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L’intelligenza artificiale nell’era socio-tecnica

Con le nuove regole l’Ue spinge per tenere in equilibrio, a livello globale, etica e mercato

Il regolamento unionale sull’intelligenza artificiale che scaturirà dal compromesso raggiunto tra Parlamento europeo e Consiglio, nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 dicembre, porrà i primi, cruciali, paletti per armonizzare, nel salto tecnologico che si sta compiendo, sicurezza e libertà, sviluppo dell’innovazione e diritti umani.

Il Parlamento ha spinto per introdurre regole comuni più restrittive, mentre il Consiglio ha rappresentato le istanze dei governi nazionali. I quali chiedono di avere maggiori margini di manovra nel campo della sicurezza e nell’ambito più propriamente economico.

Entro il prossimo febbraio, il testo dovrà essere messo a punto e approvato formalmente. E una volta pubblicato, bisognerà aspettare altri due anni perché il regolamento diventi applicabile. Ma le sanzioni per gli impieghi di intelligenza artificiale vietati dovrebbero scattare già sei mesi dopo l’entrata in vigore delle nuove norme.

Siamo, dunque, ancora al primo passo di un lungo percorso. C’è tempo per approfondire. Non dobbiamo dimenticare che il regolamento europeo sulla protezione della privacy e del diritto d’autore sul digitale, approvato nel 2016 ed in vigore dal 2018, resta ad oggi in gran parte inapplicato nella maggioranza dei Paesi europei, compresa l’Italia. La difficoltà è raggiungere accordi efficaci con i giganti del mercato dei dati digitali.

Saranno, dunque, i prossimi mesi a dirci se i 27 Stati membri dimostreranno la determinazione necessaria per applicare le norme dell’intelligenza artificiale a tutela dei diritti dei propri cittadini.

Merita sicuramente un plauso la decisione di usare un linguaggio normativo se non comune a livello planetario, quanto meno “comprensibile” dalle altre aree regionali. Molte parole chiave sono le stesse utilizzate anche nell’Executive Order di Biden e nella normativa cinese, entrambi del 2023.

Si dovrà ora lavorare a un coordinamento internazionale dei quadri giuridici riguardanti l’intelligenza artificiale. La via da percorrere è quella del multilateralismo. Non si tratta solo di armonizzare normative e orientare verso finalità condivise la competizione tra i produttori dei sistemi. Ma occorre tener conto che, in questo caso, la competizione non è solo tra tecniche ma anche tra culture diverse che le sottendono.

Stiamo, infatti, parlando di machine che apprendono. E che dunque acquisiscono mentalità diverse. Non è solo tecnica. È socio-tecnica, come suggerisce Luca De Biase sul Sole 24 Ore del 10 dicembre scorso. E questa caratteristica segna i processi dalla fase di progettazione fino all’utilizzo da parte dei cittadini. Tutti i soggetti che vi sono coinvolti sono portatori di propri valori e influenzano differentemente gli ambienti entro cui le macchine operano.

I chatbot cinesi generano testi che rispecchiano la cultura orientale e sono concepiti per essere graditi al regime autocratico di quel paese. In America, invece, sono allineati al politicamente corretto e all’ideologia woke fino a trascendere, non di rado, in discorsi estremisti e violenti o semplicemente disinformati. In Europa, si auspica – anche in virtù del regolamento unionale – che siano più attenti al rispetto dei diritti umani.

Per questo si deve parlare di competizione socio-tecnica. E l’Ue deve spingere per tenere in equilibrio, a livello globale, etica e mercato.

La questione che maggiormente si dibatte è se l’intelligenza artificiale ruberà posti di lavoro. Sì, tutte le innovazioni, inizialmente, eliminano mansioni e competenze, ma allo stesso tempo ne creano di nuove. E spesso in numero maggiore.

