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Fame zero. Con quale agricoltura?

Per eliminare la fame e raggiungere la neutralità climatica ci vuole un'agricoltura conservativa e tecnologica

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La pandemia da Covid-19 ha causato la peggiore recessione dalla seconda guerra mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale stima che nel 2020 l’economia globale si sia ridotta del 3,5 per cento. La Banca Mondiale calcola che nell’ultimo anno la pandemia abbia portato il numero di persone in condizioni di povertà estrema da 88 a 115 milioni e che alla fine del 2021 ci potrà essere un ulteriore aumento compreso tra 23 e 35 milioni. Dunque, condizioni difficili in tutto il mondo, disperate nei paesi in via di sviluppo: più vulnerabili agli eventi climatici estremi, con risorse limitate e istituzioni deboli. Le comunità rurali, in particolare, sono quelle più a rischio.

Inoltre, la riduzione degli scambi commerciali dovuta alla pandemia ha causato incertezze e accaparramenti di beni primari da parte dei singoli Stati. Secondo l’analisi rilanciata dal Financial Times, “i prezzi alimentari globali hanno raggiunto il loro picco massimo degli ultimi sette anni, agitando ulteriormente lo spettro dell’inflazione alimentare e della fame, proprio nel momento in cui la pandemia da Covid-19 continua a colpire le economie di tutto il mondo”.

A gennaio, l’indice dei prezzi alimentari della FAO ha registrato una crescita di quasi un decimo, rispetto a un anno fa, toccando il picco massimo dal mese di luglio del 2014, spinto al rialzo da un netto aumento dei prezzi cerealicoli. I prezzi non sono ancora ai livelli visti durante la crisi alimentare della fine degli anni 2000, ma l’andamento è preoccupante, spiegano gli analisti. “Potrebbe diventare un grosso problema per i paesi meno ricchi che dipendono dalle importazioni di generi alimentari”, ha dichiarato Abdolreza Abbassian, economista della FAO.

La situazione nell’Unione Europea

Anche l’UE si dimena in una condizione estremamente incerta. Ancora stretta nella morsa pandemica, le sue prospettive di crescita economica si allontanano. E una ripresa è prevista solo tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Vi è, dunque, il fondato rischio che la crisi possa lasciare segni profondi nel tessuto socioeconomico dell’Unione: in particolare, sotto forma di fallimenti generalizzati delle imprese e capillari perdite di posti di lavoro. Ciò aumenterebbe la disoccupazione di lunga durata e aggraverebbe le disuguaglianze.

Negli scambi degli ultimi mesi, i prezzi dei principali seminativi sono aumentati. A spingere sono una domanda crescente e un’incertezza per il calo globale dei rapporti tra stock e utilizzo. I flussi commerciali sembrano essere destinati a diminuire nel 2020/21. Le esportazioni di grano potrebbero diminuire del 27 per cento, mentre le importazioni di mais e semi oleosi potrebbero scendere a 16,5 e 14,6 milioni di tonnellate. Le esportazioni di zucchero potrebbero calare a un minimo storico di 0,8 mln/t. Si stima invece che le importazioni di colza rimangano elevate a causa del limitato recupero della produzione interna dell’UE e per il permanere di una forte domanda, in particolare di oli vegetali.

Per quanto riguarda il comparto cerealicolo, l’Unione può vantare un tasso di approvvigionamento superiore al 100 per cento solamente per frumento tenero, orzo, avena e segale, mentre per tutte le altre voci è deficitaria. Così per il mais (tasso di autosufficienza dell’83,6 per cento nel 2019-2020), sorgo (92,6 per cento). Ancora più allarmante il bilancio di autosufficienza della soia nell’UE: al 15,4 per cento, in una fase in cui le scorte mondiali sono previste in diminuzione e la Cina ha incrementato sensibilmente le importazioni. Schizzano le esportazioni di semi oleosi nel mese di dicembre 2020 (+50,23 per cento in volume rispetto allo stesso mese del 2019), ma il bilancio annuale vede l’export retrocedere dell’11,84 per cento in quantità, a confronto del 2019. In frenata le importazioni di cereali: -21,18 per cento in quantità e -12,72 per cento in valore nel 2020 rispetto al 2019. Crolla, in particolare, l’import di mais (-28,08 per cento su base tendenziale), mentre crescono le importazioni di frumento (+10,23 per cento in quantità) e di riso (+11,86 per cento rispetto all’annata precedente). Le importazioni di semi oleosi nel 2020 vedono una timida crescita (+2,96 per cento in quantità e +5,34 per cento in valore rispetto al 2019). Farina di soia (-6,45 per cento) e soia (+6,86 per cento) i prodotti più acquistati, con Brasile e Argentina primi fornitori, davanti a Stati Uniti e Canada.

