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Giovani agricoltori e innovazione

Relazione al Convegno della CIA e dell'AGIA su "GIOVANI IN AGRICOLTURA. Insieme si può! ...a un anno dalla Carta di Tricarico. NUOVE OPPORTUNITA' MULTIFUNZIONALI NEL MEZZOGIORNO", svoltosi a Tricarico (MT) il 26 ottobre 2018

Tricarico_gruppo

Desidero ringraziare i dirigenti della CIA e dell’AGIA per avermi invitato a questo importante convegno su un tema che non ha una rilevanza settoriale ma è d’interesse generale per l’insieme della società. Un saluto particolare rivolgo al Presidente Dino Scanavino che guida la Confederazione con intelligenza e passione in una fase difficile e delicata per la nostra agricoltura nazionale ed europea alle prese con sfide epocali.

Suddividerò il mio intervento in tre parti. La prima riguarda il tema del cosiddetto “ritorno alla terra”. La seconda è dedicata ad alcune linee per una ricerca azione sulle agricolture innovative. La terza vuole tracciare un profilo di una nuova idea di sviluppo entro cui collocare il futuro dell’agricoltura.

Il ritorno alla terra tra mito e realtà

Nel 2015 si è parlato di 20 mila nuovi occupati giovani in agricoltura. Ma poi si è compreso che l’aumento era legato alle richieste del premio di primo insediamento che spesso cela solo un subentro nominalistico di un giovane nella titolarità dell’impresa per poter accedere al finanziamento europeo.

A ben vedere, il controesodo dalle città verso la campagna (“Ritorno alla terra” – Back to the land nell’America di Roosevelt) non è un fenomeno recente: quello che stiamo vivendo è iniziato quarant’anni fa senza mai avere impennate. Pochissimi lo hanno studiato e raccontato. E quelli che lo hanno fatto si sono accorti che queste realtà sono molto diverse tra loro a seconda del contesto territoriale e delle motivazioni dei protagonisti. Ogni generalizzazione rischia di semplificarne e banalizzarne il senso.

Per decenni i mass media hanno ignorato queste realtà, ritenendole del tutto marginali. Ora si rischia un approccio strabico, dettato più dalla voglia di fare sensazionalismo che informazione seria, più dall’interesse a farne un uso strumentale che conoscenza delle modificazioni sociali. Soprattutto quando si ignorano le cause di tali realtà: la risposta alla crisi ecologica mettendo in campo nuovi comportamenti e stili di vita; l’esigenza di dare un senso alle proprie vite reagendo all’impazzimento urbano; e così via. Solo guardandolo nel lungo periodo, questo fenomeno può essere letto correttamente. Altrimenti si rischia di prendere lucciole per lanterne. Come accade appunto ad alcuni giornalisti quando utilizzano i dati Istat senza contestualizzarli e, soprattutto, confondendoli coi sondaggi.

Se si vuole comprendere quello che avviene nel settore agricolo è necessario analizzare i fenomeni nel medio lungo periodo. I dati Eurostat ci dicono che l’agricoltura italiana cresce a ritmi bassi rispetto agli altri Paesi europei, perde occupazione, il saldo commerciale peggiora e i redditi ristagnano. Nel Mezzogiorno la situazione di difficoltà è ancor più grave rispetto al resto del Paese. Essa si riflette negativamente anche nei settori innovativi, come l’agricoltura sociale, dove si continua a registrare una lenta ma progressiva crescita del numero delle esperienze. Una recente indagine conoscitiva del CREA, realizzata in collaborazione con la Rete Rurale, stima una crescita degli investimenti nell’agricoltura sociale per oltre 21 milioni di euro negli ultimi cinque anni. In realtà, nello studio non si precisa come si è pervenuti a questo dato che appare abbastanza contraddittorio rispetto alla situazione di precarietà e disagio in cui si dimenano, per gran parte, le fattorie sociali in Italia.

Idee per una ricerca-azione nei territori rurali del Mezzogiorno

Si dovrebbe realizzare, in alcune realtà del Mezzogiorno, una ricerca-azione sulla redditività delle esperienze innovative in agricoltura, quelle orientate alla multifunzionalità, ad alto impiego di nuove tecnologie, a forte presenza giovanile e con elevati titoli di studio. La redditività non va confinata al suo significato angustamente economicistico ma al complesso di beni e valori reso disponibile per la soddisfazione dei bisogni umani. Forma il reddito non solo il denaro ma anche una serie di valori culturali, morali, religiosi, affettivi, che sono pur decisivi per il giudizio, la scelta e l’azione anche economica: valori che sono decisivi nell’individuo per giudicare dell’economicità o meno di una determinata azione. La reputazione, la fiducia e i beni relazionali sono sicuramente componenti della redditività. Il beneficio che gli individui traggono da un’attività lavorativa non è solo quello del compenso monetario. La partecipazione alla missione dell’impresa, il grado di autonomia nelle scelte e la qualità delle relazioni sono di per sé gratificanti e costituiscono componenti significative della redditività.

