli agricoli, come elemento di forza dell’agricoltura nazionale, in sintonia con l’articolazione delle “cento Italie agricole” che già la grande Inchiesta Jacini aveva segnalato come tratto distintivo delle nostre campagne, le due principali culture politiche (cattolico-democratica e social-comunista) sceglievano esclusivamente l’azienda contadina come proprio riferimento sociale nella costruzione del moderno partito di massa nelle aree rurali. Ma si era trattato di una scelta che sicuramente aveva garantito il radicamento politico ed elettorale delle due culture politiche, ma non aveva affatto giovato allo sviluppo economico e sociale del Paese.
La Cic avviò una politica di forte attenzione alle dinamiche europee. Si costituì, infatti, per questo scopo, l’apposito settore “Politica internazionale e mercati”, coordinato da Giancarlo Pasquali, con due uffici sulla Cee (politiche di mercato e politiche strutturali), mentre il vicepresidente della Confederazione, Renato Ognibene, era consigliere del Comitato Economico Sociale Europeo (CESE).
La politica agricola dell’Italia in ambito comunitario, con il dinamismo di Giovanni Marcora (ministro dell’Agricoltura dal 1974 al 1980)13, costituì in quella fase una pagina positiva per la Confcoltivatori, anche se secondo la valutazione di Avolio il combattivo “Albertino” non era riuscito ad intaccare i divari territoriali presenti nel nostro paese. Avolio puntava l’indice soprattutto verso la condizione del Mezzogiorno, rilevando come i partners europei non erano stati «costretti» a considerare le questioni delle aree meno favorite e delle produzioni mediterranee come questioni proprie di tutta la Comunità14.
All’inizio del 1981, proprio su questo argomento si tenne a Palermo l’incontro tra le organizzazioni agricole dell’area mediterranea, per porre al centro del dibattito internazionale il rinnovamento dei rapporti tra Nord e Sud del mondo alla luce dell’imminente allargamento del mercato comune a paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo15. Avolio intraprese personalmente numerosi viaggi con il preciso fine di avviare colloqui diretti con numerose personalità del mondo economico e sindacale, a Londra, in Grecia, a Parigi, in Danimarca, e così via.
Si avviava in quel periodo il lungo potere di François Mitterrand in Francia e l’impegno europeista di Jacques Delors che dal 1985 al 1995 fu presidente della Commissione europea. Mentre in Germania Helmut Schmidt disegnava un volto nuovo della socialdemocrazia tedesca, sia con la sua esperienza di governo, sia con la sua incessante azione intellettuale e contribuiva ad allargare la Comunità ai paesi scandinavi e a disegnare l’architettura dell’unione monetaria europea e della Banca centrale europea. Anche in Italia il Psi di Bettino Craxi elaborava una visione politica di chiaro impianto socialdemocratico ed europeista con Giolitti che continuava fino al 1985 a svolgere la funzione di Commissario europeo. Un mosaico che evidenziava una vivace presenza socialista sul tema dell’Europa che servì a bilanciare gli orientamenti sempre più conservatori che il peso dello schieramento di destra imponeva alla Comunità europea. Gradualmente emergeva la volontà di elaborare un europeismo più legato a valori e interessi della sinistra. Del resto le sue radici erano profonde: Jean Monnet aveva coniugato il suo europeismo e il suo atlantismo con una grande apertura alla socialdemocrazia, basata sulla cultura keynesiana e pianificatrice16.