Bruxelles stima che nel 2020/21 la produzione di olio d’oliva dell’UE raggiungerebbe quasi i 2,1 mln/t. L’aumento della produzione spagnola dovrebbe più che compensare il calo nei restanti Paesi. Le vendite al dettaglio sosterrebbero ulteriormente una crescita dei consumi interni (+3 per cento). Le esportazioni invece rimarrebbero stabili, sostenute da un aumento delle spedizioni verso gli Stati Uniti. Nello stesso tempo, le importazioni si ridurrebbero a causa della minore disponibilità nei Paesi extraeuropei. E l’insieme di tali condizioni dovrebbe contribuire a ridurre ulteriormente le scorte e continuare a sostenere i prezzi dell’olio evo continentale, quindi anche di quello italiano.

Secondo le stime degli analisti della Commissione, la produzione di vino rimarrebbe stabile intorno ai 157 milioni di hl. I volumi diminuirebbero in Italia e Portogallo. Mentre sarebbero in crescita in Francia, Germania e Spagna. Il consumo interno potrebbe aumentare, guidato da un incremento degli ‘altri usi’ della produzione vinificata, tra cui la distillazione di crisi. Nel contempo crescerebbero le esportazioni, guidate in particolare dall’aumento delle tariffe statunitensi sul vino europeo. E tutto questo dovrebbe comportare una riduzione delle attuali elevate scorte.

Alquanto stabile la situazione nei comparti ortofrutticolo e lattiero-caseario. Mentre è incerto il comparto della carne.  La produzione di carne bovina nei 27 Paesi dell’UE dovrebbe diminuire nel 2021 a causa di un aggiustamento strutturale nel settore combinato con una domanda inferiore. Le esportazioni verso mercati ad alto valore dovrebbero continuare ad aumentare grazie ai recenti accordi commerciali (ad es. Canada e Giappone). Peste suina africana e aviaria hanno messo in difficoltà i comparti della carne suina e del pollame. Il mercato della carne ovina deve far fronte a forti carenze di approvvigionamento a livello mondiale e interno, portando a prezzi relativamente alti. Le esportazioni della Nuova Zelanda sono in parte reindirizzate in Asia, affrontando al tempo stesso alcuni problemi logistici. Infine, le relazioni commerciali tra UE e Regno Unito aggiungono incertezza al quadro.

Per l’UE diventa, dunque, una necessità, soprattutto nell’ambito delle produzioni proteiche, non far dipendere la propria sicurezza alimentare dall’import e impostare, invece, una politica di maggiori rese produttive. Ma questa prospettiva non viene assolutamente presa in considerazione dalle istituzioni europee; anzi si va nella direzione opposta.

Una strategia europea contraddittoria

Poco prima che iniziasse la pandemia, nel dicembre 2019, la Commissione Europea ha presentato il Green Deal Europeo, che intende rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050 e ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55 per cento rispetto allo scenario del 1990, entro il 2030. Una prospettiva del tutto condivisibile, in linea con gli obiettivi dell’Accordo sul Clima di Parigi e con l’Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile. È difatti indubbio che la potenza dell’uomo abbia portato a uno sconvolgimento dei cicli bio-fisici della Terra. Così come è certo che il nostro impatto sull’ambiente crescerà. La causa principale dei cambiamenti climatici oggi è individuata nei gas presenti nell’atmosfera come l’anidride carbonica (CO2). Tali emissioni si possono ridurre con una serie di azioni di mitigazione del fenomeno, ma anche con l’adattamento, ricercando soluzioni innovative.

