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Agricoltura e innovazione

Intervento introduttivo all'Incontro-dibattito organizzato da LibertàEGUALE sul tema "La società della conoscenza e l'agricoltura del futuro. Verso il Partito Democratico", che si è svolto a Roma, presso la Fondazione Basso, il 5 luglio 2007

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  1. Per delineare i tratti essenziali del tema che vorremmo discutere partirei dal rammentare tre ricorrenze.

1987-2007. Sono trascorsi 20 anni da quando un giovane economista, Paul Romer, ha inventato la nuova teoria della crescita economica. In un famoso articolo pubblicato su di una rivista scientifica, egli dimostrò che alla base della crescita non c’erano più i ben noti fattori della produzione di cui si parla nel primo capitolo di qualsiasi manuale di economia: terra, lavoro e capitale. Li sostituì con un’altra triade: persone, idee e cose, e attribuì alla conoscenza il ruolo di potente fattore della crescita.

Da allora in molti abbiamo incominciato ad usare l’espressione “società della conoscenza”, spesso come un abbellimento poetico, senza comprendere esattamente il suo significato. Altri paesi europei hanno, invece, ampliato i flussi del sapere, valorizzando il capitale umano e rafforzando quindi la competitività del proprio sistema economico. Noi abbiamo resistito, pensando che le priorità fossero altre. La conseguenza è che l’Italia non riesce più a innovare e chi non innova non cresce. E così da oltre un decennio, tra i grandi paesi europei, il nostro è quello che cresce di meno. La colpa non va ricercata solo altrove. Scontiamo un ritardo pauroso nell’adeguamento delle nostre culture politiche tradizionali.

1987-2007. Sono trascorsi 20 anni da quando la presidente della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, Gro Harlem Brundtland, ha fornito per la prima volta una definizione dello sviluppo sostenibile: “Uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. Da quel momento abbiamo incominciato ad utilizzare la definizione, quasi come una massima indiana, ad ornamento dei nostri discorsi. Le nostre tradizioni politiche si sono, infatti, formate tutte in un contesto in cui l’ambiente non faceva problema ed in cui le risorse erano considerate infinite.

Altri paesi europei hanno maturato l’idea di dover collegare  le aspettative di benessere e di crescita con le preoccupazioni ambientali ed hanno avviato con successo la modernizzazione ecologica delle loro economie.

Nonostante gli effetti del tutto evidenti dei cambiamenti climatici, noi ancora ci attardiamo a minimizzare il rischio incombente di un disastro planetario. Scontiamo una colpevole pigrizia nell’adeguamento delle nostre culture politiche originarie.

1987-2007. Sono trascorsi 20 anni da quando il presidente della Commissione europea, Jacques Delors, ha emanato il Libro Verde “Il futuro del mondo rurale”. Un testo che tutti leggemmo con una qualche apprensione. Denunciava gli effetti devastanti per l’ambiente provocati dallo spopolamento delle aree marginali. E distinguendo per la prima volta lo sviluppo agricolo dallo sviluppo rurale, lanciava l’idea che forse era il caso di incentivare l’insieme delle attività rurali e non solo quelle agricole.

Da quel momento  una parte della ricerca economica agraria, a partire da Elisabetta Basile e Claudio Cecchi, seguendo le orme già da tempo tracciate dalla sociologia rurale (in particolare Corrado Barberis, Jan Douwe van der Ploeg ed Henk Renting) ha spostato l’indagine verso i sistemi locali indagando il duplice ruolo della campagna: produttivo e socio-culturale. E si è iniziato a pensare che facendo leva sul ricco patrimonio di risorse specifiche delle aree rurali fosse possibile reagire al loro declino.

