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ATAC: la riforma tradita

Centodieci anni fa, il Sindaco di Roma Ernesto Nathan e l'Assessore Giovanni Montemartini indissero un referendum per eliminare il monopolio privato del servizio di trasporto della città. Oggi la Sindaca Virginia Raggi rinvia a data da destinarsi il referendum per abolire il monopolio pubblico del servizio e liberalizzarlo. Ma la consultazione popolare potrebbe rivelarsi inutile se il concordato dovesse essere bocciato a fine maggio e si aprisse la strada alla svendita dell'azienda

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La Sindaca di Roma ha rinviato all’autunno il referendum per liberalizzare il trasporto pubblico locale. Ha ragione Walter Tocci quando scrive che “in una città normale non ci sarebbe bisogno di fare un referendum su questo argomento, poiché le gare competitive sono una scelta quasi obbligata”. Invece è necessario farlo perché la decisione di conservare il monopolio può essere rimossa solo con una netta vittoria del SÌ. È bene, dunque, che un ampio schieramento democratico sostenga tale posizione, accompagnandola con un progetto di riforma di Atac e con una chiara opzione a favore della liberalizzazione e contro la privatizzazione, riconsegnando all’azienda pubblica il suo antico splendore.

La spada di Damocle del concordato

Naturalmente, sarà possibile salvare l’Atac con una strategia di radicale riforma solo se il concordato sarà approvato a fine maggio e non cadrà come un castello di carte. Se si dovesse aprire uno scenario drammatico, il Ministero dell’Economia sarebbe costretto con un forte esborso di risorse pubbliche. E l’amministrazione capitolina, presa dal panico, svenderebbe l’azienda, senza avere più tempo per separare il servizio dalla produzione. La privatizzazione a seguito di un’emergenza e senza un progetto di riforma è purtroppo ricorrente nella vicenda italiana degli ultimi venti anni.

Non è difficile immaginare che molte lobbies oggi lavorino per creare una drammatica emergenza, da cui ottenere maggiori vantaggi. Solo a quel tempo i medici pietosi che finora hanno accarezzato il monopolio si accorgeranno di aver contribuito al disastro dell’azienda che a parole volevano salvare.

La riforma tradita

Alla fine degli anni novanta, la seconda Giunta Rutelli, per iniziativa del Vice Sindaco Tocci e del Presidente di Atac Di Carlo, aveva creato le condizioni per superare strutturalmente il monopolio e gestire così in modo ottimale sia la produzione mediante la concorrenza sia il servizio con una nuova agenzia pubblica.

Questo era l’obiettivo della scissione societaria che portò alla creazione di tre nuove aziende: Trambus e Metro per la produzione del trasporto rispettivamente su gomma e su ferro, e la nuova Atac di circa mille dipendenti impegnati solo nelle attività di regolazione e di gestione degli asset proprietari. Il programma comportava due possibilità attuative: gara a doppio oggetto con vendita del 100% delle azioni di Trambus e Metro, oppure gara tra le due società pubbliche e le imprese private. Con tali soluzioni si sarebbero evitate tutte le criticità del trasporto pubblico locale. Nel primo caso, l’azionista privato avrebbe avuto la responsabilità totalitaria delle aziende di produzione, senza commistioni con il pubblico e senza possibilità di influire sulla regolazione. Nel secondo caso, l’insuccesso nelle gare non avrebbe messo in liquidazione il patrimonio pubblico dell’Atac, ma avrebbe comportato la liquidazione solo di Trambus e Metro con il trasferimento di ramo d’azienda al privato e la piena garanzia per i lavoratori. Non a caso questo ambizioso disegno venne concordato anche con le organizzazioni sindacali in un protocollo di intesa sull’intera politica di liberalizzazione del Comune di Roma.

Senza più Tocci, nei primi anni duemila, durante la prima giunta Veltroni, il progetto di liberalizzazione messo a punto alla fine degli anni novanta non fu attuato. Recentemente il consigliere regionale del PD Eugenio Patanè, che in quegli anni collaborava con Di Carlo, divenuto nel frattempo Assessore alla Mobilità, ha fornito una testimonianza che è utile riportare integralmente: “Mi ricordo diverse riunioni di maggioranza alle quali partecipavo come assistente dell’assessore nelle quali erano presenti i capigruppo Silvio Di Francia (Verdi), Lionello Cosentino (DS), Patrizia Sentinelli (RC), etc nelle quali in brevissimo tempo si passò dal discutere quanti lotti mettere a gara (lotto unico o più lotti) a quanto doveva essere lungo il contratto di servizio di affidamento in house del tpl. Fu soprattutto la battaglia di Rifondazione e di una parte dei DS a far pendere la bilancia dalla parte dell’in house. L’assessore Di Carlo pretese che il contratto di servizio fosse pluriennale per dare certezza industriale alle aziende e si predispose il contratto di affidamento 2004/2011”.