Come afferma il prof. Vincenzo Tabaglio, “l’agricoltura può migliorare geneticamente le colture, selezionando nuove varietà che possono tollerare le variazioni del clima”. Inoltre, si possono diffondere pratiche di agricoltura conservativa e generativa, che Tabaglio studia presso l’Università Cattolica di Milano. Pratiche che aumentano la vitalità e la fertilità dei terreni, potenziando la biodiversità. Accumulano sostanza organica nei suoli, producendo crediti di carbonio. Riducono l’erosione e migliorano le funzioni ambientali del territorio, mitigando gli effetti del cambiamento climatico.

Anche la FAO ha messo a punto un approccio sistematico per estendere nei Paesi in via di sviluppo le pratiche agricole save and grow. La dott.ssa Sandra Corsi, che segue questi progetti presso l’Agenzia delle Nazioni Unite, dice che “l’agricoltura conservativa si propone di combinare rendimento – produrre di più non è un crimine, ma una necessità – e sostenibilità attraverso tre principi: semina diretta, copertura permanente del suolo e rotazione diversificata delle colture”. “Nei Paesi in via di sviluppo – spiega Corsi – si stima che solo il 10 per cento dell’incremento produttivo derivi dall’espansione delle terre coltivate, mentre l’80 per cento sia rappresentato dall’intensificazione colturale: rotazioni più serrate con tempi di riposo più brevi e aumento delle rese dato da un uso migliore degli input produttivi”.

Il prof. Sergio Saia dell’Università di Pisa afferma che per fare la sostenibilità ambientale in agricoltura “dobbiamo fare più prodotto in meno terra”. E sostiene che, “oltre a impattare di meno per unità di prodotto, dobbiamo ottenere questo prodotto da meno superficie, in modo da lasciare più spazio per gli usi naturali e semi-naturali (es. boschi, pascoli, ecc.) e mantenere il terreno dove sta”.

Ma le Comunicazioni della Commissione (Farm to Fork e Biodiversity), che traducono l’applicazione della strategia Green Deal in agricoltura, non vanno in questa direzione. Indicano strumenti non adeguati a consentire al settore primario di partecipare alla transizione ecologica da protagonista. Da una parte, prescrivono di incentivare a dismisura i sistemi biologici, che riducono la produttività. Dall’altra, non affrontano i problemi normativi che impediscono l’uso di tecnologie genetiche. E, di fatto, negano l’importanza dell’innovazione necessaria per praticare una intensificazione sostenibile delle produzioni.

Come afferma il gruppo SETA (Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura), “le agricolture (e gli allevamenti) ‘intensive’ (meglio descrivibili come ‘tecnologiche’) non sono in opposizione a ‘sostenibili’, ma dovranno convivere nell’obiettivo di fornire alla popolazione mondiale gli alimenti necessari”. La sicurezza degli approvvigionamenti di cibo è, dunque, una componente fondamentale della sostenibilità. Per questo la produttività deve rimanere una priorità. E la produttività deve interagire con il perseguimento della sostenibilità ambientale delle agricolture e dell’allevamento tecnologici. Del resto, è da tempo che questo nesso è perseguito con incoraggianti successi. Il 2 marzo 2021, ricercatori afferenti al Joint Research Centre di ISPRA della Commissione Europea e alla divisione di Statistica della FAO, hanno pubblicato su Nature Food un interessante articolo, in cui si evidenzia come le emissioni di tutti i gas serra (misurate come tonnellate equivalenti di anidride carbonica) legate alla produzione di cibo sono aumentate del 12,5 per cento tra il 1990 ed il 2015 passando da 16 a 18 Gt CO2e/y. Tuttavia, mentre nel 1990 incidevano per il 44 per cento sulle emissioni globali, nel 2015 pesavano solo per il 34 per cento sulle emissioni di gas serra planetarie, nonostante la produzione di cibo fosse aumentata del 40 per cento in quei 25 anni. Questi risultati eccezionali derivano dalla professionalità delle imprese agricole nei Paesi dove si applicano tecnologie appropriate. Ma c’è il plausibile rischio che tali esiti positivi andranno perduti qualora si abbandoneranno i processi produttivi basati su meccanizzazione, miglioramento genetico usando le tecnologie più recenti, fitofarmaci e fertilizzanti “chimici”.