E’ sorto così l’interesse di molti operatori per la multifunzionalità dell’agricoltura rispondendo ad una nuova domanda di ruralità dei cittadini. Ma una parte consistente della rappresentanza sociale, delle istituzioni e della cultura scientifica del nostro paese ha resistito pervicacemente alle riforme della Pac – che a più riprese sono state proposte sulla base di un rapporto presentato da Allan Buckwell, Franco Sotte ed altri studiosi – ed ha contrastato, dapprima apertamente e poi in modo sempre più velato, la stessa idea di sviluppo rurale. E se andiamo a vedere l’esiguità delle risorse che le Regioni hanno riservato in questi giorni all’obiettivo “Miglioramento della qualità della vita e diversificazione dell’economia rurale” nei Piani di sviluppo rurale 2007-2013, ci rendiamo conto di quanto siano  granitiche ancora oggi le resistenze al nuovo approccio.

Ecco perché un senso profondo di spaesamento attraversa quello che per decenni è stato un settore a cui si sono destinate politiche pubbliche molto pervasive ed a cui hanno dedicato impegno e passione i grandi partiti di massa del ‘900. Scontiamo un ritardo colpevole nell’adeguamento delle nostre culture tradizionali che affondano le radici nella vecchia questione agraria, scomparsa ormai da circa un mezzo secolo.

I tre salti culturali che ho richiamato hanno messo a dura prova l’impianto su cui si sono costruite ed attuate le politiche agricole del ‘900. Ed hanno fatto emergere i conservatorismi di destra e di sinistra che paralizzano l’agricoltura alle prese con cambiamenti profondi: i gusti dei consumatori; la composizione delle diete; l’attenzione crescente alla qualità e salubrità dei cibi, all’impatto ecologico dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, allo spreco di acqua nelle pratiche irrigue; il riemergere soprattutto nelle aree urbane di un bisogno profondo di valori legati alla terra; la crescita, ad un ritmo più veloce nei paesi in via di sviluppo rispetto alle economie industrializzate, della produzione e del consumo di prodotti agricoli; la qualità diversa del rapporto tra scienza e società.

Nonostante questi mutamenti, manca in Italia da almeno un ventennio una solida e chiara strategia in grado di orientare le scelte di politica agraria.  Si scontano le conseguenze di una mancanza di innovazione della cultura politica e di un’assenza di confronto aperto che faccia emergere con nettezza, non solo gli interessi in conflitto, ma anche le responsabilità che i diversi soggetti sociali intendono assumere reciprocamente, le passioni di cui sono dotate le persone, le preoccupazioni che esse  nutrono per le sorti della collettività, la creatività e la curiosità intellettuale di scoprire vie nuove e di sperimentarle. Non esistono solo gli interessi; anche le emozioni sono dotate di intelligenza, come ci ha dimostrato nei suoi scritti la filosofa liberaldemocratica Martha Nussbaum.

2. Il pessimismo, la paura del futuro, l’incertezza segnano lo stato d’animo di tante persone che in un modo o in un altro sono coinvolti dai problemi che riguardano l’agricoltura. Problemi che non sono più settoriali, di categoria, ma che attraversano l’intera società e l’insieme delle istituzioni. E una delle cause di questo senso di smarrimento, forse la più profonda, è l’assenza di forze politiche capaci di affrontare le nuove sfide con una cultura adeguata, con spirito innovativo, con il gusto della ricerca e del confronto, in grado di sollecitare le energie intellettuali ad un impegno sociale.

La politica, nelle forme in cui oggi si presenta, appare lontana, chiusa, incapace di proporre idee, progetti, di stimolare la partecipazione, di offrire nuove modalità per contribuire ad affrontare i problemi concreti. Questo distaccarsi della politica dai cittadini asseconda ancor più il disincanto collettivo, la frammentarietà sociale, il rinchiudersi nei particolarismi corporativi, Eppure tante persone credono nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. E sentono di voler fare qualcosa per il loro paese.

Ecco perché bisogna partire dalla politica. Da una politica che sappia riconquistare fiducia. Stimolare un nuovo slancio collettivo. Mostrare che si possono ottenere grandi risultati, che si può avviare un processo di ricostruzione, che parta dalla politica e si trasmetta alla società. Infatti, è la società e sono i singoli individui che la compongono a dover superare il senso di smarrimento, gli egoismi degli interessi frammentati derivanti dall’insicurezza e rimettersi in cammino. La fiducia che la politica chiede ai cittadini deve diffondersi nella società. Perché le mille iniziative necessarie per sventare il rischio di declino sono frutto della società, non dello stato e della politica.