La redditività così intesa qualifica la sostenibilità economica e sociale delle imprese e la loro innovatività: queste andrebbero misurate, complessivamente, rilevando le ricadute delle attività imprenditoriali sul territorio in riferimento agli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES).

Non siamo ancora in grado di individuare gli elementi di fondo dell’innovazione sociale che si è prodotta negli ultimi decenni nelle campagne meridionali perché manca ancora uno studio – in Italia – sul livello di gratificazione e redditività che le imprese innovative sviluppano e il livello di BES che le loro attività producono nei territori. Ma senza un approfondimento di questi elementi difficilmente si potranno individuare i problemi reali da affrontare, le potenzialità di ulteriore sviluppo delle esperienze concrete, di cui tener conto nella progettazione futura, e gli elementi utili per elaborare idonee politiche di settore.

Quello che appare certo – in Italia e nel Mezzogiorno – è che il senso di marcia delle trasformazioni in atto nelle campagne sia un’evoluzione dell’agricoltura da attività fortemente connotata da elementi produttivistici a terziario civile innovativo (nelle frange più innovative del settore). Accanto alle tradizionali agricolture scaturite dai processi di modernizzazione e dedite esclusivamente alla produzione food e non food, si sono infatti reinventate multiformi agricolture di relazione e di comunità in cui le attività svolte sono intese come mezzo di incivilimento per migliorare il “ben vivere” delle persone.

Agricolture perché molteplici sono le funzioni, le attività e i modelli che esse esprimono. Sono agricolture  “multi-ideali” perché si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Sono agricolture non tradizionali perché sperimentano strade mai percorse prima e vedono prevalentemente, in una posizione da protagonisti, donne e giovani. Nuovi attori che chiedono attenzione e riconoscimento in quanto portatori di innovazione,  consapevolezza e senso di responsabilità e, nel contempo, attuatori dell’interesse generale.

Accanto ad agricolture non più innovative, quelle che si sono fermate e immobilizzate dopo la prime grandi trasformazioni agrarie che seguirono le grandi opere irrigue (“latifondo caporalesco”), si va affermando una nuova ruralità: dall’agricoltura sociale alle forme nuove di accoglienza nelle campagne, dalla valorizzazione della tipicità delle produzioni  al  miglioramento genetico per tutelare la biodiversità, dalla realizzazione di filiere e reti di qualità che guardano ai processi di globalizzazione  alla costruzione di distretti di economia locale.

 Una ricerca-azione efficace dovrebbe necessariamente abbracciare intere aree territoriali sia di pianura che di collina e di montagna, occuparsi delle zone interne che si sono spopolate all’inverosimile e del fenomeno di decrescita demografica, studiando preliminarmente una zonizzazione utile alle finalità dell’indagine e alle azioni che si vogliono compiere.

Una nuova idea di sviluppo

Lo studio dovrebbe servire ad agire. In più direzioni. Proporre quello che le istituzioni dovrebbero fare in quanto promotori, garanti e fornitori di strumenti finanziari e tecnici per l’attuazione dello sviluppo. E mettere a punto quello che dovrebbero fare le imprese, i lavoratori immigrati e autoctoni e i cittadini. Insomma, l’insieme della società civile. Questa è fatta di attori organizzati che dovrebbero dialogare con le istituzioni sul terreno delle scelte concrete di politica economica, sociale e culturale riguardanti il loro territorio, appropriarsi delle opportunità e delle capacità rese disponibili, interpretarle, gestirle e svilupparsi. Lo sviluppo di una società è un processo autopropulsivo nel quale i suoi attori consolidano la propria indipendenza e la loro non soggiacenza al ricatto della situazione presente.

Bisogna però trovare le motivazioni forti che possono indurre al cambiamento che è, innanzitutto, un cambiamento di mentalità tale da sollecitare gli individui e le comunità a volere lo sviluppo, a procurarsi e a utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo.

A questo scopo vanno promossi percorsi di autoapprendimento collettivo e di educazione e formazione all’intraprendere in modo innovativo.

Non sembri fuori luogo, richiamare qui anche l’esigenza di suscitare nei giovani agricoltori un sentimento di cittadinanza attiva, di partecipazione diretta a difesa della democrazia e delle istituzioni repubblicane in modo da costituire un argine alla diffusione dei sovranismi e dei totalitarismi, un contrasto alla diffusione delle teorie di odio, discriminazione, intolleranza, superstizione.

Occorre colmare un vuoto che da decenni impedisce un ordinato ed efficace ricambio di classe dirigente. In tempi come quelli che viviamo, anche un manager d’impresa dovrà saper collegare la propria conoscenza specialistica con la consapevolezza civica più generale del suo ruolo nella propria comunità di valori, interessi e bisogni. L’obiettivo, oltre all’acquisizione di un sapere tecnico-specialistico, è la valorizzazione ideale e civile della formazione.