In tale scenario nuovo, Avolio poté meglio muoversi per affermare la sua visione della riforma della Pac trovando ascolto nelle sedi istituzionali e in quelle delle rappresentanze sociali. Ed è nell’estate del 1983 che prese corpo l’idea di un’iniziativa sul versante europeo, con una “marcialonga” dei coltivatori italiani direttamente a Bruxelles, in vista del vertice comunitario di Atene. Il piano, di sicuro impatto mediatico non fosse altro per il suo carattere inedito, doveva sfociare in una manifestazione finale con una catena umana composta da decine di migliaia di coltivatori italiani che, una volta circondata pacificamente la sede centrale della Commissione europea, distribuisse volantini con le proprie idee sulla riforma della Pac oltre che i nostri prodotti tipici. E così in effetti fu, quando l’8 novembre 25 mila coltivatori di tutte le regioni italiane chiesero «Una nuova politica agricola comune per una nuova Europa»17, con un assedio simbolico delle istituzioni comunitarie, replicato poi quindici anni dopo (“Marcialonga 2″, svoltasi a Bruxelles il 31 marzo 1998)18.
Il “no” alle quote latte
Avolio non ebbe alcuna remora nell’assumere, nel corso della manifestazione del 1983, una posizione di netta contrarietà alla proposta della Commissione europea di istituire le “quote latte”, una misura approvata l’anno successivo e che risulterà disastrosa per l’Italia, determinando la chiusura di decine di migliaia di stalle e diversi miliardi di euro di multe da pagare. La posizione del presidente della Cic era isolata in Italia e in Europa ma la sostenne con convinzione. I fatti si sono incaricati di dargli ragione perché il sistema delle “quote latte”, essendo legate a rese storiche aziendali ormai lontane nel tempo, sono diventate una rendita e un capitale in mano all’originale produttore, che nel trasferirle ad altri uscendo dal settore in modo oneroso, ha impedito l’entrata di nuovi attori più motivati e imprenditorialmente più evoluti. Inoltre, tale sistema ha il difetto di rallentare il progresso tecnologico o di distorcerlo. E nello stesso tempo, applicandosi indifferentemente a paesi eccedentari e a paesi deficitari (come il nostro), ha cristallizzato gli squilibri tra le diverse aree territoriali e rinnegato così uno dei principi basilari del Trattato di Roma. Lo strumento delle “quote latte” si è rivelato del tutto inadeguato a ridurre le eccedenze produttive nei paesi nord-europei. Non a caso è stato mantenuto per oltre tre decenni. Ed è stato deleterio per un paese come l’Italia, caratterizzato da un insufficiente livello di autoapprovvigionamento di prodotti della zootecnia bovina e lattiero-casearia. Negli anni successivi, inascoltato, Avolio continuò ad insistere per abbattere le eccedenze produttive non già con le “quote latte” ma attraverso la modulazione dei prezzi indicativi, di intervento e il superamento della “garanzia illimitata”. Riteneva che gli squilibri strutturali andassero rimossi sostenendo la qualità delle produzioni e dei processi, irrobustendo le politiche territoriali di sviluppo e rafforzando i programmi di ricerca, sperimentazione e innovazione tecnologica.
La “quota latte” per l’Italia fu definita prendendo a riferimento la produzione di latte realizzata nel 1983. Fu il governo a indicarla, fornendo però alla Commissione europea un dato sbagliato per difetto. Quando fu chiaro che era stato commesso un errore madornale, il ministro dell’agricoltura dell’epoca, Filippo Maria Pandolfi, assicurò che le multe non sarebbero mai state applicate all’Italia, un paese il cui fabbisogno superava di gran lunga la produzione. Arrivò persino a dire che c’era un “accordo tacito” per escludere il nostro paese dall’applicazione di eventuali sanzioni dissuasive. Era una bugia. Ed era questo il modo con cui le strutture amministrative del nostro paese ritenevano di far parte delle istituzioni europee. Negli anni successivi il conto arrivò e fu molto salato.
