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Relazione all'Incontro "La cooperazione agricola lucana nel solco di Michele Larocca. Il ricordo, la storia, le sue idee e le prospettive del settore a un anno dalla scomparsa". Lavello - Cooperativa Unità Contadina - 20 luglio 2023
Ho conosciuto Michele Larocca a metà degli anni Settanta. Iniziammo allora la nostra esperienza nell’Alleanza dei contadini. Michele organizzava i corsi di formazione professionale con il nostro istituto CIPA. Io facevo il corrispondente del patronato INAC a Tito, Satriano e Brienza.
Frequentavamo la piccola sede di Via Magaldi, a Potenza, dietro l’Upim a piazza Prefettura. C’era ancora Gennaro Laus, il mitico “avvocato dei contadini”, raccontato vent’anni prima da Giovannino Russo in “Baroni e contadini”. Dirigeva la Lega dei comuni e delle autonomie locali. Poi c’erano Elio Altamura e Giovanni Bulfaro, rispettivamente presidente regionale e provinciale dell’Alleanza. C’erano infine Michele Fortannascere e Angelina Miglionico al patronato.
Michele portava una ventata di euforia in quell’ufficio: la battuta tagliente sempre pronta sulle labbra, l’ironia e l’autoironia stampati sul suo volto intelligente e luminoso. Una luce che si manifesta quando la passione politica si sposa con la curiosità di apprendere e la volontà ferma di costruire un proprio futuro professionale nell’ambito di un impegno collettivo.
Il nostro non era semplicemente un lavoro, ma una scelta di vita. Scaturiva da un ideale: costruire una nuova società per realizzare la giustizia sociale. A quel fine – che ritenevamo assoluto – subordinavamo tutto. Ma secondo un preciso ordine gerarchico: prima il partito, poi l’organizzazione e il settore (una “nuova agricoltura”, dicevamo, idealizzata come la “nuova società”) e poi venivamo noi, le nostre individualità, i nostri affetti, le nostre amicizie, le nostre vite private.
Manca una riflessione sul mestiere che in tanti abbiamo svolto per un lungo periodo. Oggi come può essere definito? Quale profilo dovrebbe avere un organizzatore della rappresentanza? Come interagisce questa funzione con il protagonismo della cittadinanza democratica? Come si colloca in una società in cui le vecchie ideologie sono morte e i percorsi di ricerca di un nuovo pensiero sono asfittici (quale idea di Europa e di Occidente, quale posto dell’uomo nel mondo, ecc.)?
Non c’è ancora una raccolta e una ricognizione delle biografie e delle storie di vita dei dirigenti di quelle che definivamo una volta “organizzazioni di massa”. Manca uno studio di quelle esperienze in rapporto ai contesti in cui si svolgevano. Senza questo materiale, è difficile delineare tale “professione” nel mondo completamente mutato in cui viviamo.
Con Michele facemmo insieme il percorso della Costituente contadina e partecipammo alla fondazione della Confcoltivatori nel dicembre 1977. Nella ripartizione dei compiti a Michele toccò costituire e dirigere l’Associazione dei produttori olivicoli della provincia di Potenza.
Ma fu un’esperienza breve. Ci arrivò una richiesta della Cooperativa “Unità contadina”: avevano bisogno di Michele. Ma lui volle essere rassicurato che la proposta provenisse effettivamente dal consiglio di amministrazione della cooperativa. Temeva forzature. E solo dopo aver appurato che la richiesta non rispondesse ad esigenze estranee all’”Unità contadina”, accettò di buon grado. E per trent’anni ha fatto il direttore, con lealtà, competenza e lungimiranza.
Perché fu fatta quella proposta a Michele?
Il ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Giovanni Marcora, aveva negoziato a Bruxelles diversi interventi che andavano sotto il nome di “Pacchetto Mediterraneo”. Uno tra questi era una forma di sostegno alla trasformazione del pomodoro. Si pensò così di cogliere l’occasione per completare e avviare il Conservificio di Gaudiano, costruito dall’Ente di sviluppo agricolo dell’epoca. Le centrali cooperative avevano costruito in Basilicata una unità d’azione e avrebbero insieme potuto promuovere un organismo a cui assegnare lo stabilimento.
Ma non fu così. Il Corac nacque come iniziativa di parte: cooperative bianche e imprenditori privati aderenti a Confagricoltura. E Marcora subì una pressione politica dalla Dc locale e dalla Confcooperative nazionale perché assegnasse la struttura al consorzio.
