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Uno sguardo sulla storia della Repubblica per comprendere alcuni caratteri di fondo degli italiani
È in circolazione un libro indispensabile per comprendere le radici del populismo, dell’assistenzialismo e del paternalismo nel nostro Paese. Il titolo condensa bene il suo contenuto: “La Coldiretti e la storia d’Italia” (Donzelli editore). Non c’è, infatti, una sola fase della vita della Repubblica che non veda il coinvolgimento di quella che è stata ed è tuttora la più grande organizzazione agricola. E il libro analizza in modo dettagliato tale intreccio che condiziona enormemente la vita politica italiana. L’autore, Emanuele Bernardi, insegna Storia contemporanea all’Università “La Sapienza” di Roma e, per scrivere l’opera, ha utilizzato una molteplicità di fonti: dagli archivi storici di istituzioni e organizzazioni politiche e sindacali alla memorialistica, dalla documentazione dei servizi di intelligence americani alle raccolte di quotidiani e periodici nazionali e locali. La ricerca riguarda un arco temporale abbastanza ampio: dal 1944, anno di fondazione, al 1980, quando il fondatore, Paolo Bonomi, lascia la presidenza ad Arcangelo Lobianco. Dunque, uno sguardo di lungo periodo per analizzare e tentare di comprendere alcuni caratteri di fondo non solo del ceto politico, ma anche degli italiani, i quali, fino a pochi decenni fa formavano prevalentemente ceti rurali. L’evoluzione dell’agricoltura italiana – coi suoi punti di forza, ma anche con le sue profonde debolezze – è stata fortemente condizionata dalla presenza di questa organizzazione. E siccome la società odierna ha nel proprio Dna i tratti del precedente mondo rurale, è l’intero Paese a risultare fortemente influenzato, nelle sue abitudini più consolidate e nella sua mentalità più diffusa, dal modo di essere della Coldiretti.
È la prima volta che uno storico si cimenta in una simile impresa con un approccio non settoriale ma guardando all’insieme delle connessioni con l’intera storia d’Italia. Finora gli studi sulla Coldiretti hanno riguardato solo aspetti parziali o locali. E così adesso emergono con nitore fatti e risvolti mai rilevati dalla storiografia. Innanzitutto, è messo in chiaro che nel 1944 la Coldiretti più che nascere a seguito di una scissione ai danni della Cgil unitaria, in realtà si scinde dalla Federazione italiana degli agricoltori (Fida), appena risorta dalle ceneri della ex Confederazione fascista degli agricoltori. Da qui la sua natura bicefala: “partito contadino” all’interno della Dc e, nel contempo, organizzazione professionale dei coltivatori del tutto separata da quella degli imprenditori agricoli. Una scelta difforme da quella dei grandi Paesi europei che mantengono, invece, una “casa comune” per la rappresentanza degli interessi agricoli; una scelta divisiva che è alla radice degli squilibri e delle debolezze dell’agricoltura italiana; una scelta contraddittoria e di sapore populista e ruralista che, da una parte, ostenta un’improbabile presa di distanza dall’opinata subordinazione agli interessi della grande proprietà fondiaria imposta dal regime mussoliniano alle aziende diretto-coltivatrici e, dall’altra, spregiudicatamente s’avvale dell’apporto determinante di dirigenti e tecnici della Federazione fascista dei coltivatori diretti, in alcuni casi germanofili e antisemiti, garantendo così alla nuova struttura una base di continuità tra fascismo e post-fascismo.
