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Un movimento che covava da anni sotto la cenere, ma non trovava modi e tempi giusti per emergere nel timore di confondersi coi populismi e gli estremismi
Quello delle Sardine è un movimento intergenerazionale e non giovanile, come a torto è stato detto. È trasversale a tutti i ceti sociali e agli elettorati di sinistra, di centro e di destra. È una reazione culturale – anche ironica, a cominciare dalla denominazione – a un clima rude e cupo, rozzo e intollerante, alimentato dai populismi italiani che si sono sedimentati in questi ultimi decenni. È una reazione culturale ad un senso comune di massa rancoroso e violento, contro tutto e tutti, alimentato ultimamente dai giallo-verdi di Salvini e Di Maio, dapprima uniti nell’esecutivo e ora divisi tra governo e opposizione. Nasce nelle piazze non già perché è frutto di una iniziativa movimentista e massimalista, ma perché, nelle attuali condizioni, soltanto in quei luoghi può nascere.
Non deve trarre in inganno il fatto che il bersaglio per ora sia solo Salvini. Come ha osservato Biagio de Giovanni, c’è in questo movimento l’embrione di un’altra Italia alla ricerca di nuove identità, idee e linguaggi per sferrare una critica spietata e ironica ai sottofondi populisti che invadono la scena italiana anche in veste di governo del Paese. Potrà riuscirci se saprà unificare nel movimento – ha ragione Antonio Preiti – le identità delle minoranze che sostengono l’immigrazione o la cultura gender o ancora la lotta ai cambiamenti climatici con le identità più popolari e diffuse, interessate a trovare o difendere un lavoro, a ottenere risposte efficaci in termini di sicurezza e di welfare. Vedremo nei prossimi mesi. Di che è fatta per ora questa critica?
Dal Manifesto
Andiamo intanto a leggere cosa dicono le Sardine, nel loro Manifesto, rivolto ai “cari populisti”. C’è una crisi di rigetto: “avete tirato troppo la corda dei nostri sentimenti”. Emerge una critica degli stili e dei contenuti della promozione populista: “un oceano di comunicazione vuota”. Si conferma la fiducia nella politica: “crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola”. Si rivendica la normalità: “siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Come si può facilmente notare, non c’entrano nulla i Bossi, i Di Pietro, i girotondini, i neo borbonici, i Grillo.
Dal Manifesto traspare anche una consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità: “Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. E’ stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi”.
I miasmi dell’antipolitica
Quello delle Sardine è un movimento che covava da anni sotto la cenere, ma che non trovava modi e tempi giusti per emergere, nel timore di essere confuso proprio con chi ha creato il deserto culturale in cui il Paese è insabbiato. In particolare, con chi ha alimentato in Italia, fin dagli inizi degli anni ‘90, un modo di essere e di esprimersi da guerra civile, a partire dall’insorgenza leghista e da quella giustizialista, fino al grillismo. Un modo di essere e di esprimersi che ha infettato dapprima – attraverso i media – la società e poi – attraverso i social – i partiti. Un modo di essere e di esprimersi che è gradualmente diventato un comune sentire.
Da anni assistiamo allo spettacolo di una politica gridata, minacciosa, piena di odio, che tratta l’avversario come nemico da annientare, ma che, alla fine, è rumorosamente inconcludente. In ogni ora del giorno si rovesciano dai teleschermi, dai computer e dagli smartphone urla, insulti, lacrime esibite, rabbie, attraverso i talk-show, tanto dalle TV pubbliche quanto da quelle private. Un vociare inconsulto che scalda gli animi e istupidisce le menti. Un atteggiarsi da tuttologi arroganti in spregio alle competenze, alla scienza o, semplicemente, al buon senso, lasciando spazio a credenze magiche e fake news. La politica dei partiti è vittima, protagonista e furbescamente complice di questo andazzo, purché, si intende, sia a danno del nemico del momento.
Etica pubblica fragile e valori condivisi assenti
Giovanni Cominelli ha scritto che la critica delle Sardine allo stile che si è imposto nelle relazioni politiche e nel linguaggio pubblico è una critica concernente l’etica pubblica. Contiene cioè la richiesta alla società civile e alla politica di un agire comunicativo volto alla cooperazione, non al conflitto; orientato al dialogo, non all’anatema. Ma è una critica che riguarda anche il modo di essere della società civile e della politica in Italia. Un modo di essere che affonda le radici nelle ideologie ottocentesche e novecentesche. Ideologie che si sono combattute fomentando odio e violenza, con l’intento di annientarsi a vicenda. Ideologie che si sono mostrate incapaci di adottare quel sano spirito competitivo che caratterizza avversari politici in grado di riconoscersi reciprocamente come artefici del bene comune e di confrontarsi anche aspramente su questioni di merito.
Più volte dall’Unità d’Italia si sono manifestati scenari da guerra civile: dalla lotta al brigantaggio con decine di migliaia di morti agli scontri sociali del “biennio rosso” (1919-1922); dal clima violento creatosi dopo l’istituzione della Repubblica sociale italiana alle velleità di riprodurlo nello scontro tra comunisti e anticomunisti, alimentate dal mito della “resistenza tradita” e domate dallo stesso Togliatti; dallo spargimento di sangue degli “anni di piombo”, a seguito della saldatura di filoni anti-sistema sorti nel dopoguerra con frange dei movimenti studenteschi ed operai del ‘68, alla delegittimazione reciproca tra berlusconiani e anti-berlusconiani da cui sono derivate le nubi tossiche dei movimenti anti-partitici e giustizialisti.