La cooperazione agricola della Lega visse la vicenda come una intollerabile discriminazione, una umiliazione. Nell’”Unità contadina” si avvertì l’esigenza di rialzare la testa, compiere un salto di qualità, anche mediante una direzione autorevole e professionalmente attrezzata.
Entriamo così nel clima dell’epoca: Guerra fredda, grandi scontri ideologici, crisi del sistema politico e tentativo di superarla con le grandi intese per la “solidarietà nazionale”.
Le radici
Lavello è terra di tradizioni cooperative e lotte contadine che venivano da lontano. Risale agli inizi del Novecento, per iniziativa del socialista Mauro Costantino, la nascita della cooperativa “La Conquista”. Ad essa aderivano 43 contadini, con un contratto di affittanza collettiva di un vigneto olivetato.
L’oleificio sociale venne rilanciato nel secondo dopoguerra ricostituendo la cooperativa con la nuova denominazione “La Riconquista”. Di questa, tre anni fa, Michele era diventato presidente.
La storia di solito non piace ai più perché non dà conferme alle idee che ci facciamo di vicende, gruppi sociali, singole personalità e relativi contesti. Anzi, ci dice che si ripetono sempre gli stessi errori.
Sulla riforma agraria del 1950 ho una mia interpretazione. La dico in modo un po’ brutale.
La sinistra propugnava una proposta massimalista e demagogica di riforma agraria cosiddetta “generale”. Faceva presa sui braccianti senza o con poca terra, ma intimoriva i piccoli e medi proprietari. E quando ottenne il risultato delle lotte che si erano fatte nel 1948-49, anziché intestarselo, anche con un voto di astensione, votò contro.
E così prevalse un atteggiamento di attesa, di smobilitazione, di opposizione negativa e passiva. Si arrivò in ritardo a organizzare gli assegnatari che prima avevano votato quasi tutti a sinistra.
La riforma agraria ebbe sicuramente limiti e distorsioni. E tuttavia costituì il “colpo d’ariete” con cui l’agricoltura si è potuta modernizzare. Un’agricoltura tecnologicamente progredita s’installò su una proprietà più diffusa della terra. E con essa si è modernizzata la struttura produttiva del Paese.
Certo! Ci fu il grande esodo. Ma era il processo di modernizzazione agricola che portava già scritto in sé lo svuotamento delle campagne. Un evento doloroso che sarebbe stato illusorio pensare di scansare. L’arrivo di trattori, fitofarmaci e fertilizzanti faceva cadere, infatti, la domanda di manodopera. Ma senza una riduzione degli addetti non sarebbe stato possibile ottenere una crescita della produttività e un innalzamento dei redditi agricoli.
Il fenomeno migratorio fu largamente incompreso. E le paure che incuteva vennero strumentalizzate per imporre una scelta che si rivelerà micidiale per il Mezzogiorno: l’industrializzazione forzata dall’alto come panacea dei mali del Sud.
La svolta “industrialista” fu condivisa trasversalmente da tutti i partiti e da tutti i sindacati. La Dc vedeva nell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci vede nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni.
Le voci critiche più nette giunsero da Olivetti, Rossi-Doria, Dolci, Ceriani-Sebregondi e Ardigò. Ma furono messe a tacere. Queste non negavano l’importanza dell’industria. Ma ponevano la necessità di articolare l’intervento per aree di sperimentazione. Ponevano al centro la ricerca e i processi educativi e formativi; le persone e la loro crescita umana, civile e professionale.
I sostenitori dell’industrializzazione forzata dall’alto, invece, facevano leva sull’emotività: agitavano populisticamente le previsioni dei flussi migratori che erano indubbiamente allarmanti.
Ma evitavano di spiegare che l’esodo rurale è un processo sostanzialmente “liberatore”, per usare un’espressione di Rossi-Doria. L’esodo avrebbe messo definitivamente in crisi l’organizzazione tradizionale dell’agricoltura e obbligato a porre in termini nuovi i problemi agricoli nel Sud.
La parola “esodo” nella Bibbia è associata alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto. L’esodo, se accompagnato da politiche territoriali di sviluppo, avrebbe indotto un controesodo, cioè un esodo urbano. Un processo di “ritorno” che si sarebbe dovuto sostenere e accelerare per raggiungere un riequilibrio. Salvaguardando con discernimento la cultura rurale.
La scelta che si fece allora ebbe conseguenze catastrofiche. Si emarginarono dai processi di sviluppo le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo. E si ridusse sempre più il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative.
Gran parte dei tecnici delle scuole e facoltà di agraria venivano assunti nelle industrie produttrici di mezzi tecnici. Erano adibiti alle attività di assistenza tecnica e divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventarono destinatari passivi di tecnologie. Non si potevano giovare di filtri nel rapporto coi produttori di mezzi tecnici.