Riflettendo sul periodo del suo incarico di Commissario a Bruxelles, Antonio Giolitti ha scritto: «L’appartenenza alla Comunità esercitava un forte stimolo all’ammodernamento e all’efficienza delle nostre strutture produttive e amministrative (meno, naturalmente, sul nostro sistema politico). Le prime hanno risposto in complesso positivamente, sia pure con risultati disparati e perciò squilibrati e squilibranti nei diversi settori, e talvolta con effetti perversi, come quello dell’economia “sommersa” che vuol dire ricerca dell’efficienza e della competitività per vie assai precarie, troppo all’italiana e troppo poco all’europea. Tuttavia, gli effetti si possono considerare postivi, almeno per quanto riguarda, diciamo così, la sopportabilità del confronto su quel terreno con i nostri partner europei. Non così per l’apparato amministrativo, assolutamente insensibile e impermeabile a quello stimolo: con conseguenze nefaste non solo dal punto di vista dell’efficienza ma anche per l’economia del paese e per il livello e la qualità della sua partecipazione alle politiche comunitarie. L’inefficienza ammnistrativa ha indotto a ricercare nel negoziato a livello politico qualche beneficio meramente finanziario, rinunciando ad esercitare una influenza efficace sul modo di concepire e organizzare le politiche comunitarie: penso soprattutto alla politica agricola e a quella regionale e mediterranea»19.
Un patto tra pari per il progresso
Nonostante la differenziazione sul sistema delle quote latte, il dialogo con le altre organizzazioni agricole continuò normalmente.Nel luglio 1985, grazie a un’inedita unità di intenti delle diverse rappresentanze agricole e alla propria capacità di mobilitazione e di dialogo, la Confederazione fu finalmente accettata nel Comitato Europeo delle Organizzazioni Professionali Agricole (Copa),che raccoglie al suo interno anche il Comitato Generale della Cooperazione Agricola (Cogeca), a sei anni di distanza dalla richiesta avanzata formalmente. L’anno successivo fu aperta la prima sede a Bruxelles.E da allora ha avuto propri rappresentanti, nominati dalla Commissione, nei Comitati Consultivi, che sono strutture organizzate per prodotti o gruppi di prodotti.
Avolio era un convinto assertore della necessità di promuovere la contrattazione interprofessionale tra agricoltura, industria e servizi, rivisitando e rafforzando le norme sulla qualità dei prodotti e concertando con l’industria sistemi di qualità riconoscibili dai consumatori, convenienze economiche e meccanismi di produzione e distribuzione del valore aggiunto. Il Consiglio delle Cee aveva emanato il Regolamento 19 giugno 1978 n. 1360 sulle Associazioni dei produttori agricoli e le relative Unioni per stimolare, in particolare in Italia, Francia e Belgio, la costruzione di un tessuto associativo al fine di adattare in comune alle esigenze di mercato, la produzione e l’offerta. Su impulso di Marcora, il Regolamento comunitario era stato tempestivamente recepito con la Legge 20 ottobre 1978 n. 674. Ma in realtà le norme erano rimaste pressoché sulla carta. Poche le Regioni che si erano attivate e mancava un quadro programmatorio di riferimento per la negoziazione.
La Cic organizzò nel 1987 la Conferenza economica su “Agricoltura, industria, servizi: un patto tra pari per il progresso”, in cui Avolio si rivolse direttamente ai rappresentanti degli altri settori economici per avviare la costruzione di efficaci relazioni interprofessionali. Fu evidente l’approccio innovativo che si offriva al confronto e l’iniziativa suscitò un immediato e diffuso interesse e molti consensi. Ma a bocciare senz’appello le indicazioni che la Conferenza propose furono il responsabile della sezione agraria del Pci, Marcello Stefanini, e l’economista agrario Guido Fabiani. Il primo affermò che solo lo Stato poteva essere in grado di decidere la direzione di marcia del processo inevitabile di integrazione tra l’agricoltura, l’industria e i servizi e di impedire così la condizione di subalternità dell’agricoltura. L’altro annotò la presunta assenza nella posizione della Confederazione di una “piena coscienza delle compatibilità” e di un “approccio di programmazione”. Avolio replicò a muso duro a quelle posizioni conservatrici, difendendo le scelte dell’organizzazione, ispirate ad una concezione moderna del rapporto tra stato e mercato che negli altri paesi europei si era particolarmente affermata, e mostrò un’apertura a quella cultura economica di ispirazione socialdemocratica e liberale che, nell’ambito agricolo, era rappresentata da Giuseppe Medici, Manlio Rossi-Doria, Giuseppe Barbero e Giuseppe Orlando20.