La politica deve solo dare l’esempio, come scrive Michele Salvati. Deve avere un pensiero coesivo del mondo, ma poi deve limitarsi – come sostiene Aldo Schiavone – a stabilire le nuove compatibilità e i nuovi equilibri di una vita che i cittadini e le formazioni sociali costruiscono altrove, in spazi che né  la politica né lo stato possono e debbono più occupare. La politica deve innanzitutto meritare la fiducia che chiede.

Ecco perché l’appuntamento del 14 ottobre suscita speranza. La forma stessa della consultazione, che permette a tutti i cittadini che condividono il progetto di candidarsi e di votare al di fuori degli schemi degli attuali partiti, genera quella diffusa sensazione che potrebbe davvero  nascere un partito nuovo, un partito del cambiamento e della partecipazione. Un partito che non intende rivolgersi più, in via prioritaria, a nessun blocco sociale, a nessun segmento della società identificato dagli interessi e dalle aspirazioni che discendono dalla collocazione dei suoi membri nel processo produttivo. Un partito che vuole rispondere ad una domanda politica che taglia trasversalmente tutti gli strati e i ceti sociali. Una domanda provocata dalla percezione di tante ingiustizie diffuse, dal senso di precarietà che vivono le nuove generazioni, dall’inefficienza di tanti segmenti del nostro apparato produttivo e delle nostre istituzioni, dalla necessità di reagire al declino, dalle minacce che incombono sull’ambiente, dalle sfide della globalizzazione. Un partito che chiede l’adesione sulla base di valori e di una proposta politica per risolvere i problemi concreti e non già sulla base della condizione sociale e professionale delle persone. Un partito che vuole accompagnare il paese al di fuori delle secche in cui si è incagliato. Ed è per questo che si pone l’obiettivo di costruire un sistema bipolare ben temperato, privo di asprezze, recriminazioni, delegittimazioni reciproche. Un sistema politico fondato sul confronto civile e sulla decisione.

L’Associazione Libertà EGUALE è nata alcuni anni fa proprio per costruire la prospettiva del Partito democratico. Ed   intende partecipare attivamente a questo processo dando un contributo di idee, proponendo sedi di  confronto sui problemi concreti e favorendo la promozione di nuove dirigenti e nuovi dirigenti.

Oggi affrontiamo un tema di grande rilevanza – l’agricoltura – che non è più un mondo a sé, un semplice settore dell’economia, ma in modo crescente diventa un complesso di problemi che attraversano l’intera società e l’insieme delle istituzioni e coinvolgono i singoli cittadini. L’affrontiamo dal versante della conoscenza proprio per la sua complessità e nella consapevolezza che i problemi nuovi che si pongono si possono affrontare solo investendo in ricerca e sviluppo.

Del manifesto di Walter Veltroni, con cui egli si è candidato alla guida del Partito Democratico, condivido molte cose, ma mi ha colpito in particolare la nettezza con cui ha posto il problema ambientale, connettendolo indissolubilmente con l’innovazione tecnologica e scientifica e con lo sviluppo.

E’ un approccio nuovo, non scontato, per più motivi: perché considera l’ambiente la prima priorità, davanti  al patto tra le generazioni, la formazione e la sicurezza; perché attribuisce al tema dell’ambiente una valenza di politica generale, informatrice di ogni scelta economica e sociale, e quindi di tratto identitario della cultura politica del nuovo partito; perché fa proprio, in modo convinto e non strumentale, l’ambientalismo del Sì, quello propositivo e costruttivo; perché lega la riconversione ambientale all’innovazione, facendo di questa connessione un traino per l’intera economia.

È un approccio che ci congiunge con un vasto schieramento progressista a livello internazionale, con la gran parte delle socialdemocrazie europee e coi democratici americani, come Al Gore. E’ un capitolo prioritario di quella rivoluzione liberale da compiere nelle nostre culture politiche tradizionali, coniugando libertà individuale e responsabilità verso noi stessi e gli altri. E’ un approccio che per l’agricoltura costituisce una sfida di enorme portata e consente di affrontare i suoi problemi nella loro complessità.

