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Una idea d’Europa in cui riconoscersi

I cittadini europei potranno essere protagonisti del proprio destino se reinventano una parte dell’eredità culturale europea, a partire dai concetti di cittadinanza, di democrazia rappresentativa, di stato nazionale, di stato del benessere, di sussidiarietà e di un nuovo rapporto tra società aperta e comunità territoriali inclusive. L'edificazione di una governance pluralista ed efficace è il grande compito della politica democratica hic et nunc

Europa-dei-Popoli

 

Per la prima volta, dopo venticinque secoli, il destino dell’Europa non è nelle mani degli europei. Questa è la tragica fase che stiamo vivendo. La globalizzazione ha prodotto una forte riduzione delle diseguaglianze nei Paesi emergenti. Ma non è avvenuta la stessa cosa nei Paesi sviluppati, dove il capitalismo globalizzato ha svuotato la sovranità della politica nazionale e ha penalizzato non solo le fasce deboli della popolazione, bensì anche i ceti medi, impoverendoli. Questi ceti sociali che nel secolo scorso costituivano il nerbo delle forze a sostegno delle democrazie, oggi, in preda alla rabbia e alla protesta, inseguono sul piano elettorale i populismi di ogni genere. L’Europa subisce così la crisi degli Stati nazionali e lo svuotamento della democrazia rappresentativa. E la sua civiltà millenaria viene colpita a morte.

Dopo sessantun’anni dai Trattati di Roma, assistiamo impietriti e afasici alla disgregazione dell’Ue. La cosa ci turba enormemente. Ed è per questo che giriamo lo sguardo altrove: ci ritroviamo sprovvisti di un lessico e di una grammatica per analizzare quanto sta accadendo. Usiamo parole che sono diventate equivoche. E non ci comprendiamo. Parlare d’Europa crea disagio, conflitti, sentimenti ambivalenti. Preferiamo allora tacere, rassegnati all’idea che ormai non ci sia alternativa al progressivo disfarsi del tessuto creato in questi decenni.

Eppure eravamo convinti che quanto sta accadendo non si sarebbe mai verificato. Avevamo studiato testi aurei della tradizione italiana: dalla Storia d’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce alla Storia dell’idea d’Europa di Federico Chabod, dalle Lettere politiche di Junus di Luigi Einaudi al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. E ci eravamo persuasi che in fondo se l’Europa è un modo di pensare e di agire, un insieme di sistemi filosofici e politici, di tradizioni memorie e speranze, un’individualità storica e morale, ebbene la sua unità è una necessità storica. Non sarà oggi, ma domani il processo di integrazione si farà. Una visione storicistica ci faceva vedere le pause, le ambivalenze, le diversità come elementi che non costituivano un arretramento ma pagine nuove di un pur sempre luminoso destino. Abbiamo visto l’Unione europea come un progetto integrativo in continua evoluzione, con un esito sempre aperto, con poteri sempre più accresciuti. Forse ci ha sviato la formula di un’unione “sempre più stretta” utilizzata nei Trattati. Abbiamo pensato che indicasse un obiettivo condiviso da tutti gli Stati membri: quello di creare progressivamente uno Stato europeo sostitutivo degli Stati nazionali. E invece abbiamo dovuto ricrederci e mettere laicamente i piedi per terra. Abbiamo dovuto maturare l’idea che il processo d’integrazione europea, se non è tenuto costantemente sotto controllo dall’opinione pubblica e dalla consapevolezza dei singoli cittadini, può trasformarsi in un processo di disintegrazione. Ci sono libri (come gli ultimi di Mario Campli: Europa, ragazze e ragazzi riscriviamo il sogno europeo e Il tempo d’Europa) che ci aiutano a ripensare le nostre granitiche convinzioni. Ci sono studiosi (come Sergio Fabbrini ogni domenica sul Sole 24 Ore) che ci orientano nel nuovo scenario in cui è precipitato il vecchio continente.