Qui si può cogliere la faglia ecologica: si rompe l’osmosi che si era strutturata tra cultura tecnico-agronomica ed economico-agraria e sapienza esperienziale dei contadini, nella seconda metà dell’Ottocento.
La nuova ruralità
Bisognerà attendere gli anni Settanta per riproporre in termini corretti i problemi dello sviluppo. E il soggetto nuovo – ma dalle radici antiche – che appare all’orizzonte è la cooperazione.
Nel Borgo Taccone di Irsina, la Costituente Contadina organizza la manifestazione “Occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura”.
Si addensano nelle campagne le prime forme di resistenza a pratiche agricole che erodono le risorse naturali. Comincia spontaneamente il controesodo dalle città verso le campagne.
Nuove forme di conduzione agricola integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana con le opportunità che solo le aree rurali sono in grado di offrire.
Anche i figli dei contadini che tornano dalle università sperimentano modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori.
E questi nuovi agricoltori istruiti dialogano coi giovani di provenienza urbana.
A Lavello nascono nuove esperienze di cooperazione in agricoltura. Due di esse sono cooperative di conduzione terreni: l’”Avanti” e la “Di Vittorio” che lavoravano superfici agrarie concesse dal Comune, amministrato dalla sinistra. Già dalle denominazioni si può intuire una matrice di parte. L’altra è l’”Unità contadina” per la commercializzazione dei cereali e l’approvvigionamento di mezzi tecnici che porta con sé, anche nel nome, una vocazione unitaria.
Michele ci teneva a sottolineare questa differenza e a rivendicare un atteggiamento mentale volto a superare gli steccati, a reagire alle discriminazioni con dignità, guardando in avanti e senza mai arroccarsi.
Nel giugno 1977 si approva, con l’apporto del compianto Angelo Ziccardi, la legge 285 sull’occupazione giovanile. Con sostegni a cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura.
In tale fermento, anticipatore e innovativo, vengono a incrociarsi spinte culturali diverse. Esse danno vita a cooperative agricole con la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti.
Sono i pionieri di quel fenomeno che sarà poi inquadrato come “agricoltura sociale”. Una vicenda sottovalutata e considerata una moda passeggera. Ma in realtà si tratta di quella “nuova ruralità” che tuttora è viva nelle campagne.
Anche questa volta ci sono limiti ed errori che nella ricostruzione storica delle nostre vicende dovremmo mettere bene a fuoco.
Con il declino del ciclo fordista dello sviluppo industriale (che nel Mezzogiorno – tranne che in pochissime realtà limitate – non si era nemmeno avviato), la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, negli anni Settanta l’agricoltura spontaneamente apre la lunga stagione di quello che sarà definito “sviluppo sostenibile”.
Se si guardano i temi discussi a Taccone, si ha netta la sensazione delle potenzialità esistenti per elaborare una visione critica dello sviluppo e collegarsi proficuamente alle opere di Carlo Levi e Rocco Scotellaro, alle riflessioni e alle ricerche socio-antropologiche degli anni Cinquanta.
Quei tentativi di elaborazione di una cultura ecologica fondata sulle radici della nostra tradizione di pensiero tecnico-agronomico ed economico agrario, sono, invece, frettolosamente rimossi. E privi di una nostra autonoma elaborazione culturale sui temi ambientali, saremo costretti a fronteggiare sulla difensiva le sfide che già in quegli anni si appalesavano.
In “Un percorso lungo trent’anni” curato da Caterina Salvia, Michele racconta le sfide di allora e le risposte dell’“Unità contadina”: “Trovai la cooperativa in un mare di difficoltà, che affrontai rapidamente con soddisfazione degli amministratori e dei soci. La svolta avvenne nel 1986, quando la cooperativa procedette all’acquisto, a Contrada Pozzo D’Alitto, di un impianto di stoccaggio per i cereali che nel 1991 sarebbe stato ampliato. Inoltre, affittò un altro impianto di stoccaggio di proprietà dell’Esab a seguito del fallimento dell’oleificio sociale di Melfi. Con l’intervento dell’Aica e dell’Anca, si determinò anche un nuovo rapporto con la base sociale che nel giro di poco tempo si moltiplicò come si moltiplicarono pure il prodotto e il fatturato. Nel 1996 l’‘Unità Contadina’ incorporava la cooperativa ‘Rocco Girasole’ di Venosa e il Consorzio Co. Cer. di Lavello. Quando arrivai in cooperativa, il fatturato era di cento milioni di lire. Alla fine degli anni ’90 era di svariati miliardi”.