La ricerca di Bernardi fa emergere la peculiarità del rapporto tra la Chiesa e la Coldiretti che si allaccia non già al momento dell’atto fondativo dell’organizzazione, ma solo successivamente quando i responsabili del Piano Marshall a Washington e nelle capitali dei paesi assistiti cominciano ad avvalersi delle organizzazioni agricole americane e internazionali. È nel contesto di tali relazioni che compare a più riprese, nelle iniziative della Coldiretti, un prete italo-americano, don Gino Ligutti, osservatore del Vaticano presso la Fao e segretario della Conferenza nazionale cattolica sulla vita rurale. Egli svolge, dapprima negli Stati Uniti e poi nel mondo, un’intensa attività di apostolato e dialogo interreligioso sui valori del mondo rurale in un intreccio strettissimo con quelli della libertà d’impresa e sull’impatto del progresso tecnologico nelle campagne. Bonomi ne resta affascinato e decide così di istituire, in ogni diocesi, la figura del consigliere ecclesiastico (per curare l’assistenza religiosa e morale e la formazione degli iscritti e dei dirigenti secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa) e i Gruppi giovani e donne rurali. A svolgere per primo la funzione di consigliere ecclesiastico nazionale è significativamente scelto mons. Pietro Pavan, che, negli anni Trenta, aveva pubblicato scritti elogiativi sul fascismo e, dopo la guerra, aveva spinto l’Azione cattolica ad avvicinarsi alla Coldiretti. Anche l’istituzione dei Gruppi donne rurali è fatta all’insegna della continuità con l’esperienza fascista delle “massaie rurali”.
L’autore ricostruisce, inoltre, l’intreccio tra Coldiretti, ministero dell’Agricoltura e Federconsorzi e dà conto di come queste siano diventate organizzazioni siamesi, strette in un patto destinato a durare oltre trent’anni. Da quella posizione di vantaggio, Bonomi controlla il sistema politico interno alla Dc, diventando il finanziatore principale delle sue campagne elettorali e istituendo con essa una sorta di collateralismo alla rovescia. Stipula intese politico-sindacali con la Confagricoltura volte ad egemonizzarla e accordi economici con gli industriali finalizzati alla vendita dei mezzi tecnici per l’agricoltura, riservandosi condizioni di monopolio. Nello stesso tempo, con l’acquisizione del Gruppo Reda e del pacchetto azionario nella Banca nazionale dell’agricoltura, il capo della Coldiretti influenza la stampa (il primo a farne le spese è un giovane Eugenio Scalfari che viene licenziato su due piedi per aver scritto su Il Mondo un articolo di denuncia delle complicità tra Dc, Federconsorzi, Ente Risi e Coldiretti). Frena le prime iniziative europeiste del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e le politiche di liberalizzazione degli scambi portate avanti dal ministro del Commercio estero Ugo La Malfa. Contribuisce a caratterizzare il modello italiano di welfare, migliorando sensibilmente la qualità della vita dei ceti rurali, sebbene utilizzasse le innegabili conquiste sociali per rafforzare ulteriormente la presenza territoriale dell’organizzazione. Stabilisce rapporti diretti con le ambasciate e alcuni uomini del Dipartimento di Stato e del Congresso americano arrivando ad intercettare e gestire una parte dei fondi stanziati dalla Foreign Operation Administration (Foa), succeduta al Piano Marshall. Briga per farsi assegnare una parte cospicua dei fondi generati dal Piano federale di aiuti alimentari in Europa, denominato Food for Peace. Entra nei gangli delle relazioni economico-politiche internazionali e delle reti anticomuniste transnazionali che finanziano gruppi di pressione e movimenti. E importa in Italia, nell’ambito dei programmi di scambio culturale con gli Stati Uniti (International Four-H Youth Exchange), il modello americano dei “Club 4H” (Head, Heart, Hands and Health), costituendo i “Clubs delle tre P” (Provare, Produrre, Progredire) per sperimentare tra i giovani coltivatori le novità tecnico-agronomiche diffuse nelle grandi aziende statunitensi.