3. La modernizzazione ecologica attualmente è orientata in modo prevalente verso lo sviluppo di fonti biologiche di energie rinnovabili e di fonti energetiche alternative. C’è qui un vasto campo di iniziativa. Dai grandi impianti industriali alimentati da materie prime biologiche all’utilizzazione di biomasse da filiera corta, alla trasformazione dei reflui zootecnici in biogas, allo sviluppo di impianti di microgeneratori diffusi sul territorio. Mentre l’utilizzo dei biocarburanti appare giustificato dal lato ambientale, sulla base della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra e quindi del minor costo sostenuto dalla collettività per il loro abbattimento, la produzione della materia prima destinata alla trasformazione in bioetanolo e biodiesel può avere effetti ambientali negativi che vanno valutati attentamente, dalla compattazione dei terreni alla perdita di biodiversità.

La modernizzazione ecologica pone, tuttavia, ai sistemi agricoli problemi più ampi, come la gestione razionale dell’acqua, l’adozione di pratiche agronomiche che riducono l’erosione del suolo, il contenimento dell’uso di fertilizzanti e pesticidi. A tale proposito la scienza ci dice che ci sono due modalità per ridurre la chimica nelle produzioni: la prima è la diffusione di pratiche agricole estensive, a partire dall’agricoltura biologica, che però richiederebbe per soddisfare bisogni alimentari crescenti a livello mondiale un allargamento delle superfici coltivate a discapito degli ecosistemi naturali; la seconda è l’introduzione di nuove varietà geneticamente modificate, che sostituendo la chimica permettono di mantenere intensivi i sistemi agricoli e nonostante questo  di renderli sostenibili. Ma questa seconda soluzione, che Francesco Salamini ed altri studiosi di fama internazionale considerano la più valida per ridurre l’uso di prodotti chimici e i consumi idrici a fini irrigui, può agire in modo complementare alla prima,  sebbene richieda di affinare i controlli per evitare il rischio di una riduzione della biodiversità.

Ecco il ruolo determinante della ricerca e della sperimentazione nel dare le risposte ad una domanda di ulteriore ampliamento delle coltivazioni e degli allevamenti condotti con metodo biologico. Senza assolutamente abbandonare l’attività di ricerca e quella sperimentale nel settore delle biotecnologie applicate agli alimenti, nella consapevolezza che dobbiamo accollarci la fatica – una funzione che deve svolgere la politica –  di nuove modalità di rapporto tra il mondo della scienza e della produzione e la società.

La scienza è infatti entrata in una fase nuova: non sono più nette le distinzioni tra scienza e tecnologia, tra ricerca pura e applicata; sono diventate molto forti le implicazioni etiche delle scoperte scientifiche. Fino allo sbarco sulla Luna la gente credeva agli scienziati sulla parola. Non è più così. Anche i medici, i fisici e i matematici  devono rendere conto di quello che fanno. Bisogna raccontare la scienza e saperlo fare. Il consenso sociale non si può eludere, in nessuna parte del mondo.

La modernizzazione ecologica è strettamente legata alle innovazioni che riguardano il cibo. La salubrità, la qualità legata all’origine, la varietà dei requisiti nutrizionali e salutistici e la rintracciabilità degli alimenti potranno essere garantite con la genetica e la genomica, le nanotecnologie e le tecnologie informatiche. E queste stesse innovazioni servono anche per dotare di un’organizzazione modulare i sistemi agroalimentari, in grado di rispondere ad una domanda di cibo “su misura” dell’atteggiamento e dell’attitudine del consumatore.