Convivono diverse prospettive del processo d’integrazione

Per capire quello che sta avvenendo, partiamo dall’acquisizione di un dato di fatto incontrovertibile. In questi sessantun’anni, gli Stati membri dell’Ue hanno coltivato differenti prospettive circa gli scopi e la natura del processo di integrazione. Lo hanno fatto non perché sono egoisti ma per conseguire legittimamente il proprio interesse nazionale. Per alcuni Stati dell’Europa occidentale e continentale, tra cui l’Italia, il processo integrativo doveva servire a tenere sotto controllo il fantasma del nazionalismo autoritario che aveva portato alla drammatica fine delle loro democrazie. Mentre in altri Paesi (come il Regno Unito e i Paesi scandinavi), il nazionalismo aveva assunto invece un carattere democratico, fornendo le risorse per difendere, nello stesso periodo, le democrazie nazionali dalle aggressioni autoritarie. Per quanto riguarda i Paesi dell’Est europeo, la fine del lungo dominio sovietico ha fatto rinascere il nazionalismo come fonte di una rinnovata identità nazionale. La loro entrata nel processo di integrazione è dovuta a ragioni di sicurezza geo-politica e di necessità economica e non ha alcuna finalità politica.

Per i Paesi continentali-occidentali l’idea di Ue coincide con quella di una politica comune. Per i Paesi del Nord Atlantico e dell’Est europeo il progetto integrativo non ha bisogno di ulteriori sviluppi in quanto è più che sufficiente fermarsi al mercato unico. Di qui la divisione tra i Paesi che partecipano ai progetti integrativi più avanzati (come i 19 Paesi dell’Eurozona) e quelli che invece fanno parte solamente del mercato unico.

Le due visioni di “unione sempre più stretta”

I Paesi dell’Europa occidentale-continentale non hanno mai avuto la stessa idea di “unione sempre più stretta”. In quest’area si fronteggiano due visioni. La prima è quella intergovernativa, sostenuta in particolare dalla Francia fino a quando, con un discorso alla Sorbona il 26 settembre 2017, Emmanuel Macron ha annunciato un nuovo pensiero europeista. I fautori della prospettiva intergovernativa sostengono un metodo di coordinamento centrale delle politiche, che vanno definite collegialmente a Bruxelles piuttosto che tramite accordi bilaterali fra governi nazionali. La seconda visione è quella sovranazionale o “comunitaria”, sostenuta tradizionalmente dalla Germania, oggigiorno dall’Italia (almeno fino alle elezioni politiche del 4 marzo 2018) e dalla Francia di Macron. I sostenitori di questa prospettiva spingono per una ulteriore parlamentarizzazione delle procedure di decisione come mezzo per muovere verso un sistema sovranazionale più democratico e responsabile.

Il compromesso tra le due visioni

In occasione della stipula del Trattato di Maastricht del 1992, è stato sancito un compromesso tra le due visioni di “unione sempre più stretta”.  Le nuove politiche entrate nell’agenda europea (affari esteri, difesa, sicurezza, giustizia, affari interni, oltre la politica economica per l’Eurozona) sono organizzate secondo la visione intergovernativa. Le politiche regolative del mercato comune, divenuto unico con l’Atto Unico Europeo del 1987, continuano ad essere organizzate secondo la visione sovranazionale o “comunitaria”. Si è trattato di una prima e grande differenziazione nell’architettura delle istituzioni europee, sia sul piano delle politiche che sul piano dei metodi per deciderle.

Quando parliamo di Ue e delle sue politiche, dovremmo sempre ricordare questa differenziazione per poter attribuire correttamente le responsabilità delle decisioni ai diversi soggetti istituzionali. Ma spesso non lo facciamo e rischiamo di attribuire le responsabilità proprie degli Stati membri alla Commissione: una istituzione localizzata a Bruxelles e che non conosciamo abbastanza: non è una struttura mastodontica, come spesso a torto viene idealizzata, se si pensa che i suoi dipendenti sono appena un terzo di quelli del Campidoglio.

Le decisioni adottate secondo il metodo sovranazionale o “comunitario” sono l’esito di un processo che vede protagoniste le seguenti istituzioni: la Commissione che ha il monopolio dell’iniziativa legislativa; il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo che condividono il potere di co-decidere sulle proposte avanzate dalla Commissione; il Consiglio europeo dei capi di governo che assolve ad una funzione di risolutore di ultima istanza di controversie altrimenti non risolvibili. Le politiche regolative del mercato unico sono decise dai suddetti soggetti istituzionali.

Le decisioni adottate secondo il metodo intergovernativo sono, invece, l’esito di un processo che vede il monopolio dei due organismi intergovernativi del Consiglio dei ministri e soprattutto del Consiglio europeo dei capi di governo, con la Commissione che assolve un ruolo di supporto tecnico e il Parlamento europeo collocato in una posizione marginale (viene “informato” delle decisioni prese dai capi di governo nazionali). Tale modalità decisionale riguarda le nuove politiche entrate nell’agenda europea a partire dal Trattato di Maastricht.

