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Intervento introduttivo al Convegno sul tema "L'agricoltura tra nuova ruralità e multidealità" organizzato dalle Centrali Cooperative delle Marche e svoltosi il 26 febbraio 2016 a S. Maria in Portuno - Madonna del Piano - Corinaldo (AN)
Ringrazio l’amico Sandro Buatti e Legacoop Marche per avermi invitato a questa bella iniziativa a conclusione di un progetto per lo sviluppo dell’agricoltura sociale nell’area Misa Nevola.
Richiamerò, innanzitutto, i caratteri di fondo dell’agricoltura sociale (AS). Essa rappresenta un insieme di pratiche innovative finalizzate a rivitalizzare le comunità mediante l’utilizzo delle risorse agricole e la creazione di ambienti di vita capaci di promuovere e far crescere le persone e le popolazioni. Radicata nei caratteri comunitari e civili dei territori rurali, essa è riemersa nelle moderne forme di una reinventata ruralità, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e oggi costituisce un elemento essenziale della multifunzionalità e, soprattutto, della multidealità dell’agricoltura.
L’AS richiama la nascita dell’agricoltura che avvenne diecimila anni fa per dar vita alle prime comunità umane stanziali. L’agricoltura nacque, infatti, come forma di vita collettiva, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorse come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio.
Le forme attuali di AS sorgono negli anni Settanta del Novecento nell’ambito del fenomeno della nuova ruralità. Nei territori rurali industrializzati e nelle città traboccate nelle campagne circostanti s’interrompe l’esodo dalle campagne e si registra una lenta inversione di tendenza. All’esodo rurale incomincia a subentrare l’esodo urbano e tale inversione dà vita ad un fenomeno particolare, denominato rurbanizzazione, che vede il territorio evolvere in una sorta di continuum urbano-rurale e l’agricoltura diventare asse portante di un terziario civile innovativo capace di ricostituire le comunità-territorio, ridare un senso ai luoghi e reinventare uno spirito di appartenenza non chiuso in se stesso ma che si riconosce nell’incontro e nell’alterità. In altre parole, i figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si affermano così stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire. Nascono così reti di fattorie sociali e di orti urbani, forme inedite di autogestione dei rapporti economici e di relazioni solidali tra produttori agricoli e cittadini (GAS, Mercati agricoli di vendita, fornitura di mense collettive, ecc.), distretti di economia solidale (DES), nell’alveo di una sussidiarietà alla ricerca di riconoscimento.
Quelli che ho tratteggiato sono segni evidenti di una ricomposizione, in forme nuove e con l’apporto della rivoluzione tecnologica in atto, della frattura antropologica che si determinò a metà del secolo scorso e che provocò la crisi ecologica che tuttora viviamo. Frattura che in Italia ebbe caratteristiche sue proprie in un contesto che vedeva le politiche pubbliche concentrarsi nel sostegno di un’industrializzazione forzata dall’alto e, nello stesso tempo, abbandonare l’approccio dello studio di comunità per gli interventi di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo. Un contesto, inoltre, nel quale la gran parte dei tecnici che uscivano dalle scuole e dalle facoltà di agraria veniva assunta non più dalla pubblica amministrazione ma dalle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibita alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. Un mutamento radicale che ebbe un esito deleterio: gli agricoltori diventarono, d’un tratto, destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche, dotate di competenze tecnico-scientifiche adeguate, capaci di fare da filtro nel rapporto tra imprese agricole e industrie produttrici di mezzi tecnici. E così il venir meno di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali costituì la causa principale della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui fu lasciato l’agricoltore. Ecco perché oggi solo la reinvenzione di un’agricoltura di relazione e di comunità può rimarginare quella frattura culturale e segnare, di nuovo, un salto di civiltà. Ed è quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi, senza che di questo fenomeno abbiamo una chiara e consapevole percezione.
In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, riemerge dunque un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura di comunità che incrocia inediti filoni culturali e operativi presenti nei servizi sociali e sociosanitari: quelli che guardano con approccio critico e riflessivo al vecchio Stato sociale che si va decomponendo. Un’agricoltura che sperimenta nuovi modelli di welfare (agri-welfare). Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali. Un’agricoltura multideale che presuppone un contenuto etico e valoriale non misurabile né accertabile, ma parte integrante della reputazione degli operatori, e che mette in campo aziende agri-sociali come componenti costitutive del variegato arcipelago delle “organizzazioni a movente ideale” (OMI). In tali organizzazioni il movente non è primariamente il profitto ma un ideale, una missione o una vocazione. Esse portano con sé un elemento di gratuità: i comportamenti dei loro membri sono, infatti, praticati perché buoni e perché hanno un valore in sé. Se l’attività dell’impresa speculativa è solo uno strumento per ottimizzare qualcosa di esterno, ben distinto dall’attività stessa che quindi non ha alcun valore intrinseco ma, per definizione, unicamente strumentale, di converso l’OMI non svolge mai un’attività strumentale ma qualcosa che ha sempre un valore in sé. L’AS fa, dunque, riemergere un volto delle campagne che si stava dissolvendo e che rimanda alle tradizioni di solidarietà e reciprocità delle antiche società rurali.