E’ evidente che tutto questo non si può ottenere, come scrive Mario Campli, con le contrapposizioni pregiudiziali tra chi vuole imporre una strategia aggressiva di diffusione delle varietà transgeniche e chi non vuole nemmeno sentir parlare di OGM; tra chi guarda all’alimentazione solo dalla visuale dell’origine territoriale e chi è interessato solo agli aspetti sanitari del cibo. Ci vuole uno sforzo comune per ricondurre i diversi interessi, le diverse sensibilità a farsi carico di  una gestione equilibrata del rischio, che però si può conseguire solo con la partecipazione democratica alle scelte, con un dibattito pubblico aperto senza incrinature ideologiche, con una visione globale dei problemi scevra da provincialismi. Bisogna praticare anche qui un ambientalismo del Sì. Non solo per la TAV e i termovalorizzatori, anche per gli Ogm occorre mettere bene in luce vantaggi e rischi e decidere una volta per tutte per il bene collettivo. Non possiamo, da una parte, continuare a consumare sbadatamente prodotti avvelenati, a rilasciare nel suolo una quantità sconsiderata di residui chimici e a non ridurre l’uso irriguo dell’acqua e, dall’altra, pretendere che le nuove tecnologie in grado di affrontare la tutela della salute e dell’ambiente siano a rischio zero.

Del resto “società della conoscenza” significa anche rispettare il diritto dei cittadini di ricevere una informazione corretta ed esaustiva dei dati scientifici, senza semplificazioni propagandistiche; promuovere nel modo più ampio possibile il dialogo tra comunità scientifica e società; dare il giusto peso a tutte le componenti della conoscenza, quella scientifica, manageriale, tacita, locale, tradizionale, ecc; decidere consapevolmente come affrontare i problemi del nostro tempo.

4. La modernizzazione ecologica deve far leva su di una conoscenza scientifica fortemente interdisciplinare. Lo sviluppo tecnologico deve potersi intrecciare con percorsi innovativi divalorizzazione del paesaggio, nella nuova accezione europea, non più legata agli aspetti estetici, ma espressione del patrimonio naturale e culturale e dell’identità del territorio, che reclama nuovi approcci all’urbanistica e al governo del territorio, come non si stanca di ripetere Giovanni Li Volti; di inclusione sociale nelle aree rurali, sperimentando nuovi modelli di welfare locale e di imprese sociali in ambito agricolo ampiamente indagati da Francesco Di Iacovo e Saverio Senni; di complementarietà tra  aree rurali ed aree agricole periurbane e metropolitane, percorsi indagati recentemente da Roberto Finuola, Giovanni Cafiero e Filippo Lucatello.

Nello stesso tempo, la modernizzazione ecologica non deve basarsi soltanto sulla conoscenza scientifica, quella degli esperti. Altrimenti diventa inevitabile – come avverte acutamente Maria Fonte – che anche nell’era post-industriale che viviamo, sarà ancora una volta l‘industria a guidare la modernizzazione ecologica, come avvenne nella fase della modernizzazione industriale. E le aree rurali non avranno altro ruolo che fornire risorse naturali, in modo subalterno.

Competitività / multifunzionaltà è un nuovo dualismo che può nascere da questa concezione elitaria e tecnocratica della modernizzazione ecologica. L’agricoltura multifunzionale, cioè quella che fornisce servizi culturali, sociali, terapeutici, paesaggistici, ricreativi, ecc., non va vista in contrapposizione con l’agricoltura competitiva, cioè quella che produce beni alimentari e no food, bensì come una sua modalità competitiva. E questo non solo perché l’agricoltura di servizio va svolta necessariamente in modo integrato con quella produttiva se vuole rimanere autentica e risultare efficace, ma soprattutto perché entrambe devono essere inserite in processi di sviluppo locale.

È dunque necessario  che la ricerca da sviluppare nei poli tecnico-scientifici di eccellenza e nelle università, nonché l’individuazione e la diffusione delle nuove tecnologie, si  incrocino con la conoscenza locale nel definire gli obiettivi della sostenibilità. I percorsi di sviluppo rurale  – se costruiti correttamente e in modo partecipato nei territori – possono aiutare questo processo di integrazione delle conoscenze, come suggeriscono da tempo Enrico Arcuri, Marisa Paradisi ed altri ricercatori. Evitando le contrapposizioni, le separatezze, l’incomunicabilità, la dispersione. E facendo emergere invece talento, competenze, infrastrutture, valutazione e gestione.