Si tratta di produrre un’innovazione sociale che è tutt’uno con il salto tecnologico da compiere. Vanno tenuti insieme digitale, robotica, bioeconomia che si fonda sull’utilizzo multifunzionale di risorse biologiche per la produzione di alimenti, mangimi, energia, ecc. L’agricoltura di precisione è oggi utilizzabile a tutte le altitudini e in tutti i settori. La visione IoT (internet degli oggetti) è applicabile nell’agroalimentare, nel turismo, nell’artigianato, nei servizi socio-sanitari, nell’industria culturale. La rivoluzione tecnologica in atto può aprire una nuova prospettiva allo sviluppo dei territori italiani e alla loro presenza nei mercati internazionali.

Nel settore agricolo, la sfida del digitale è stata raccolta in quelle attività produttive che si svolgono in ambienti “protetti”, come le serre, le stalle, le cantine, gli oleifici, i laboratori di trasformazione, dove è possibile creare condizioni pienamente controllabili.

Ben diverso è il caso di quelle attività agricole che si attuano in ambiente aperto e che sono soggette alla variabilità climatica ed alle relative risposte degli elementi territoriali: i versanti, le esposizioni, il suolo con le sue caratteristiche strutturali e di gestione, la struttura orografica, le sistemazioni, etc, che richiedono continui aggiustamenti gestionali per la mutevolezza delle condizioni e la conseguente tempestività operativa. Ma considerando complementari i due nuovi paradigmi dell’agricoltura di precisione e della digitalizzazione e alta tecnologia, anche per questo tipo di attività agricole si possono avere risultati concreti. C’è bisogno di creare una interferenza di territorio fra agricoltura, servizi, sistema educativo e della ricerca.

Oggi le tecnologie digitali permettono di promuovere e valorizzare le relazioni economiche e sociali. Il segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli e il tecnologo Massimo Chiriatti hanno lanciato il manifesto d’idee  blockchain: per un nuovo bene pubblico digitale. Come chiariscono opportunamente gli autori, la parola pubblico non sta per statale. La teoria economica definirebbe blockchain un club good come ricorda Carlo Stagnaro. Insomma, il termine “pubblico” caratterizza un bene aperto, trasparente, accessibile.  Il sindacalista e l’esperto partono dalla considerazione che “un bene materiale è rivale ovvero non può essere disponibile a più persone contemporaneamente”, mentre “un bene immateriale come l’informazione  può essere copiato e trasferito a costo nullo e reso disponibile a più persone contemporaneamente”.

Le reti di agricoltori, confluendo in una piattaforma tecnologica condivisa, potrebbero disporne con facilità. La blockchain – una tecnologia che utilizzando la criptografia consente di registrare, inserendole in blocchi, una serie di transazioni verificate e validate tra organizzazioni – potrebbe essere applicata anche ai contratti. Sulla base del registro distribuito andrebbero creati i cosiddetti smart contracts, contratti che hanno la possibilità di essere perfezionati in automatico prestazione/produzione realizzata e consegnata, semplificando una serie di rapporti giuridici, con vantaggi in termini di qualità e trasparenza. Anche le nuove forme di lavoro potrebbero essere agganciate a un nuovo sistema di diritti e tutele in modo da metterle al riparto da abusi e lavoro nero.

L’economista Leonardo Becchetti sostiene che se si sviluppasse nei consumi alimentari il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di votare col portafoglio per le imprese migliori, il caporalato potrebbe sparire dalle campagne italiane. Vincerebbero, infatti, quelle tecnologicamente più avanzate che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro.

Le nostre agricolture possono partecipare attivamente al salto tecnologico che si sta realizzando e promuovere così una qualità a più dimensioni. Si tratta di  interpretare la coesione sociale non in senso moralistico come mero bisogno di stare insieme e fare comunità, ma come percorso che permette di utilizzare consapevolmente le tecnologie digitali ed essere comunità potenti nelle relazioni economiche e sociali. Bisogna invertire l’ordine di priorità tra sviluppo e coesione sociale, anticipando la seconda come premessa del primo per civilizzarlo.

È inoltre necessario puntare sulla responsabilità delle classi dirigenti locali che devono poter scegliere poche cose da fare e farle bene. Combattendo le povertà, l’evasione scolastica, il disagio giovanile, l’esclusione sociale. Mettendo fine alla corruzione e alle mafie.

Si tratta di ridisegnare completamente il rapporto tra legame con il territorio e presenza nei mercati internazionali che non sono strategie alternative. Occorrono politiche per l’internazionalizzazione fondate sull’innovazione sociale, sul “fare squadra” in Italia e all’estero, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla nostra capacità di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato.

Ci vogliono politiche del tutto opposte a quelle che vengono indicate oggi dal governo, ispirate ad un rozzo protezionismo e ad una visione diffidente verso l’innovazione tecnologica e la conoscenza scientifica.

L’agricoltura italiana non ha solo bisogno dei droni del ministro Salvini e delle forze di polizia per prevenire i crimini nelle campagne. Anche quelli sono utili, non c’è dubbio. Ma ancor più al settore primario necessitano imprenditori agricoli capaci di pilotare, essi, i droni per misurare le caratteristiche, le potenzialità e le difficoltà delle proprie aziende. E necessitano istituzioni capaci di trasformare una forte domanda scientifica di ricerca in infrastrutture tecnologiche, opportunità professionali e lavori innovativi.

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