Le attività di agricoltura sociale
In base alla Legge n. 141 del 18 agosto 2015, le attività di AS svolte dagli imprenditori agricoli e dalle cooperative sociali si possono suddividere in due branche. La prima riguarda l’insieme delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile. Queste attività hanno già una loro regolamentazione, compresi gli aspetti fiscali e previdenziali. In aggiunta alle normative in vigore, la legge n. 141 stabilisce che tali attività si configurano come AS quando sono finalizzate all’inserimento socio-lavorativo di lavoratori con disabilità e di lavoratori svantaggiati, definiti ai sensi dell’articolo 2, numeri 3) e 4), del Regolamento (UE) n. 651 della Commissione, del 17 giugno 2014, di persone svantaggiate di cui all’articolo 4 della Legge n. 381 dell’8 novembre 1991, e di minori in età lavorativa inseriti in progetti di riabilitazione e sostegno sociale.
Va sottolineato che tra le attività finalizzate all’inserimento socio-lavorativo di particolari fasce di popolazione e le altre attività agricole che il medesimo imprenditore agricolo o la medesima cooperativa sociale già svolge non c’è da rilevare alcuna complementarietà o connessione perché non si tratta di attività diverse. Le attività di inserimento socio-lavorativo di persone svantaggiate in agricoltura sono di per sé stesse agricole oppure si identificano con quelle agrituristiche o di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti agricoli o altre ancora, il cui svolgimento è già regolato da norme giuridiche. Solo la loro funzione è diversa: si tratta di attività finalizzate all’inserimento socio-lavorativo di soggetti fragili.
C’è poi una seconda branca di attività di AS che riguardano specificamente le attività di fornitura di servizi sociali, socio-sanitari, educativi mediante l’utilizzazione di attrezzature o risorse materiali e immateriali impiegate nelle attività agricole. La Legge n. 141 raggruppa dette attività in tre tipologie:
– prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura per promuovere, accompagnare e realizzare azioni volte allo sviluppo di abilità e di capacità, di inclusione sociale e lavorativa, di ricreazione e di servizi utili per la vita quotidiana;
– prestazioni e servizi che affiancano e supportano le terapie mediche, psicologiche e riabilitative finalizzate a migliorare le condizioni di salute e le funzioni sociali, emotive e cognitive dei soggetti interessati anche attraverso l’ausilio di animali allevati e la coltivazione delle piante;
– progetti finalizzati all’educazione ambientale e alimentare, alla salvaguardia della biodiversità nonché alla diffusione della conoscenza del territorio attraverso l’organizzazione di fattorie sociali e didattiche riconosciute a livello regionale, quali iniziative di accoglienza e soggiorno di bambini in età prescolare e di persone in difficoltà sociale, fisica e psichica.
La “connessione” come relazione collaborativa e legame con la tradizione
A differenza delle attività connesse riferite al primo raggruppamento (mi riferisco a quelle agrituristiche o di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti agricoli o altre ancora, il cui svolgimento è già regolato da norme giuridiche), l’attività di fornitura di servizi educativi, sociali e socio-sanitari (previsti nella seconda branca) può anche prevalere rispetto alle altre attività. Vale a dire che esclusivamente per i servizi educativi, sociali e socio-sanitari il criterio della connessione non è legato al principio della prevalenza. Nella legge sull’AS non c’è, infatti, alcun riferimento alla prevalenza così com’è, invece, espressamente previsto dalla legge sull’agriturismo.
L’art. 4 comma 2 della Legge n. 96/2006 così recita: “Affinché l’organizzazione dell’attività agrituristica non abbia dimensioni tali da perdere i requisiti di connessione rispetto all’attività agricola, le regioni e le province autonome definiscono criteri per la valutazione del rapporto di connessione delle attività agrituristiche rispetto alle attività agricole che devono rimanere prevalenti, con particolare riferimento al tempo di lavoro necessario all’esercizio delle stesse attività”. Limitatamente alle attività agrituristiche, il legislatore si preoccupa di contenere tali attività svolte in un’azienda agricola in una dimensione che non prevalga su quella riguardante le attività agricole per sé stesse. L’art. 2 comma 3 della legge n. 141 suona invece in ben altro modo: “Le attività di cui alle lettere…, esercitate dall’imprenditore agricolo, costituiscono attività connesse ai sensi dell’art. 2135 del codice civile”.