Interessante è il meticoloso racconto delle modalità organizzative, comunicative e scenografiche che caratterizzano l’azione rivendicativa e politica della Coldiretti. Le spighe di grano nella pala del logo e il giallo della bandiera della Coldiretti simboleggiano il triplice mito “Religione Patria e Famiglia” dell’Italia contadina. In perfetta analogia coi partiti, la dimensione di massa e la proiezione “totalitaria” sono i tratti distintivi della Confederazione che utilizza tutti i mezzi della comunicazione politica ereditati dal fascismo, a partire dalla radio e dal cinema. E quando arriva la televisione, la Coldiretti stila immediatamente una convenzione con la Rai, incaricata di trasmettere i materiali preparati presso l’organizzazione, anche con l’assistenza americana. Dal 1955, la Tv degli agricoltori è il primo programma televisivo messo in onda, curato da Renato Vertunni in collaborazione con l’ente di formazione della Coldiretti. Con l’assistenza tecnica dei consorzi agrari, tutte le federazioni provinciali si dotano di televisori e, in sinergia con la Rai, viene trasmessa la diretta televisiva dei congressi e di altri eventi, come la “Giornata del ringraziamento”. Questi appuntamenti sono dei veri e propri spettacoli, organizzati nella forma di adunate oceaniche capaci di impressionare per la loro imponenza. Secondo un rituale che volta per volta viene affinato, Bonomi “giudica e manda” i ministri: talvolta invitandoli a discolparsi, talaltra lodandoli ma facendoli sempre passare per le forche caudine dello stesso applauso popolare. “Che facciamo – chiede il presidente alla folla – vogliamo dare la sufficienza a questo signore? Magari un sei meno, o un sei meno meno?”. E il personaggio esaminato, di sua natura impettito, mastica l’amaro di una così plebea confidenza, assieme al dolce di una promozione ottenuta per il rotto della cuffia. Si incarna in quei saturnali della partecipazione di massa la favola del “mondo alla rovescia”, cara alla fantasia dei contadini che lo avevano filtrato dalle antiche feste italiche e medievali. La società, che li mortifica ogni giorno con i prezzi, riconosce – per un attimo – i re contadini.
Nel libro troviamo infine un episodio che ci lascia senza fiato: la strana reazione della Coldiretti alla tragica strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Quando scoppia la bomba, all’interno della Banca dell’agricoltura di Milano ci sono infatti decine di coltivatori che perdono la vita o restano gravemente feriti. Mentre immediata e unanime si leva la condanna da parte del mondo politico e sindacale, solo il 27 dicembre Bonomi reagisce dalle colonne del giornale confederale con un lungo appello pacificatore. Evita di lanciare accuse alle sinistre – sebbene si pensasse alla matrice anarchica – e invita invece all’unità nazionale, alla luce dei valori cristiani. Oggi, acclarata la matrice neofascista nell’ambito della cosiddetta “strategia della tensione”, l’autore formula alcune domande: perché si sceglie la Banca dell’agricoltura? È un messaggio alla Coldiretti perché rinneghi l’apertura fatta al centro-sinistra e assuma una posizione intransigente verso la Dc? La provenienza dei neofascisti dal Veneto – poi individuati quali esecutori dell’attentato -, regione roccaforte della Dc e della Coldiretti, è casuale? È una spinta eversiva perché quell’area politico-sindacale, già attraversata a più riprese in passato da rigurgiti destrorsi, faccia leva sulla Dc perché abbandoni ogni velleità riformatrice e dia vita ad un governo spostato a destra? Alla luce delle verità processuali e della storia raccontata nel libro, Bernardi ritiene plausibile l’ipotesi che dietro quell’attentato vi sia una scelta precisa: provocare la reazione di quei ceti sociali delle campagne particolarmente allergici, dopo vent’anni di guerra fredda, all’ascesa delle sinistre al governo del Paese, colpendo al cuore uno dei centri economico-finanziari dell’agricoltura italiana.
È significativo che solo nel 1975, alla Conferenza di Montecatini, per tentare di uscire dall’isolamento in cui la sua organizzazione era piombata negli ultimi anni, Bonomi affida ad una personalità di rilievo istituzionale come Brunetto Bucciarelli-Ducci, magistrato, parlamentare Dc e già presidente della Camera dei deputati, nonché vice presidente confederale dal 1949, il compito di svolgere la relazione introduttiva e di dirigere i lavori. E così tutti gli osservatori sono colti di sorpresa nell’ascoltare, per la prima volta in un’iniziativa della Coldiretti, l’affermazione dell’identità antifascista della Confederazione, nel ricordo della morte dei “fratelli Cervi”. Ormai gravemente ammalato e messo di fronte alla possibilità di una mozione di sfiducia, nel 1980 il fondatore è finalmente indotto a farsi da parte. Ma la Coldiretti non perderà i suoi caratteri di fondo e non farà mai i conti con le luci e le ombre di quel suo passato. Né più, né meno come l’Italia.