L’impegno nella Fipa
Dalle quote latte alla nuova strategia americana di espansione commerciale sui mercati internazionali, il contesto mondiale continuava dopo la metà degli anni Ottanta ad essere attraversato da profonde tensioni economiche, legate in buona misura al problema delle eccedenze produttive. Il ruolo delle istituzioni internazionali, oggi diremmo transnazionali, ne venne scosso e amplificato allo stesso tempo. Per la formazione internazionalista che aveva ricevuto, Avolio vi continuava a credere fermamente.
Dopo aver conseguito l’ammissione anche nella Confederazione Europea dell’Agricoltura (Cea), Avolio approfittò del diradarsi delle relazioni della Coldiretti e della Confagricoltura con la Federazione Internazionale dei Produttori Agricoli (Fipa) per guidare una delegazione che partecipò, nel 1988 ad Adelaide, in Australia, alla conferenza generale di questo importante organismo internazionale accreditato presso l’Onu e le altre istituzioni internazionali. La Fipa raccoglieva agricoltori di più di cinquanta paesi e sessantacinque organizzazioni professionali dei vari continenti21. A conclusione della conferenza, Avolio venne eletto membro del comitato esecutivo come unico rappresentante italiano.
Dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino e la progressiva fine del comunismo nei paesi a Est, è interessante osservare quanta importanza Avolio desse all’unità politica e laica dell’Europa e ad un corretto funzionamento delle sue istituzioni. Il 16 luglio 1990, intervenendo al consiglio generale della Cic, tenne un lucido discorso, che si riporta estesamente:
«Bisogna costruire un’Europa più unita e più democratica. L’unità si raggiunge accelerando i processi in atto di unificazione monetaria e allargamento dei mercati, quale presupposto per una unificazione politica. Il traguardo degli Stati Uniti d’Europa non è più utopistico. Oggi, con le nuove condizioni maturate in vaste aree del mondo, la presenza di una Europa unita, che parla con una sola voce e agisce superando gli egoismi nazionali, è garanzia di più giusti ed equilibrati rapporti tra il Nord e il Sud e tra l’Est e l’Ovest del pianeta. Occorre, perciò, una riforma delle istituzioni che elimini l’anomalia di un Parlamento, eletto dai popoli, con scarsi poteri e una Commissione, nominata dai governi nazionali, con poteri maggiori. Questo deficit democratico […] deve essere superato. […] Un’Europa unita, consapevole della sua potenza economica e capacità politica, può veramente costituire una cerniera di relazioni commerciali più regolari e meno distorsive di quanto non siano attualmente e concorrere a creare le condizioni necessarie di un nuovo ordine tra gli Stati e tra i popoli della terra»22.
Successivamente, Avolio propose la costituzione del Comitato mediterraneo in seno alla Fipa e nel 1992 ne diventò il presidente, avviando così un’intensa attività sui temi dell’agricoltura nella loro dimensione globale. Il binomio “agricoltura e cibo” assunse in quel contesto il ruolo chiave di strumento diplomatico per la costruzione di relazioni pacifiche, per la progettazione di una nuova politica per il Mediterraneo. La potremmo definire una “diplomazia alimentare”, che sortì in tempi brevi qualche rilevante effetto, come ad esempio nel conflitto arabo-israeliano, già prima della firma degli Accordi di pace di Oslo del 1993.