Se, nei prossimi mesi, si dovesse verificare un’anomalia climatica in Nord America, Europa o Cina, i cereali e i prodotti oleosi raggiungerebbero prezzi mai visti prima. Tale situazione stimolerebbe i Paesi in via di sviluppo a disboscare le foreste tropicali. E se noi europei dovessimo attuare una politica di riduzione delle produzioni agricole, non faremmo altro che trasferire nei Paesi poveri i nostri problemi ambientali.

Questa politica è particolarmente rischiosa per l’Italia. Se esportiamo frutta, vino e riso e siamo autosufficienti per pollame, uova, patate ed agrumi, per il resto dipendiamo dall’estero. Importiamo il 70 per cento della carne ovicaprina, il 15 per cento del latte, il 55 per cento della soia, il 33 per cento del mais. Degli ultimi due, i quantitativi importati sono prevalentemente derivati da piante OGM, delle quali in Italia è vietata la coltivazione ma non la commercializzazione e il consumo dei prodotti.

SETA sostiene a ragione che “la rinuncia alle agricolture e agli allevamenti tecnologici incrementerebbe drammaticamente il deficit alimentare di Italia ed Europa, oltre a impedire l’aumento produttivo necessario nei Paesi a basso reddito”. Per dare una dimensione al problema, il gruppo di studio cita la statistica pubblicata dall’Accademia di Agricoltura di Francia sulla produttività nazionale a ettaro del frumento tenero invernale, nella media 2008-2018: intensiva 7,1 tonnellate per ettaro, biologica 2,78 tonnellate per ettaro. C’è, infine, un episodio che dovrebbe allarmarci: a seguito dell’incremento dei prezzi mondiali del grano tenero panificabile verificatosi tra luglio 2020 e marzo 2021, a partire dal 31 marzo 2021 Vladimir Putin ha posto un dazio in uscita di 50 euro a tonnellata, al fine di conservare le scorte nazionali ed evitare rincari sul mercato interno.

L’agricoltura nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)

Per sostenere la ripresa dell’economia dei Paesi membri danneggiati dalla pandemia, l’UE ha varato il programma Next Generation EU. Esso introduce un cambio di paradigma nell’intervento pubblico unionale. Per la prima volta i fondi europei sono un bene comune e provengono da un debito comune di tutta l’Unione, acceso dalla Commissione europea e pagato con il Bilancio dell’Unione. I PNRR sono composti da obiettivi precisi e riforme connesse. Le riforme sono quelle proposte dai Governi nazionali alla Commissione e poi fissate in anticipo con un regolamento già approvato da tutti gli Stati membri.

Questo approccio non ha nulla a che vedere con la condizionalità dei salvataggi in zona euro, com’è avvenuto per la Grecia. Dopo l’approvazione del PNRR, seguirà un prefinanziamento. E ogni tot mesi – probabilmente due volte all’anno – la Commissione europea dovrà decidere se erogare la parte di finanziamento che spetta al Paese membro. Non ci sarà discrezionalità politica, ma solo verifiche e controllo del rispetto degli obiettivi e dei tempi già scritti nel PNRR, presentato e approvato. E le verifiche riguarderanno anche le riforme. Senza le quali non sarà possibile raggiungere gli obiettivi.