Si tratta di interpretare la conoscenza come una filiera, i cui fattori sono l’alta formazione, la ricerca, l’innovazione, l’istruzione (a partire dagli istituti tecnici agrari), i saperi locali, le tradizioni, le diverse forme della competitività territoriale, i processi che li attivano e li legano. La filiera della conoscenza è generata da politiche integrate, settoriali e territoriali, che si realizzano contestualmente al centro e nei territori. E’ mossa dalle competenze, ma soprattutto dall’entusiasmo, dalla creatività e dalla dinamicità dei giovani.

5. Nell’area romana è concentrata una quota rilevante delle competenze di ricerca pubblica nazionale nel settore agroalimentare. Ma questo patrimonio imponente ha legami assai scarsi coi sistemi produttivi territoriali. E questa frattura si registra anche in altri sistemi regionali.

I programmi europei possono sostenere una connessione tra ricerca scientifica e territori. E’ vero che il 95 % della spesa europea in ricerca è deciso a livello nazionale e solo il 5 %  è programmato a Bruxelles in sede comune. Ma la Commissione ha proposto uno stanziamento per il periodo 2007-2013 di 50.521 milioni di euro. Una somma non irrilevante.

Il 7° Programma quadro comunitario rispetto a quelli precedenti rafforza le cooperazioni con le imprese mediante le iniziative tecnologiche congiunte, semplifica le procedure e introduce l’attuazione del programma per temi e non più per strumenti. E i nostri temi ci sono tutti.

Per accedere ai bandi comunitari va, pertanto, intensificato l’impegno del governo Prodi volto a completare e rafforzare rapidamente le reti nazionali che si vanno costruendo: la rete dei 10 Istituti Zooprofilattici, che non fanno solo laboratorio e diagnostica, ma anche  un’importante attività di ricerca e sperimentazione rivolta alla sicurezza alimentare, al benessere animale e alla tutela della biodiversità; la riorganizzazione del CRA e i rapporti che l’ente sta attivando con altre istituzioni di ricerca e con le università, mediante la partecipazione di questi giorni alla definizione del suo programma triennale; le nuove iniziative dell’INEA e l’intesa tra INEA, CRA e Regioni; il Consorzio per la ricerca sulla qualità e la sicurezza degli alimenti, da aprire anche alla Fondazione per la ricerca riguardante le produzioni biologiche.

Accanto alle reti nazionali sono indispensabili i partenariati publico-privati, le reti di competenza a livello regionale, in cui devono poter partecipare attivamente non solo le istituzioni scientifiche, ma anche le imprese con le proprie organizzazioni di rappresentanza, le organizzazioni sindacali, le associazioni dei consumatori, gli enti locali e  funzionali, le fondazioni, le banche, i centri di produzione culturale disseminati sul territorio.

Si tratta di attivare organizzazioni cerniera per ridurre le barriere tra i diversi fattori della conoscenza, raccogliere la domanda di innovazione, convogliare le risorse finanziarie, individuare le sinergie per evitare programmi ripetitivi, organizzare il trasferimento dei risultati, con un approccio fortemente interdisciplinare, capace di affrontare i problemi complessi della società attuale.

Occorre in sostanza agire per collegare ricerca, istruzione, formazione coi nuovi servizi di sviluppo previsti dai Piani di sviluppo rurale delle Regioni; progettare Poli tecnologici e scientifici di eccellenza per fare massa critica, come è ipotizzato dal CRA nell’area di Monterotondo (Roma); superare il precariato, introducendo il merito e la valutazione e tornando a vedere trentenni di valore che gestiscono la ricerca negli enti, che vanno in cattedra nelle università, che assicurano l’innovazione nelle imprese, che si scambiano questi ruoli e dunque le esperienze; partecipare alle piattaforme tecnologiche europee; promuovere processi di sviluppo fondati sull’export di conoscenze prodotte localmente, nella consapevolezza che nel mondo non si esportano solo prodotti ma anche modelli organizzativi sperimentati sul territori.

È solo un elenco di questioni, a cui si possono dare risposte diverse. Il Partito Democratico si dovrà occupare soprattutto di questi argomenti, se vuole proporsi come un soggetto politico dell’innovazione e suscitare fiducia nel futuro.

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