Se si guarda alle vicende che hanno scandito il lungo periodo, alla conflittualità permanente che ne è derivata, al congelamento di ogni tentativo di riforma che ne è conseguito, alla debolezza storica dell’Italia nel quadro geopolitico che ne è scaturita, il movimento delle Sardine sembra manifestare finalmente una domanda di grande portata: essa riguarda i fondamenti stessi della politica, le condizioni perché questa possa espletarsi.
La disfunzione istituzionale dell’Ue
Quello delle Sardine è un movimento che potrebbe anticipare la rivolta antipopulista nello scenario europeo. In contemporanea con la manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma, si sono svolti flash mob in altre città europee, come Bruxelles, Parigi, Berlino, Francoforte, Dresda, Londra, Helsinki. Si avverte, infatti, una diffusa insofferenza per il blocco del processo di integrazione europea e per il condizionamento che populisti e sovranisti esercitano sulle istituzioni europee. Incomincia a consolidarsi la consapevolezza che è la disfunzione istituzionale dell’Ue – così come l’ha definita Sergio Fabbrini – la principale responsabile dell’impossibilità di dare risposte a problemi complessi, come il completamento dell’unione economica e monetaria e la possibilità di attivare politiche anticicliche, la costruzione di una effettiva politica comune di difesa e sicurezza, la definizione di una strategia per affrontare la crisi demografica e la gestione delle relative ondate migratorie, la crisi climatica e lo sviluppo sostenibile. E si attribuisce a tale paralisi decisionale il senso di sfiducia che dà poi la stura ai populismi e ai sovranismi.
Il Parlamento Europeo dovrebbe applicare l’articolo 48 del Trattato sull’Ue per predisporre e approvare un progetto di revisione del Trattato da negoziare successivamente con gli Stati membri. Al centro di tali modifiche andrebbe posta la “questione democratica”: avere un Parlamento dell’Unione composto di due Camere: quella dei Popoli e quella degli Stati. Un Parlamento che eserciti la funzione legislativa e di bilancio in modo esclusivo e che dia o revochi la fiducia al Governo dell’Unione. Dinanzi alle nuove e pressanti sfide globali, andrebbero ridefinite le due sovranità costitutive: quella unionale e quella nazionale. L’Unione dovrebbe poter agire liberamente. Per farlo, occorrerebbe riconoscere la piena autonomia alle due sovranità costitutive. Ciascuna di esse dovrebbe estrinsecarsi nelle specifiche competenze e attribuzioni, senza interferenze e condizionamenti reciproci. L’Unione andrebbe dotata di un bilancio autonomo e non derivato; fondato su risorse proprie, attraverso una fiscalità diretta. La quale dovrebbe diventare uno dei fondamenti della cittadinanza europea.
Ma il Parlamento Europeo non prende ancora una tale iniziativa, mostra di non avere coraggio nel prendere di petto la situazione e di aprire un confronto anche aspro coi Governi nazionali. Manifesta una profonda incomprensione del disagio provato dai cittadini europei nell’assistere inermi alle ritualità del meccanismo intergovernativo di decisione, che ha portato l’Unione alla paralisi. È del tutto sordo ai buoni consigli impartiti da tempo dal filosofo tedesco Jürgen Habermas: “Se i ‘rappresentanti diretti dei cittadini’ vogliono conquistare le loro popolazioni alla causa di un’Europa solidale, devono: prendere congedo dall’abituale combinazione del ‘lavoro presso l’opinione pubblica’ e dell’incrementalismo pilotato da esperti e passare a una lotta rischiosa e soprattutto incardinata nella vasta sfera pubblica e nell’azione coerente della ratificazione giuridica democratica dell’Ue, attraverso la modifica a questo Trattato sulla Ue”.
Da cosa dipende questo atteggiamento impigrito e sordo, questa cataplessia che impedisce al Parlamento Europeo di soddisfare la domanda dei cittadini di sentirsi pienamente e direttamente rappresentati, al livello dell’Unione, dall’organismo che essi votano ogni cinque anni? C’è sicuramente il potere di condizionamento dei sovranisti e dei populisti ma ci sono anche le velleità degli europeisti che pensano di far valere meglio i propri interessi nazionali in una logica decisionale intergovernativa.
Sarà in grado un movimento europeo di Sardine di rivoltarsi contro questo atteggiamento deplorevole e chiedere alla politica di esercitare l’etica della responsabilità? Coloro che credono nei valori della democrazia e della libertà devono augurarselo se non vogliono mostrarsi arrendevoli ai regimi autoritari e illiberali che si stanno rafforzando dentro e fuori l’Ue. Ma se malauguratamente si arrivasse a una resa, si formerebbe un mondo di nessuno (per dirla con Charles Kupchan) in cui il principio liberale del mutuo riconoscimento tra Paesi non è più garantito.
C’è un unico modo per uscire dalle secche in cui ci troviamo: non rinunciare alla forza del pensiero, ai processi di apprendimento morale che si incarnano nella costituzionalizzazione delle libertà legali. In passato tali processi – come ci insegna Habermas – erano alimentati dalle risorse religiose che si secolarizzavano e diventavano pensiero laico. Ma oggi non siamo più certi che, dinanzi a problemi etici di tipo completamente nuovo come quelli posti dalla fine della crescita naturale dell’organismo umano e dalla possibilità di interventi incontrollati sulla sua struttura genetica, la traduzione dal teologico al laico possa avvenire come prima. Si avvertono segnali di deragliamento e la crescita dei populismi e degli estremismi ne costituisce una spia evidente. E se anche le risorse religiose scarseggiano si potrà attingere ad altre riserve di senso? Ci saranno movimenti secolari e pratiche sociali capaci di rimettere in moto la macchina? Saranno in grado le Sardine di promuovere laicamente risorse di senso per (ri)costruire la democrazia dentro e oltre lo Stato? Queste sono le domande che il movimento sorto in questi mesi propone.