Quando arrivò Alemanno nel 2009, Trambus e Metro furono riunificate con Atac. Fu un segnale chiaro e ben compreso dal sistema consociativo aziendale: era scampato il pericolo della liberalizzazione e si poteva tornare a fare come prima e più di prima. Il ricostituito carrozzone ridusse il servizio, peggiorò la produttività per addetto e dissipò le risorse nel disastro di Parentopoli. Non sarebbe potuto accadere se le giunte Veltroni avessero portato a compimento il disegno riformista messo a punto e avviato da Tocci.

Il prossimo referendum è l’ultima occasione per migliorare il trasporto romano. E soprattutto è un’opportunità per i cittadini di partecipare alle decisioni sulla questione più importante di Roma. La voce popolare è l’unica risorsa in grado di superare gli sterili conservatorismi che hanno impedito finora la riforma dell’Atac.

Il referendum di centodieci anni fa

La prima volta che si svolse un referendum popolare a Roma fu Il 20 settembre 1909. Lo indisse il sindaco della città, Ernesto Nathan, per sottoporre ai romani le delibere con cui venivano municipalizzati il servizio di illuminazione e quello del trasporto pubblico. Vi fu una partecipazione straordinaria: su circa 45 mila aventi diritto al voto, i votanti furono circa 22 mila, con più del 98% di voti favorevoli. Con quel pronunciamento popolare finiva il monopolio di due società private che praticavano alti prezzi senza garantire un servizio efficiente. E veniva fondata un’azienda speciale per gestire due nuove linee tramviarie e un impianto comunale di generazione e distribuzione di energia elettrica. L’artefice di quel progetto fu Giovanni Montemartini, un economista a cui piaceva applicare concretamente gli schemi economici e che Nathan aveva chiamato a far parte della sua giunta proprio per realizzare la municipalizzazione dei servizi.

Montemartini s’ispirava all’idea che non bisognasse sempre e comunque municipalizzare il servizio, ma solo nel caso in cui la scelta fosse conveniente. Per l’assessore socialista riformista la gestione pubblica non era affatto un totem da adorare e da applicare sempre e comunque. Ma la scelta andava fatta caso per caso e da verificare continuamente in base ai risultati concreti e al beneficio effettivo per la collettività.

Nathan e Montemartini trasformarono il referendum in un’occasione formidabile per dibattere approfonditamente un problema complesso della città. Si ampliò il numero delle associazioni di quartiere ovunque nella città. Ed esse dettero vita, nel giro di qualche anno, alla Federazione delle associazioni, “Pro Quartieri”, sulla base di un programma da attuare in modo coordinato con l’attività dell’Amministrazione comunale. Lo strumento del referendum fu ampiamente utilizzato per decidere altre questioni, come l’allargamento della via Appia, la realizzazione di nuovi edifici scolastici a Testaccio, l’attuazione della ferrovia Roma-Ostia. La Federazione dei Quartieri divenne l’animatrice delle forme di partecipazione popolare e di diverse iniziative di quartiere, come la costituzione di scuole popolari e di biblioteche gratuite rionali.

Le ragioni del referendum di oggi

A distanza di centodieci anni, oltre 30 mila romani hanno chiesto di indire un referendum popolare sulla gestione del trasporto pubblico locale. Perché? Il motivo è semplice. Si è di nuovo costituito un monopolio. Non è più il monopolio di un’azienda privata ma di un soggetto pubblico, Atac di proprietà esclusiva di Roma Capitale. Il monopolio Atac è ormai insostenibile per le finanze comunali ed è causa di malessere quotidiano della città. Il ricorso alle gare europee è l’unico strumento che può abbassare i costi e quindi aumentare le percorrenze degli autobus e la qualità del servizio. Il tutto deve avvenire con una ristrutturazione dell’azienda Atac, separando nettamente il servizio dalla produzione. Il servizio deve rimanere pubblico, la produzione deve essere riorganizzata su piccoli lotti e liberalizzata con una forte capacità della mano pubblica di garantire i diritti dei cittadini e avere un servizio di mobilità efficiente ed efficace.

Come Nathan e Montemartini colsero l’occasione del referendum per avviare un processo di democratizzazione della città, così il Partito Democratico deve cogliere l’opportunità del prossimo referendum per promuovere una grande mobilitazione popolare sul futuro di Roma, intorno ad una proposta di riorganizzazione del trasporto pubblico locale. L’Atac potrà così ritornare al suo antico splendore, cambiando profondamente il suo assetto e ritrovando il meglio di una lunga storia del servizio pubblico romano.

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