Le sfide dell’oggi
Per concludere, vediamo le grandi sfide globali fortemente interconnesse che ci stanno dinanzi: clima, sicurezza alimentare, divari demografici e migrazioni.
Per affrontarle, andrebbe rimesso in moto il meccanismo di trasmissione generazionale, ormai inceppato. E l’immigrazione costituisce oggi una grande opportunità per alimentarlo.
Il flusso si svolge dal vaso troppo pieno del continente africano al vaso italiano ed europeo che si sta svuotando, come indicano i dati del nostro declino demografico.
Ci sono due necessità da comporre: quella delle popolazioni africane di liberarsi dalla miseria; e quella delle popolazioni europee invecchiate di trasmettere a una nuova generazione il lascito ereditato dagli antenati.
Ci vogliono però delle condizioni di base per amalgamare le due necessità. La prima è culturale: prendere atto che le migrazioni sono un fenomeno strutturale da governare nazionalmente e a livello europeo, mediante ingressi selettivi. La seconda è una condizione politica: occorre integrare in profondità gli immigrati, trattando i loro figli come i nostri, attraverso l’educazione, l’istruzione, il lavoro.
La cooperazione agroalimentare dovrebbe porre a centro la grande questione del Mediterraneo. L’invasione russa dell’Ucraina ha prodotto tre rotture globali: energetica, umanitaria e alimentare. Esse si riflettono sul Mediterraneo. E la loro risoluzione non può che partire da lì: dal Mediterraneo può nascere un nuovo ordine mondiale. Il Mediterraneo è infatti luogo di incontro/scontro tra Occidente e Oriente, tra democrazie liberali e regimi autoritari, tra religioni e fedi diverse. È luogo dove scorre un terzo del traffico commerciale mondiale; dove passano le infrastrutture informatiche intercontinentali; dove si realizza il grosso del turismo mondiale; dove si ricava o si trasporta gran parte del fabbisogno energetico per tutti i paesi rivieraschi; dove si colloca uno dei punti nevralgici dei cambiamenti climatici.
Il Mediterraneo diventerà, nei prossimi anni, sempre più arido. La superficie delle sue terre agricole si ridurrà. Sarebbe necessario trarre tutti i vantaggi dalle tecnologie irrigue per non disperdere l’acqua. Andrebbero diffuse pratiche agricole sostenibili, come quella di seminare direttamente su terreni non lavorati. Occorrerebbe diversificare le colture e gli agro-ecosistemi. Quello che deve essere chiaro è che la sicurezza alimentare non può essere posta in conflitto con l’intensificazione sostenibile: oggi il sapere scientifico ci consente di farlo.
Per evitare l’instabilità del pianeta bisogna dividersi i compiti. E l’Ue deve prendersi cura dell’Africa. Per questo è importante la firma del Memorandum tra Ue e Tunisia. E il governo Meloni deve aprire la strada ad analoghi accordi con Libia, Egitto e Sudan per stabilizzarli.
Essenziale è avviare il processo di integrazione degli immigrati. Così riprenderanno a fiorire le comunità. E si potranno più agevolmente sconfiggere alcuni mali della società del benessere: assenza in molti giovani del desiderio di futuro, senso di solitudine, atteggiamenti di rifiuto e opposizione al cambiamento, sfiducia nella politica.
In un contesto generativo di attività produttive tecnologicamente avanzate, si potranno aprire nuovi spiragli per i nostri giovani. In parte, oggi continuano ad andarsene all’estero. Nel nuovo contesto da creare potranno, invece, decidere consapevolmente di restare o tornare.
L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per accorciare i tempi nell’individuare patogeni, come la Xylella, e salvaguardare così la biodiversità. Le tecnologie TEA e l’editing del genoma ci potranno essere utili per produrre cibo nelle aree aride.
Il grande compito della cultura oggi è quello di leggere il mondo in cui viviamo. L’agricoltura del futuro è un’agricoltura che non si difende, intimorita, dal mondo che cambia in continuazione, ma sta nel mondo con gli strumenti utili per capirlo. Noi tutti, come individui e come umanità, dobbiamo fare ogni sforzo per capirlo e trovare così il nostro giusto posto nel mondo.
Michele, in forma diversa, è qui con noi in questo incontro e sta ascoltando. Non è d’accordo su tutto. Ma condivide – di questo sono certo – l’approccio di questa riflessione: alzare lo sguardo verso il futuro e tenere ben saldi i piedi per terra: i problemi da affrontare sono i problemi quotidiani della gente.
Grazie, Michele, per avercelo insegnato con le tue idee e con il tuo esempio.