Per l’agricoltura e le aree rurali il PNRR prevede una serie di progetti: agrisolare (1,5 miliardi), logistica (800 milioni), meccanizzazione (500 milioni), sistema irriguo (880 milioni), contratti di filiera e di distretto (1,2 miliardi), sviluppo del biogas e biometano (2 miliardi), banda larga e 5G (5,3 miliardi). Questi progetti potrebbero davvero rendere i sistemi agricoli e agroalimentari italiani protagonisti della transizione ecologica e digitale. A condizione però che i soggetti attuatori mostrino capacità di spesa e impegno nel conseguire i risultati. Soprattutto al Sud, cui è riservato il 40 per cento degli investimenti. E l’altra condizione che dovrà verificarsi per raggiungere gli obiettivi riguarda la realizzazione di alcune riforme: ampliamento del credito d’imposta alle imprese agricole per ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica; formazione alla digitalizzazione; eliminazione dei divieti per la ricerca genetica; snellimento delle procedure ed efficientamento della pubblica amministrazione.

 

Riformare la PAC

 All’esame del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione c’è in questo momento l’adeguamento della Politica Agricola Comune (PAC) alla strategia Green Deal e la sua messa in coerenza con il programma Next Generation UE. In realtà, la discussione non verte su come permettere all’agricoltura europea di concorrere allo sviluppo sostenibile e agli obiettivi di ripresa e resilienza, mediante misure di sostegno agli investimenti per l’innovazione tecnologica. L’attenzione prevalente è sulla quantità di risorse da destinare al finanziamento dei cosiddetti eco-schemi o regimi ecologici. Si tratta di una lista di pratiche agricole che gli Stati membri potranno indicare nei Piani strategici nazionali come ammissibili per attingere ai fondi degli eco-schemi. Questa lista è stata pubblicata dalla Commissione europea. E le pratiche agricole inserite vanno dall’agricoltura biologica alla rotazione delle colture con le leguminose, dall’agricoltura conservativa all’uso estensivo dei prati permanenti. Nella lista rientrano anche il ricorso all’agricoltura di precisione per ridurre gli input chimici e le pratiche di allevamento che favoriscono il benessere degli animali.

Sul tavolo negoziale manca, tuttavia, la questione più spinosa: i principi chiave della transizione ecologica per l’agricoltura annunciati dalla Commissione in Farm to Fork e Biodiversity. Tali principi vanno dalla riduzione del 50 per cento dell’uso di agrofarmaci chimici al raggiungimento di almeno il 25 per cento dei terreni agricoli dell’UE destinati all’agricoltura biologica entro il 2030; dalla riduzione del 50 per cento delle vendite di antimicrobici per animali d’allevamento alla riduzione dell’uso di fertilizzanti di almeno il 20 per cento entro il 2030. Non ci sono ancora formali proposte legislative per applicare i suddetti criteri; e al momento il Consiglio dei ministri ha solo richiesto alla Commissione una valutazione di impatto dell’applicazione di tali principi. Ma appare evidente che da questa decisione dipenderà in modo significativo la fisionomia che l’agricoltura europea assumerà nel prossimo futuro: una più marcata debolezza produttiva e imprenditoriale, come esito di un’estensivazione forzata dall’alto, o un rinnovato vigore, come risultato di un rifiorire della sua produttività e crescita, mediante l’incentivazione di processi innovativi sostenibili. Se prevarrà la prima, l’agricoltura europea vedrà sempre più scemare la sua importanza nel confronto con le altre agricolture del mondo. Se viceversa imboccherà il percorso dell’intensificazione sostenibile, essa potrà aspirare a diventare leader delle agricolture conservative e tecnologiche che si confronteranno e coopereranno sul pianeta.