Mentre nel mercato unico il processo integrativo procede attraverso provvedimenti legislativi, nelle altre politiche esso procede di più attraverso decisioni politiche. Con un esito davvero paradossale: le politiche più integrate (affari esteri, difesa, sicurezza, giustizia, affari interni, Eurozona) sono decise dal metodo che esalta il ruolo dei governi nazionali, mentre  le politiche regolative del mercato unico (meno integrate) sono decise dal metodo che ridimensiona il ruolo dei governi nazionali.

Le ragioni del paradosso

 Alla base della grande differenziazione dei metodi decisionali, avviatasi nel 1992, ci sono ragioni ben precise che è bene tenere a mente. L’origine delle politiche regolative del mercato unico partiva da lontano. La politica agricola comune, in vigore già dal 1962, si è fondata sul mercato comune agricolo che è un mercato unico. I sei Paesi fondatori (Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) decisero, fin dall’inizio del processo integrativo, che la politica agricola fosse prevalentemente di competenza europea. Le nuove politiche, invece, sono state tradizionalmente vicine al cuore delle sovranità nazionali. Una volta europeizzate, i governi nazionali hanno quindi cercato di controllarne il processo decisionale per le forti ricadute che esse hanno sulle fortune elettorali dei governi in carica. Inoltre, le politiche regolative del mercato unico hanno effetti principalmente su attori privati. Le nuove politiche, invece, su attori pubblici.

La differenziazione dei metodi decisionali nel tempo ha portato ad una condizione di forte divisione tra gli Stati membri. Una divisione alimentata continuamente proprio dal metodo decisionale adottato. Un esempio concreto è offerto dalla politica dell’immigrazione. La proposta della Commissione dell’11 settembre 2015 di riallocare quote di rifugiati politici nei vari Stati membri dell’Ue sulla base di criteri obiettivi, è stata apertamente sfidata dai diversi governi nazionali, proprio sulla base di esclusive considerazioni di politica interna. In condizioni di crisi queste politiche hanno evidenti effetti distributivi e, pertanto, la loro gestione finisce per essere tutt’altro che consensuale. La secessione del Regno Unito dall’Ue, decisa dagli elettori britannici nel referendum tenuto il 23 giugno 2016, è l’espressione di tali divisioni. In occasione del “vertice” di Bratislava – qualche giorno prima del referendum indetto dal governo ungherese per il 3 ottobre 2016 per confermare il rifiuto al ricevimento della quota regolamentare di profughi – nessun cenno critico è emerso sulla mancata notifica del risultato referendario da parte dello Stato britannico per poter avviare il negoziato su Brexit e nessuna contrarietà è stata manifestata per l’iniziativa referendaria dello Stato ungherese, considerata palesemente illegale da esimi cultori di diritto comunitario perché ha violato il principio di supremazia del diritto europeo sulle leggi nazionali, uno dei fondamenti logici, prima ancora che giuridici, dell’Unione. Ma l’opinione pubblica italiana ed europea, anziché stigmatizzare tali reticenze, ha espresso meraviglia e critiche a fronte della dura reazione dell’allora premier Matteo Renzi.

Dinanzi a questi sintomi abbastanza evidenti di disintegrazione, occorre convenire che l’idea di tenere tutti gli Stati europei all’interno di un unico progetto integrativo – benché si adottino differenti metodi decisionali – non ha funzionato. E la cosa più grave è che tali disfunzioni costituiscono una delle cause fondamentali del riemergere dei nazionalismi. La governance dell’Eurozona, basata sulla fusione tra centralizzazione amministrativa a Bruxelles e ridimensionamento delle scelte politiche nazionali, ha finito per favorire la mobilitazione nazionalista e sovranista. Se a Bruxelles la gestione dell’Eurozona consiste nella creazione ossessiva di regole da far rispettare a livello nazionale e se a livello nazionale quelle regole obbligano i maggiori partiti ad assumere una comune posizione politica, allora è inevitabile che la critica a quel sistema di governance venga fatta propria da forze nazionaliste e anti-europeiste.