Una riunione del Comitato mediterraneo, presieduta da Avolio, si svolse, per esempio, a Gerusalemme, nella sede della Knesset – il Parlamento di Israele – nella quale agricoltori israeliani e arabi sedettero, per la prima volta, insieme. Evitare competizioni e contrapposizioni sterili tra le zone meno favorite e quelle più sviluppate nel bacino del Mediterraneo, significava agire per creare le condizioni di una progressiva integrazione, limitando gli approcci nazionalistici, orientando le scelte tecnologiche, armonizzando i calendari dei raccolti, contrattando consensualmente gli spazi di mercato. «Ciò è possibile già oggi – spiegò Avolio nel 1993 – se, a partire dall’agricoltura, si riesce ad impostare un’azione coerente basata sulla scienza, sulla tecnologia e sull’informazione liberate dalle catene dell’ideologismo e del nazionalismo». La collaborazione tra Israele e mondo arabo e quella tra i paesi mediterranei non solo avrebbero contribuito alla sicurezza generale, ma permesso anche di programmare i flussi migratori in rapporto all’evoluzione delle diverse economie.
«È economicamente più vantaggioso per tutti sviluppare e mantenere buone relazioni tra gli Stati dell’area mediterranea che mettere in piedi barriere di protezione che potranno sempre essere scavalcate – fece notare il numero uno del Comitato mediterraneo -; sulla via della collaborazione si potrà camminare più speditamente utilizzando l’agricoltura come punto d’appoggio per altre, più globali, intese»23.
Nel frattempo, il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 sancì la nascita dell’Unione Europea, conferendo una nuova dimensione alla Comunità, rafforzata soprattutto dalla creazione di un’Unione Economica Monetaria, quale elemento essenziale del processo d’unificazione e dalla individuazione di nuove politiche comuni, oltre la Pac. Quest’ultima ha trovato così due potenti vincoli che, pur di carattere diverso, si sono sommati provocando le modifiche che sono ancora in corso. Il primo è il vincolo di bilancio: le spese agricole dovute in gran parte al sostegno dei prezzi hanno raggiunto livelli troppo alti. L’altro vincolo è la pressione dei paesi extra Ue, in particolare gli Stati Uniti, per una liberalizzazione degli scambi internazionali. Tale pressione si concretizzò negli accordi, siglati da 113 paesi a Marrakech nell’aprile del 1994, in sede GATT, che previdero l’impegno di ciascun paese di ridurre le barriere tariffarie e non tariffarie, relative ai prodotti, e di liberalizzare gli scambi nel campo dei servizi. Per quanto riguarda la parte agricola degli accordi, detti anche di Blair House II (Bruxelles, 6 dicembre 1993), la Ue si impegnò a ridurre entro il 2000 il sostegno alla propria agricoltura. Negli accordi fu scritto a chiare lettere che non si sarebbero potuti più concedere aiuti “accoppiati”, cioè correlati, alle produzioni. A quel punto, i due vincoli imposero di procedere ad una prima riforma della Pac.
Già nel 1985 il Libro Verde di Delors, intitolato “Il futuro del mondo rurale”, aveva posto per la prima volta in modo esplicito l’esigenza di rivedere il patto tra l’agricoltura e la società. Appariva sempre più evidente come la domanda della società nei confronti dei beni e dei servizi generati dall’agricoltura avesse registrato una profonda evoluzione, benché in forme ancora implicite e generiche. A parere di molti osservatori, l’agricoltura avrebbe potuto svolgere in modo più accentuato diversi ruoli, oltre quello di produrre beni di prima necessità (ambientali, paesaggistici, culturali, sociali, ecc.). Quelle riflessioni non si tradussero immediatamente in scelte operative. Ma dopo l’accordo di Marrakech, il commissario all’agricoltura Mac Sharry propose e fece approvare la riforma della Pac, che porta il suo nome. Questa comunque si realizzò in una condizione di separatezza rispetto alla profonda riforma del 1988 inerente alla politica regionale e di coesione, realizzata unificando la strategia dei fondi strutturali europei nel quadro della programmazione poliennale sostenuta dal Quadro Finanziario Poliennale.