Il sistema agricolo nazionale ed europeo appare scarsamente preoccupato per l’esito che avrà questa partita con le istituzioni europee. Tutta l’attenzione è infatti rivolta all’entità degli aiuti diretti. Gli apparati burocratici e rappresentativi del settore, che negli anni si sono organizzati prevalentemente per gestire questa forma di intervento, continuano a difenderla strenuamente. E ad essa sono disponibili a sacrificare ogni cosa. Sull’assunto ormai obsoleto che i redditi agricoli siano nettamente inferiori a quelli percepiti in altri settori. Invero, studi recenti a livello europeo, come quelli condotti dall’economista Alan Matthews, dimostrano che questa conclusione non ha consistenza. Già le ricerche dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale (INSOR) avevano accertato che nel periodo 1995-2006 – utilizzando i dati sui redditi famigliari rilevati da Banca d’Italia con l’indagine sui bilanci delle famiglie italiane – una “sostanziale marcia di avvicinamento fra i redditi delle famiglie in aree rurali e i redditi delle famiglie in aree classificate urbane”. L’idea che la permanenza degli agricoltori nelle aree rurali si ottenga esclusivamente con lo strumento dei pagamenti diretti è un luogo comune rimasto granitico. È stato dimostrato dal prof. Franco Sotte che tale forma di intervento è del tutto inadeguata per raggiungere qualsivoglia obiettivo. “È pressoché impossibile – scrive lo studioso – individuare indicatori e target che permettano di premiare i virtuosi e, peggio ancora, per sanzionare gli inadempienti. Inoltre, un pagamento ad ettaro non aiuta il profitto, tantomeno la sostenibilità. Più sale la rendita, più il reddito si riduce, come sanno tutti gli affittuari che, come effetto indiretto dei pagamenti diretti, devono far fronte a canoni sopravvalutati”.

C’è scarsa attenzione anche per un altro problema: la PAC contribuisce in misura del tutto marginale al miglioramento del sistema della conoscenza e dell’innovazione in agricoltura, come dimostra un recente studio, che ha coinvolto otto Paesi tra i quali l’Italia (con il CREA), in riferimento alla programmazione della PAC 2014-2020. Eppure, questo obiettivo dovrebbe essere prioritario nell’intervento pubblico per il settore agricolo.

L’attuale negoziato potrebbe essere l’occasione per superare un’impostazione assistenzialistica della PAC e concentrare finalmente le risorse finanziarie su ricerca, sviluppo e innovazione. Ma bisogna rompere il circuito perverso di compromessi al ribasso tra mondo dell’agricoltura tout court e mondo del biologico fondato sulla conservazione degli aiuti diretti, tinteggiatura verde più o meno accentuata e destinazione crescente di risorse all’agricoltura biologica.

Nel trilogo Parlamento – Consiglio – Commissione va posto, invece, il tema di una tendenziale virata verso l’autosufficienza alimentare europea con un’agricoltura capace di compiere il salto tecnologico che integri digitale, intelligenza artificiale e genetica. Solo così il settore primario europeo può diventare il grande protagonista della transizione ecologica e misurarsi con altre agricolture, come quelle di Stati Uniti, Cina, India, Russia.

Verso il G20 Agricoltura

Nell’ambito delle iniziative della Presidenza italiana del G20, si svolgerà a Firenze la riunione dei ministri dell’Agricoltura nei giorni 17-18 settembre 2021. Mentre il 16 settembre è previsto un Open Forum sull’Agricoltura Sostenibile a cui sono invitati a partecipare anche i paesi non G20, le organizzazioni internazionali, la società civile e gli agricoltori. La finalità è discutere le azioni concrete che si intendono promuovere per contribuire all’“obiettivo fame zero” e dare visibilità alle buone prassi in materia di agricoltura sostenibile.

Non sappiamo quali saranno le proposte della Presidenza italiana del G20. Ma c’è un interrogativo a cui l’Italia e l’Ue non potranno sfuggire: “Se la crisi pandemica e i cambiamenti climatici propongono a livello planetario la sfida della transizione ecologica per la neutralità climatica e, contestualmente, quella dell’eliminazione della fame, l’UE deve porsi oppure no l’obiettivo dell’intensificazione sostenibile per fare in modo che gli agricoltori europei possano essere protagonisti?”