I risultati allarmanti delle elezioni politiche in Germania e in Italia

Le elezioni tedesche del 2017 hanno registrato il successo sorprendente del partito nazionalista, Alternative für Deutschland (AfD), che ha ottenuto il 12,6% del voto nazionale. Se si considera anche l’affermazione della lista di sinistra radicale e anti-europeista Die Linke, che ha ottenuto il 9,2 % , si può dire che il nazionalismo ha messo i piedi nel piatto della politica tedesca, incrinando la coesione europeista delle sue élite politiche. Quelle elezioni ci dicono, infatti, che il nazionalismo tedesco ha delle basi strutturali e non contingenti. Innanzitutto sul piano territoriale. L’AfD è risultata particolarmente forte nei Laender orientali, quelli che costituivano la vecchia Repubblica Democratica Tedesca. In Sassonia ha superato i Cristiano-democratici della Cdu, diventando il primo partito (con il 27%) ed è divenuta il secondo partito in Sassonia-Anhalt (19,6%), Meclemburgo-Pomerania (18,6%), Brandeburgo (20,2%) e Turingia (22,7%). Se si considera che in queste regioni-stato orientali anche la Die Linke ha ottenuto risultati rilevanti, allora si arriva alla conclusione che quasi la metà dei cittadini della Germania orientale ha un orientamento nazionalista e anti-europeista. A quasi trent’anni dall’unificazione (ottobre 1990), la cultura politica della Germania orientale continua ad essere più simile a quella dell’Ungheria o della Polonia che a quella della Germania occidentale.

Le elezioni politiche del 2018 in Italia hanno avuto un esito ancor più sconvolgente. Più della metà dell’elettorato ha dato il voto a due partiti (5 Stelle e Lega) che avevano un programma dichiaratamente sovranista.

La Lega di Salvini si inserisce nel quadro dei populismi “consolidati” che abbiamo visto già in azione in molti paesi europei. Qualcosa di cui si conoscono ormai i contorni. Il M5S, invece, non è classificabile, appare molto ambiguo. Resta per molti aspetti un mistero, inquietante proprio per la sua natura ibrida di struttura aziendale e di movimento politico con una vita democratica interna davvero opaca. Non si comprende cosa sia il “popolo del web” perché non ci sono dati. Non si sa chi sono gli iscritti e con quali requisiti si accede alla cyber-élite. Il programma di questa formazione politica è praticamente inesistente, non perché non si trovi in rete e non si possa scaricare. Ma perché è volutamente ambiguo: reddito di cittadinanza, immigrazione, Europa sono temi su cui ogni giorno si confeziona una proposta nuova a seconda della tattica del momento. Il capo politico Luigi Di Maio sembra assumere sembianze robotiche sempre perfettamente programmate senza toni e senza sfumature. Ha pieni poteri nell’ambito politico. Ha scelto i capilista dell’uninominale, ha vagliato le intere liste, può segnalare dissidenti e oppositori ai probiviri. I probiviri li ha nominati lui e li può revocare lui. Ha indicato i presidenti dei gruppi di Camera e Senato, poi votati all’unanimità. Se il capo politico ritiene, può rimuovere i presidenti. Il presidente, che può essere rimosso dal capo politico, nomina il comitato direttivo (vicepresidenti, tesoriere ecc.) su proposta del capo politico. I parlamentari del Movimento si eleggono il capogruppo in commissione, che però può essere rimosso dal presidente, che può essere rimosso dal capo politico. Il presidente nomina direttore amministrativo, organo di controllo, capo dell’ufficio legislativo, capo del personale, nomine che può revocare in qualsiasi momento, così come il capo politico può revocare la sua. Il capo politico, insieme col presidente, decide l’azione politica e la comunicazione. I parlamentari che non condividono le decisioni del capo politico, o pregiudicano l’immagine e l’azione politica decisa dal capo politico, sono espulsi e pagano una penale di 100 mila euro. Invece i parlamentari che vogliono entrare nel Movimento, se accettati dal capo politico, lo fanno gratis. Il capo politico dipende in qualche modo (ma nessuno lo sa!) dal capo dell’azienda, Davide Casaleggio. Come ha rilevato acutamente Biagio de Giovanni, con l’affermazione elettorale dei 5 Stelle “si configura una democrazia diversamente strutturata rispetto a come l’abbiamo conosciuta finora” e “la presenza contemporanea di questi due populismi (Lega e 5 Stelle) così diversi e così convergenti può influenzare il carattere della democrazia italiana”.