Con la riforma Mac Sharry si passò dal sostegno dei prezzi al sostegno dei redditi, erogando aiuti compensativi riferiti alla superficie senza superare l’impostazione protezionistica originaria. Spostando l’onere del sostegno dai consumatori ai contribuenti, il peso finanziario dei pagamenti compensativi rimase così elevato da esaurire tutte le risorse (salvo la minima quota destinata alle cosiddette “misure di accompagnamento”) e rendendo impossibile la realizzazione della politica rivolta a “manager e imprenditori” evocata dal Libro verde di Delors. Al tempo stesso, la distribuzione dei fondi rimase inalterata. Si disse allora (ma senza indicare un termine) che i pagamenti compensativi avevano la duplice funzione di rendere accettabile il cambiamento a chi altrimenti si sarebbe opposto e di accompagnare gradualmente l’agricoltura europea verso il “disaccoppiamento”. I pagamenti diretti furono, dunque, pensati originariamente come una forma transitoria di intervento pubblico per poi adottare una organica politica di sviluppo rurale. Ma, passando di riforma in riforma, tale tipologia d’intervento fu sempre confermata e divenne, in realtà, definitiva. Una scelta che si rivelò presto infelice per una serie di ragioni. La prima è legata alla decisione di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra gli agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale. Nonostante questi vistosi difetti, l’insieme delle organizzazioni colsero il passaggio agli aiuti diretti come un pretesto per diventare organismi prevalentemente strutturati ad erogare servizi agli aderenti.
Anche la Cia fece questa scelta e abbandonò ogni altro disegno più ambizioso di rappresentare l’insieme di una ruralità che si era del tutto trasformata. Avolio tentò invano di rilanciare il grande tema dello sviluppo territoriale, connesso con le tematiche ambientali, a cui negli anni Ottanta Delors aveva dedicato il Libro Verde e su cui la Confederazione si era cimentata, con una grande mobilitazione di esponenti del mondo scientifico, mediante l’organizzazione dei convegni “Spoleto 1” e “Spoleto 2”. Ma ormai l’organizzazione s’involveva sempre più in una dimensione burocratizzata che la rendeva incapace di affrontare la crisi della rappresentanza, ormai dilagante non solo nel sistema politico ma anche nel tessuto associativo.
Forse anche per uscire da tale vicolo cieco Avolio intensificò il suo impegno internazionale. Nella veste di presidente del Comitato mediterraneo, fu incaricato nel 1997 di promuovere l’incontro (il primo dopo 24 anni di conflitto) tra le organizzazioni agricole della parte nord (Turchia) di Cipro e della parte sud dell’isola (Grecia), le quali siglarono un patto di reciproco sostegno tecnico24. E a più riprese ragionò sull’importanza di pianificare anche a livello internazionale l’uso di risorse non illimitate come l’acqua, vero “oro liquido” e fonte primaria per l’agricoltura mediterranea. Nel presentare il Terzo Forum Mediterraneo sull’Agricoltura organizzato dal Comitato Mediterraneo della Fipa insieme al Consiglio d’Europa a Cipro nel 1998, disse che:
«Il più drammatico problema dell’umanità, nel prossimo secolo, non sarà l’insufficienza di prodotti alimentari di base ma la carenza d’acqua e la sua ineguale distribuzione. Per questo è necessario razionalizzare, programmare il reperimento delle risorse a livello statale e sovrastatale. […] L’acqua è decisiva per realizzare un’agricoltura moderna, di qualità e soprattutto diversificata».
In occasione del cinquantesimo anniversario di fondazione della Fipa, il segretario dell’Onu lo ringraziò pubblicamente per questi suoi sforzi in favore della pace e della collaborazione: una delle sue eredità più luminose e significative, per il Mediterraneo e per l’Europa di oggi.