Per sopperire all’incremento della richiesta alimentare di una popolazione mondiale in continua crescita vi sono due vie: o aumentare le superfici coltivate a scapito delle foreste e delle praterie naturali, o incrementare la produttività di ogni ettaro coltivato, migliorando le attuali tecnologie e incrementando le conoscenze. Rinunciare alle produzioni tecnologiche e passare alle agricolture e zootecnie estensive, avrebbe risultati disastrosi sia in termini di produzione sia di impatto ambientale globale.

Un recente parere della Commissione Europea sulle Nuove Tecniche Genomiche (NGT) ipotizza la revisione della Direttiva 18/2001, che definisce e regola gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM); Direttiva messa in discussione da una sentenza della Corte di Giustizia Europea che l’ha ritenuta ormai obsoleta e non in linea con il progresso scientifico. In tale parere, la Commissione afferma che le NGT possono ridurre l’impiego di agrofarmaci e che queste sono funzionali alla strategia del Green Deal (come si è detto, interpretata in agricoltura dal Farm to Fork) e agli obiettivi dello Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, riducendo l’emissione dei gas serra. Aggiunge, inoltre, che le NGT presentano rischi analoghi o minori rispetto ai classici incroci; che la coesistenza con l’agricoltura biologica si può ben gestire; che, infine, le nuove tecniche introducono mutazioni indistinguibili da quelle che possono accadere casualmente e che, dunque, non sono tracciabili dall’autorità ispettiva. Nel commentare il documento, il prof. Roberto Defez del CNR ha scritto che “la libertà d’impresa e la coesistenza delle diverse agricolture dovrebbero guidare le scelte con cui il Consiglio dei ministri europei discuterà a breve del parere della Commissione”.

Inoltre, il Panel Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC), consiglia l’uso di NGT e, in particolare, del CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats) – premiato col Nobel 2020 a due ricercatrici – per migliorare e adattare le piante ai cambiamenti climatici in corso, riducendo così le emissioni di altri gas ad effetto serra che surriscaldano il pianeta.

Il prof. Giuseppe Sarasso ritiene che “i miglioramenti della sostenibilità ambientale passano anche attraverso le applicazioni delle tecnologie informatiche e l’utilizzo dei sistemi di geolocalizzazione precisa”. Se nel secolo scorso si tendeva a standardizzare gli interventi colturali a livello di grandi superfici, dall’inizio di quello attuale è iniziata la tendenza di ottimizzare gli interventi operativi, tramite traiettorie precise, senza fallanze o sovrapposizioni. È stata anche introdotta la modulazione delle dosi dei fattori tecnici somministrati, adattandole alle necessità sito-specifiche del terreno, e al relativo stato nutrizionale delle piante coltivate, che dimostrano ampie variabilità in piccoli spazi. Si possono individuare tramite rilievi veloci e non invasivi (satelliti, droni, sensori portati da macchine operatrici) i primi focolai delle malattie, limitando l’uso dei fitofarmaci a quanto serve per bloccarne tempestivamente la diffusione. In futuro i robot, guidati da sistemi di intelligenza artificiale che sappiano distinguere le specie infestanti dalla pianta coltivata, potranno sostituire il lavoro eseguito un tempo con la zappa e attualmente con lo spargimento di erbicidi selettivi. Alcuni prototipi sono già in sperimentazione. La tecnologia più matura riguarda la veicolazione degli erbicidi solo sulle infestanti, senza interessare la coltura, con risparmi di erbicidi superiori al 50 per cento. Il passo successivo potrà essere quella della distruzione meccanica delle specie infestanti.

La tecnologia fin qui descritta è stata ultimamente denominata “agricoltura 4.0”. “Ma vietando l’uso degli erbicidi prima di disporre dei robot – avverte il prof. Sarasso -, si dovrà riportare il numero degli addetti all’agricoltura ai numeri del 1950: il 50 per cento dei cittadini ad usare la zappa, sempre che si trovino soggetti disponibili”. E continua: “L’introduzione di tecnologie sofisticate richiede un largo innesto in agricoltura di nuove generazioni che dispongano buona padronanza dei dispositivi informatici, non disgiunta da una discreta esperienza di agricoltura, che deve essere ereditata dalle generazioni anziane”. Un processo innovativo complesso che richiederà, dunque, un impegno di lunga lena in azioni coerenti e investimenti mirati.