Se sapremo interrogare ChatGPT e acquisire nuove competenze con la formazione resa disponibile dall’intelligenza artificiale, potremo scoprire una cosa che forse ci stupirà: un certo grado di manualità, ibridato con macchine evolute, rende l’occupazione umana meno sostituibile rispetto a molti lavori intellettuali.

John Maynard Keynes riteneva che “i dolori provocati dal fenomeno della disoccupazione tecnologica non sono simili ai ‘reumatismi della vecchiaia’, bensì a quelli della crescita degli adolescenti, sottoposti per natura a ‘cambiamenti troppo rapidi’”. Sono, dunque, disagi che bisogna, con la necessaria sensibilità e delicatezza, bisogna affrontare e fare in modo che tutti possano uscirne non solo indenni, ma più forti.

Il lavoro è un’esperienza della condizione umana che deve avere un senso. Svolgere compiti inutili non rende felici né permette di crescere. Vogliamo difendere lavori inutili o desideriamo promuovere lavori dignitosi? Perché dovremmo svolgere un lavoro che una macchina farebbe meglio?

Dovremmo imparare a scrivere istruzioni corrette, a fare le domande giuste alle macchine, stimolarle, come nelle istruzioni dei codici informatici. Questa sarà un’abilità che caratterizzerà sempre più il lavoro di noi umani: creare e progettare senza seguire schemi predefiniti.

Chat GPT riconosce gli errori, simula scuse e nel frattempo continua a “imparare”. Ci aiuterà a individuare più facilmente i dispensatori di bla bla bla in politica, nel campo dell’informazione, nelle aziende, nelle organizzazioni sindacali e professionali e anche nel mondo dell’innovazione.

Bisogna, dunque, diffondere informazione, formazione e consapevolezza. Soprattutto, va ricordata una cosa importante: il nostro valore non può mai essere ridotto al nostro livello di aggiornamento e alla competenza che acquisiamo. La persona sarà sempre qualcosa di più, molto più di ciò che può essere “calcolato”.

Per superare le paure riguardo al nostro progressivo senso di inutilità, dovremmo recuperare e valorizzare la nostra capacità di dare un senso alle nostre azioni. Come afferma Marco Bentivogli, la classe dirigente del futuro sarà quella che saprà sconfiggere la gerarchizzazione e la “cultura del controllo” nelle imprese, nelle istituzioni, nei sindacati e financo nel volontariato e affermerà la “cultura che genera senso”.

Per essere “architetti di senso” dovremmo, tuttavia, ripudiare le vestali del passato, che conservano religiosamente il fuoco sacro dei ricordi e sostengono che nulla deve cambiare.

Ma occorrerebbe ripudiare anche gli smemorati del presente. Dovremmo, infatti, saper estrarre dal passato quanto resta a nostra disposizione, attraverso un maggiore esercizio della memoria. La quale è una facoltà che, al pari del corpo con la ginnastica, si rafforza e si affina con la pratica. Ed è talmente plastica che cambia senza cancellare quel che è stato.

La nostra memoria è molto diversa dalla memoria delle macchine. La memoria umana è costituita dalla permanenza in noi di un passato ritenuto significativo, frutto di una selezione, consapevole o inconscia, di eventi e nozioni che scandiscono le diverse fasi della vita.

Il filosofo e storico delle idee, Remo Bodei, affermava che la nostra memoria rappresenta il filo di continuità dell’io, indispensabile per orientarci nel presente e proiettarci nel futuro. E ammoniva che, per utilizzarla bene, dovremmo imparare a staccarci periodicamente dalla quotidianità e dedicarci alla riflessione.

Potremo così apprendere l’astuzia della storia. Un’astuzia che Seneca così descriveva: “Quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante, che erano aspettate, non sono avvenute!”. Una saggezza antica che Keynes esprimeva in forma più “scientifica” e incisiva: “L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Questa è la speranza che dovremmo imparare a coltivare mentre varchiamo la soglia dell’era socio-tecnica e affrontiamo le sfide che porta con sé.

Intelligenza artificiale Parlamento

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