Il voto è stato abbastanza omogeneo lungo tutta la penisola più la Sicilia e la Sardegna. Ed esprime la richiesta (da parte di elettorati diversi) di recuperare il controllo su cruciali politiche nazionali, come quella di bilancio e quella migratoria. La diffusa insicurezza economica (tra gli elettori del Sud) e l’altrettanta diffusa insicurezza territoriale (tra gli elettori del Nord) sono state generate da politiche (quella economica e quella migratoria) su cui l’Italia ha competenze e risorse limitate. Si tratta di politiche che vengono decise dall’Eurozona (la prima) e dall’Ue (la seconda) attraverso un inefficace sistema di governance.

Le divisioni più recenti

All’indomani delle elezioni politiche in Italia è avvenuto un fatto sorprendente di cui in pochi hanno valutato la rilevanza. Un blocco di otto Paesi dell’Europa del Nord (due – Danimarca e Svezia – che non fanno parte dell’Eurozona e sei – Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi – che invece ne fanno parte) ha reso pubblica una lettera in cui si afferma (con una durezza quasi brutale) che non c’è alcuna necessità di riformare l’Eurozona, ovvero di “trasferire competenze a livello europeo”.

Con questa iniziativa si va delineando un nuovo equilibrio. Da una parte c’è il gruppo di Visegrad (che aggrega non solo il sovranismo dei Paesi dell’Europa dell’Est ma adesso anche l’euroscetticismo dei Paesi del Nord e del centro), dall’altro lato c’è l’Europa di Ventotene (che aggrega l’europeismo di Francia e Germania, con il sostegno di alcuni Paesi dell’Europa continentale occidentale). Si è in attesa di capire dove si collocherà l’Italia.

Il Consiglio europeo del 22-23 marzo 2018  si è riunito in formazioni diverse. Inizialmente nella formazione di 28 capi di governo (incluso il premier britannico), poi in quella di 27 capi di governo (escluso il premier britannico) e infine in quella di 19 capi di governo (il cosiddetto Euro Summit). Tale indefinitezza è il risultato delle divisioni politiche tra gli Stati membri.

Giocando con queste composite formazioni, il presidente del Consiglio – il polacco Tusk – che rappresenta la coalizione dei Paesi sovranisti ha potuto godere dell’appoggio del gruppo euroscettico dei Paesi del Nord e del centro capeggiati dal premier olandese per bloccare la discussione – nell’Euro Summit – dell’agenda presentata nell’autunno scorso da Macron.

La svolta di Macron

Macron ha proposto di riformare profondamente le istituzioni europee, a partire dalla creazione di un bilancio dell’Eurozona e di un ministro europeo delle Finanze. Egli ha preso le distanze dall’europeismo attendista secondo il quale “non è mai maturo” il tempo per discutere le finalità del processo di integrazione. Quando il sogno europeo diventa una routine burocratica – ha detto il presidente francese – allora non ci si può stupire che siano i nazionalisti a definire l’agenda del dibattito politico. Macron è il primo leader politico, da almeno una generazione, che sfida la cultura del galleggiamento. Una cultura fatta propria non solo dal suo predecessore, ma anche da buona parte delle élite politiche nazionali dell’Europa occidentale-continentale.

Per Macron “la rifondazione di un’Europa sovrana, unita e democratica” non può avvenire per un miracolo della storia. Essa richiede obiettivi precisi e coraggio politico. Per il presidente francese, occorre che gli stati nazionali trasferiscano alla sovranità europea i loro poteri su politiche come la sicurezza, l’innovazione, la fiscalità, l’economia. Si tratta di avviarsi verso la costruzione di un’Europa dotata di una sua piena sovranità. Per Macron la sovranità europea coincide con il superamento delle sovranità nazionali. Anche se non l’ha detto esplicitamente, per Macron, in coerenza con la tradizione giacobina del suo Paese, la sovranità europea costituisce sviluppo storico di una statualità che ha le sue radici negli stati nazionali. Per quella tradizione, la statualità continua ad essere l’epitome della modernità politica, l’inevitabile contenitore della sovranità. Così ai sovranisti nazionalisti, Macron oppone un sovranismo europeista. Se Le Pen vuole ritornare indietro verso una piena sovranità nazionale, Macron vuole andare avanti verso una piena sovranità europea.

Il conflitto tra nazionalisti ed europeisti ha di nuovo la forma di uno scontro tra sovranità diverse ma entrambe indivisibili, anche se per i primi la sovranità può stare solamente nello stato nazionale mentre per i secondi essa deve trasferirsi in uno stato sovranazionale. Al di là delle sue intenzioni, la visione giacobina di un’Europa sovrana è destinata ad alimentare i sovranismi nazionali, piuttosto che a superarli.