L’UE si trova, dunque, dinanzi a scelte ineludibili che deve compiere rapidamente, sia per quanto riguarda la conferma dell’utilizzo degli agrofarmaci chimici (almeno fino alla piena implementazione delle applicazioni delle tecnologie informatiche e dell’utilizzo dei sistemi di geolocalizzazione precisa), sia per quanto concerne l’apertura alle opportunità offerte dalle tecnologie genetiche. Se si guarda allo scenario mondiale, solo l’UE e la Nuova Zelanda hanno normative restrittive in materia di biotech, mentre tutti gli altri Paesi applicano regimi flessibili se non addirittura del tutto deregolamentati. In un Open Forum sull’Agricoltura Sostenibile convocato con lo scopo di discutere delle azioni concrete per raggiungere l’”obiettivo fame zero”, non dovrebbe mancare un confronto serio su questi argomenti.

Per ricostruire le economie dei Paesi danneggiati dalla pandemia e predisporsi nel prevenire future crisi, gli Stati del mondo dovranno confrontarsi e collaborare tra loro per trovare soluzioni globali. Alle pandemie del passato seguivano le carestie. Le quali venivano eliminate grazie alle condizioni di pace, sviluppo sociale e tecnologico e democrazia. Non a caso, nel 1970, l’agronomo genetista Norman Borlaug fu insignito del premio Nobel per la Pace con la seguente motivazione: “[A colui che] più di ogni altra persona del nostro tempo ha aiutato a dare il pane a un mondo affamato. Noi abbiamo fatto questa scelta nella speranza che provvedendo al pane si darà pace a questo mondo”. Oggi la pandemia da Covid-19 ha posto al centro del dibattito il problema dei vaccini e, in particolare, dei brevetti riferiti a questi farmaci. Le organizzazioni mondiali (ONU, OMS, WTO, ecc.) dovranno affrontare questi temi, rivisitando le regole riguardanti i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, la cooperazione internazionale, gli scambi commerciali. La questione dei vaccini è solo un aspetto del tema più rilevante della salute globale, definita dall’Istituto Superiore di Sanità “un’area di studio, ricerca e pratica che pone una priorità sul miglioramento della salute e sul raggiungimento dell’equità nella salute per tutte le persone in tutto il mondo”. La pandemia ci ha ricordato il nesso tra salute globale umana e salute globale animale. L’agricoltura, la zootecnia, l’alimentazione, l’ambiente sono argomenti strettamente intrecciati con la salute globale. Stiamo andando verso un cambio di paradigma dello sviluppo che gli Stati dovranno interpretare e regolare in modo condiviso. Al momento prevalgono da parte di alcuni Stati atteggiamenti egemonici rispetto a quelli cooperativi.  In campo ci sono democrazie liberali e regimi autoritari. E da questo confronto / scontro anche la democrazia e le sue forme potranno subire modifiche, nello Stato e oltre lo Stato.

L’UE sarà protagonista nel nuovo scenario mondiale che si va delineando, se completerà rapidamente il suo processo di integrazione, dotandosi di istituzioni efficienti e di una forma di governo efficace e democratica. Non basterà la Conferenza sul Futuro dell’Europa che si è aperta il 9 maggio scorso. Bisognerà che il Parlamento Europeo getti il cuore oltre la siepe ed elabori un progetto di revisione del Trattato ai sensi dell’art. 48 del TUE. Per poi negoziarlo con gli Stati membri, con un confronto / scontro politico.

In tali percorsi, l’agricoltura europea potrà fare la sua parte nel confronto / scontro sia europeo che planetario – così come avvenne nella fase iniziale dell’integrazione comunitaria quando seppe compiere un forte salto produttivo – se sarà messa nelle condizioni di innovarsi tecnologicamente per produrre il cibo necessario alle popolazioni e, al contempo, preservare le risorse ambientali a vantaggio delle generazioni future.

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