La connessione delle attività riguardanti la fornitura di servizi educativi, sociali e socio-sanitari alle attività di per sé stesse agricole non è riferita al binomio prevalente/accessorio e, dunque, non va valutata in base a parametri quantitativi di prevalenza. La legge sull’AS rimanda alla definizione di attività connessa contenuta nell’art. 2135 del codice civile: “Si intendono comunque connesse le attività… dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola”.
Questa scelta operata dal legislatore non è avvenuta in modo estemporaneo e inconsapevole ma è un risultato importante conseguito dall’iniziativa delle reti di agricoltura sociale nel confronto con le Commissioni parlamentari. Si è scongiurata l’indicazione di un criterio quantitativo di valutazione della connessione. La connessione si ha con il semplice congiungimento da parte dell’imprenditore agricolo di servizi educativi, sociali e socio-sanitari alle attività considerate tradizionalmente agricole dalle normative già in vigore. Le attività connesse non sono affatto – come erroneamente sostiene Gian Paolo Tosoni (L’impresa agricola diventa “sociale”, in Quotidiano del Fisco, Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2015) – “per natura accessorie e complementari alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento che devono essere principali”. Questo accade solo quando il legislatore, nel definire una determinata attività come “attività connessa”, espressamente introduce un criterio di prevalenza (o di accessorietà) dell’attività agricola per sé stessa da misurare su base contabile o con altri strumenti. Ma nel caso dell’agricoltura sociale, il legislatore si è astenuto dall’introdurre criteri di qualsiasi tipo per misurarne l’entità.
Una recente pronuncia della Corte Costituzionale (Sentenza n. 66 del 25 febbraio 2015 pubblicata in G.U. 29 aprile 2015 n. 17), nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa fiscale riguardante la produzione e la cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche effettuate dagli imprenditori agricoli sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Agrigento, fa alcune affermazioni sul tema della connessione che potrebbero trarre in inganno l’interprete della normativa sull’AS. Intanto, va tenuto in conto che la sentenza della Consulta si riferisce ad un caso ben specifico: la produzione di energia elettrica da fonte solare-fotovoltaica. La materia è, infatti, disciplinata dall’art. 1, comma 423, della Legge n. 266 del 2005, che individua tra le attività connesse anche “[…] la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo, effettuate dagli imprenditori agricoli, […]”. Vero è che la sentenza della Consulta richiama non solo la suddetta norma ma anche l’art. 2135 del codice civile che considera connesse “[…] le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata […]”. E questi rinvii servono alla Corte Costituzionale per fare due affermazioni importanti: a) “[…] quello che qui viene in evidenza è il fondo, quale «risorsa» primaria dell’impresa agricola, che, anche quando sia utilizzato per la collocazione degli impianti fotovoltaici, insieme alle eventuali superfici utili degli edifici addetti al fondo, deve comunque risultare «normalmente impiegat[a]» nell’attività agricola”; b) […] il requisito [della prevalenza] risulta immanente al concetto stesso di connessione ed è coerente con la ratio dell’intera normativa in materia, volta a riconoscere un regime di favore per l’impresa agricola pur in presenza dell’esercizio di attività connesse, purché queste ultime non snaturino la stessa impresa, contraddicendone la vocazione agricola”.
Ora vediamo cosa dice la Legge n. 141 sull’AS. L’art. 2, comma 1, lett. b è così formulato: “prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura […]”. Come si può notare, in questa formulazione è scomparso l’aggettivo “prevalente” accanto al termine “utilizzazione”. Non c’è più l’avverbio “normalmente” per connotare l’impiego delle attrezzature e delle risorse nelle attività agricole. E appaiono due nuovi aggettivi a connotare le risorse aziendali impiegate: “materiali” e “immateriali”. Allora la Legge n. 141 si discosta dall’art. 2135 del codice civile? Si potrebbe dire che lo interpreta e lo adatta all’AS, facendo cadere ogni appiglio per valutazioni quantitative e prettamente riferite ad elementi materiali. Riconosce un nesso intrinseco e immanente nel legame che si viene a stabilire tra i servizi educativi, sociali e socio-sanitari erogati dall’impresa agricola e l’utilizzazione delle risorse immateriali delle aziende agricole. Questo carattere immanente e intrinseco della connessione è facilmente rilevabile da una lettura attenta dell’art. 1 della Legge n. 141. La norma è rubricata “finalità” e recita così: “La presente legge […] promuove l’agricoltura sociale, quale aspetto della multifunzionalità delle imprese agricole […], allo scopo di facilitare l’accesso adeguato e uniforme alle prestazioni essenziali da garantire alle persone, alle famiglie e alle comunità locali in tutto il territorio nazionale e in particolare nelle zone rurali e svantaggiate”. La finalità della legge è duplice: promuovere l’agricoltura sociale e facilitare alle comunità-territori l’accesso al welfare. Si riconosce, dunque, un legame inscindibile tra i due elementi e una loro intrinseca pari dignità, rinunciando a stabilire una gerarchia tra le due finalità: non si ha promozione dell’agricoltura sociale senza un accesso più facile al welfare per le comunità-territori e non si ha facilitazione dell’accesso al welfare per le comunità-territori senza promuovere l’agricoltura sociale.