Il dibattito sulla Costituzione europea
Lasciata la presidenza della Cia nel 2000, Avolio si dedicò fino alla morte, avvenuta il 1° Novembre 2006, ad attività culturali e di studio in molteplici ambiti. Indirizzò le sue energie intellettuali anche al dibattito sulla Costituzione europea fin dalle prime battute. Al vertice di Laeken del 14 e 15 dicembre 2001 nacque la Convenzione europea, un organismo incaricato di redigere una bozza di costituzione. E Avolio scrisse sull’argomento due articoli per la rivista Il Ponte25. Egli era critico sulla modalità con cui si era formata la Convenzione. Riteneva, infatti, che «una Carta costituzionale, per esprimere le esigenze, i bisogni, i diritti dei cittadini di tanti paesi ancora diversi per storia e cultura, avrebbe dovuto essere redatta da personalità elette, mediante un suffragio proporzionale e diretto, dai cittadini dei vari paesi». Considerò, tuttavia, efficace il modo con cui il Preambolo sintetizzava «i valori comuni, l’identità, la storia e gli obiettivi di progresso, di sviluppo e di pace nei quali si riconoscono, in vario modo, tutte le popolazioni dei diversi paesi del nostro continente, oggi tutte protese, in vario modo e intensità, a rafforzare i vincoli di unità, con la consapevolezza che il futuro è l’Europa unita». Di spirito profondamente laico, si era pronunciato – durante la stesura del testo – contro l’inserimento nel Preambolo di precisi riferimenti alle “radici cristiane” dell’Europa. Come si ricorderà, la richiesta era stata avanzata, per primo, in modo solenne ed esplicito, da Giovanni Paolo II. Ma mentre considerava legittimo che il capo della Chiesa cattolica avanzasse tale richiesta, Avolio si mostrò infastidito che studiosi e personalità delle istituzioni repubblicane, troppo zelanti nel difendere la civiltà religiosa e l’etica, si inserissero nel dibattito in modo preoccupante, adoperando “battute” contro «il volgare laicismo di bassa lega». Egli li accusò di ignorare «che “laicità” si oppone non a “religiosità” – che rientra nelle libere scelte di ciascun cittadino – ma a “clericalismo”, che è, di fatto, pretesa di pochi di pensare e decidere per tutti». Si richiamò all’opera di Pietro Giannone che – con molte sue opere, ma soprattutto con la Istoria civile del Regno di Napoli del 1723, si era occupato dei problemi giurisdizionali denunciando le prevaricazioni ecclesiastiche nei confronti del potere temporale. Si riferì ampiamente al dibattito che si era sviluppato nell’Assemblea costituente che non ritenne di inserire nella Costituzione italiana alcun riferimento alle “radici cristiane”. «Dobbiamo allora dedurre – osserva Avolio – che i “cattolici” quali Dossetti, La Pira, Fanfani furono “tiepidi” e non difesero bene i loro principi? No! Ciò avvenne unicamente perché fu da tutti considerato inopportuno l’inserimento nel testo della Costituzione di una particolare ideologia che avrebbe potuto creare solo profonde spaccature».