Un’Europa sovrana di Stati sovrani

Sergio Fabbrini sostiene con argomenti convincenti che gli stati nazionali non si superano mediante un atto volontaristico, un tratto di penna. Essi debbono essere addomesticati, ma è irrealistico pensare di cancellarli. Le loro cittadinanze nazionali non si potranno trasformare in un popolo europeo diviso esclusivamente dalle appartenenze politiche. Le identità nazionali hanno alcuni elementi storici in comune, ma anche significative differenze. Riconoscere quelle differenze è una condizione esistenziale per l’Ue. Solo riconoscendo le identità nazionali si previene la loro trasformazione in nazionalismi. L’identità nazionale rappresenta una realtà empirica della vita collettiva; il nazionalismo invece è una costruzione ideologica di quest’ultima. La prima è inclusiva, il secondo è esclusivo.

L’Europa unita non potrà essere uno stato nazionale in grande. Essa potrà costruirsi sulla ricomposizione degli stati nazionali all’interno di un’unione di stati (e non già di uno stato più grande). Un’unione connotata da una sovranità divisa. Non si tratta di trasferire la sovranità da Parigi o Roma a Bruxelles, ma di creare un’unione politica in cui gli stati e il centro federale sono rispettivamente sovrani in materie (o politiche) di loro competenza. La sovranità non è una proprietà indivisibile dell’autorità. L’Europa unita potrà essere solamente un’unione sovrana di stati sovrani. Un paradosso politico che richiede una separazione verticale e orizzontale dei poteri per essere governato. La separazione multipla dei poteri costituisce l’assicurazione per la vita dell’unione federale. Attraverso la separazione verticale dei poteri si potrà impedire che i problemi di un Paese diventino i problemi dell’Unione. Attraverso la separazione orizzontale dei poteri si potrà garantire che ogni scelta presa dal potere esecutivo sarà controllata e bilanciata dal potere legislativo. E viceversa. Se la politica europea e la politica degli stati nazionali sono tenute separate, allora il disallineamento delle seconde non avrà effetti sulla prima. Se non vogliamo che il disallineamento delle politiche nazionali continui a produrre un esito paralizzante sull’Ue e il suo futuro, occorre dunque cambiare la governance di quest’ultima.

Si tratta di progettare un’unione democratica in  cui i cittadini potranno contribuire a determinare le scelte che pertengono alle istituzioni nazionali. A livello nazionale parteciperanno ai processi elettorali definiti da quelle democrazie. A livello federale, potranno condizionarne le scelte partecipando alle elezioni del Parlamento europeo, quindi attraverso le elezioni nazionali contribuiranno a definire la composizione del Consiglio. Un’unione di Stati asimmetrici e con identità diverse richiede separazione multipla dei poteri, non già confusione improvvisata di questi ultimi. Richiede un disegno che sia l’espressione di una scelta politica, di un political compact tra le élite nazionali ed europee, oltre che dai cittadini da esse rappresentati. Richiede chiarezza.

Si tratta di costruire un’Europa a diverse finalità (e non a due velocità). Ciò con l’obiettivo di edificare un’Europa plurale costituita di due distinte organizzazioni, con distinte basi legali, con distinti assetti istituzionali e distinte competenze di policy. L’esistenza di un’unione federale, più piccola dell’attuale Ue ma più coesa, costituisce una condizione per stabilizzare politicamente l’Europa e il suo mercato unico, mostrando ai populismi e nazionalismi che si può costruire un’unione sovrana (in alcune politiche) di Stati sovrani (in altre politiche).

Solo in questo modo si potranno mettere in campo politiche efficaci per rispondere alla protesta e alla rabbia che, negli ultimi mesi, si sono manifestate in modo plateale nelle elezioni politiche di diversi Paesi e che alimentano le forze anti-europeiste.

C’è, dunque, una possibilità perché i cittadini europei diventino protagonisti del proprio destino. Ma dobbiamo farlo reinventando una parte dell’eredità culturale europea, a partire dai concetti di cittadinanza, di democrazia rappresentativa, di stato nazionale, di stato del benessere, di sussidiarietà e di un nuovo rapporto tra società aperta e comunità territoriali inclusive. È questo il grande compito della politica democratica hic et nunc.

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