Avolio colse nel testo di Costituzione predisposto dalla Convenzione difetti e contraddizioni che sintetizzò con queste parole:
«Governare l’Unione non sarà facile a causa delle procedure che inceppano ogni diretta decisione in materie importanti quali quelle inerenti la politica estera, la difesa, i tributi, il Welfare State. Ci sono ancora, soprattutto in queste materie, i diritti di veto e l’obbligo dell’unanimità. Ciò rende tutto più difficile. […] un vero parlamento dell’Unione dovrebbe essere composto da membri eletti sulla base di liste presenti in tutti i paesi, votate, col suffragio universale, dai cittadini in base alle loro convinzioni politiche. Oggi, invece, secondo le norme del Trattato, ogni Stato ha una quota parte dei seggi, assegnata in base al numero degli abitanti: i tedeschi possono votare solo per i candidati tedeschi, i francesi per quelli francesi, e così via. Si dovrà, invece, in tempi brevi, eleggere un vero parlamento dell’Unione, i cui membri siano scelti da tutti i cittadini dell’Unione non in base alla loro nazionalità, ma tenendo conto delle loro competenze e indicazioni programmatiche. […] Non deve sfuggire la situazione di rischio in cui si trova il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo hanno dimostrato lo stato di insoddisfazione della maggioranza delle popolazioni di molti Stati europei. Dell’Europa e del suo futuro unitario si è parlato poco nel corso della campagna elettorale. Lo scetticismo è stato prevalente dappertutto, determinando una scarsa affluenza alle urne. I risultati sono stati giudicati prevalentemente in rapporto alla situazione interna dei singoli Stati e non già di quella dell’Unione europea. La situazione di rischio è reale e può precipitare in un vero pericolo di appannamento e di crisi del processo unitario»26.
Il progetto di Costituzione europea fu abbandonato perché il Trattato che lo adottava – approvato dalla Conferenza intergovernativa del giugno 2004 e firmato a Roma dai capi di Stato o di governo il 29 ottobre 2004 – venne ratificato solo da 18 paesi (tra cui l’Italia) su un numero totale di 27 Stati membri. In particolare, i referendum sulla ratifica del Trattato-Costituzione svoltisi in Francia il 29 maggio 2005 e nei Paesi Bassi il 1° giugno dello stesso anno avevano esito negativo, mentre il 6 giugno il Regno Unito decideva a sua volta di sospendere il processo di ratifica a tempo indefinito e altri paesi membri dichiaravano l’esistenza di vari ostacoli alla ratifica. Successivamente, il Trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore nel 2009, nel modificare i Trattati di Maastricht sull’Unione Europea e il Trattato sulla Comunità Europea, ha recepito molte delle disposizioni sostanziali della mancata Costituzione. In particolare, sono stati inseriti il Preambolo e i “valori” su cui si fonda l’Unione (rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze).
I difetti e le contraddizioni individuati da Avolio 15 anni fa, soprattutto sulla governance dell’Unione sono rimasti intatti e hanno costituito la causa di fondo della crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee. I rischi di disintegrazione, di cui Avolio profeticamente aveva già avvertito i segni premonitori nel calo dell’affluenza nelle elezioni europee del 2004, si sono ulteriormente aggravati con la crisi economica e finanziaria avviatasi nel 2008. Come egli aveva segnalato, l’europeismo paga il prezzo dell’esito perverso prodotto dalla differenziazione dei metodi decisionali per le diverse competenze dell’Unione. Perverso perché le istituzioni europee decidono con lentezza o addirittura non decidono affatto soprattutto quando i problemi economici e sociali dei cittadini europei si aggravano. La frammentazione della sovranità ha creato nel tempo una frattura a cui pochi hanno prestato attenzione: da una parte, le forze che vogliono stare nell’interdipendenza (Stato membri e Unione) e, dall’altra, quelli che non vogliono stare nell’interdipendenza. Chi vuole stare nell’interdipendenza si riconosce pienamente nel Preambolo e nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea che recepisce i “valori” elaborati nella mancata Costituzione. Chi non vuole stare nell’interdipendenza sta mettendo in discussione, come avviene in Polonia, in Ungheria e, purtroppo, negli ultimi mesi anche in Italia, i valori e i principi della democrazia liberale. La lezione di Avolio, la cui formazione culturale e politica aveva radici profonde nel pensiero democratico, socialista ed europeista di Basso, ci può oggi essere d’aiuto nel guardare al futuro con speranza: per conseguire la giustizia sociale non basta richiamare retoricamente il Manifesto di Ventotene, ma ci vogliono istituzioni che siano effettivamente democratiche e funzionino in modo efficiente sia negli Stati membri che a livello europeo. È un tale progetto che occorre elaborare per completare finalmente l’integrazione europea.
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