È dunque nelle finalità stesse della legge l’idea che, nel caso dell’AS, l’attività sociale svolta in un’azienda agricola non snaturi mai l’impresa agricola “contraddicendone la vocazione agricola”. Insomma, a chi volesse imporre all’AS l’applicazione del criterio della prevalenza per valutare la connessione richiamando la Sentenza n. 66 della Consulta e, dunque, stabilendo un’analogia tra agricoltura sociale e agroenergia, si dovrebbe proporre un’attenta lettura della Legge n. 141 e aggiungere un argomento molto semplice ma definitivo: un conto è un’azienda il cui fondo e le cui superfici utili dei fabbricati si ricoprono di pannelli fotovoltaici, un altro conto è un’azienda che eroga prestazioni e servizi sociali per le persone e la comunità locale mediante la reinvenzione di pratiche solidali tradizionali (cioè l’utilizzazione di risorse immateriali agricole che non vengono affatto sottratte all’attività di coltivazione del fondo anche quando queste sono residuali ma, anzi, ne accrescono il valore etico).
Il connotato “agricolo” della modalità di svolgimento dei servizi educativi, sociali e socio-sanitari non può, dunque, essere valutato andando a misurare l’”utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola”. Il legislatore dell’agricoltura sociale è stato previdente e ha trovato il modo per evitare il rischio di frapporre alle attività di agricoltura sociale strettoie burocratiche e complicati criteri valutativi. Nel definire le attività sociali ha efficacemente utilizzato un’espressione che si discosta dall’art. 2135 del codice civile: “prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura”. L’agrarietà dei servizi educativi, sociali e socio-sanitari va ricercata non già nella visione produttivistica dell’attività di coltivazione e di allevamento, ma nell’immaterialità delle risorse aziendali e, cioè, nella qualità delle partnership e delle collaborazioni, nella reinvenzione della cultura agricola e rurale locale, nel rilancio in forme moderne delle pratiche solidali tradizionali e dei beni relazionali propri dei territori rurali, nella cura del territorio e dell’ambiente, insomma nella rivitalizzazione della funzione generatrice di comunità propria dell’agricoltura che nasce, innanzitutto, come agricoltura di servizi (al servizio appunto delle prime comunità sedentarie e delle risorse ambientali per renderle compatibili con l’insediamento umano) prima ancora di connotarsi come attività produttiva.
Il problema della “prevalenza” agricola delle attività delle cooperative sociali
Limitatamente alle cooperative sociali, l’art. 2, comma 4, della Legge n. 141 prevede che questi enti, per potersi definire operatori dell’AS, devono realizzare la prevalenza del fatturato in agricoltura; qualora non raggiungano la prevalenza, ma superano la percentuale del 30% del volume d’affari complessivo, sono imprese agricole sociali in misura corrispondente al fatturato agricolo.
Come si può facilmente notare, la suddetta norma è di difficile interpretazione e, di fatto, inattuabile. Sarebbe meglio collegarla al comma 5 del medesimo articolo, che prevede la possibilità di svolgere le attività di AS in associazione tra più soggetti. Come gli imprenditori agricoli possono svolgere tali attività in associazione con le cooperative sociali, così le cooperative sociali dovrebbero poter svolgere le medesime attività in associazione con le imprese agricole. E in tal modo, in presenza di reti di imprese agricole e sociali, superare lo scoglio della prevalenza del fatturato agricolo.
Il riconoscimento degli operatori dell’agricoltura sociale
Entro il 23 marzo 2016, le Regioni dovranno stabilire le modalità per consentire il riconoscimento degli operatori dell’AS da parte degli enti preposti alla gestione delle prestazioni e dei servizi sociali, socio-sanitari, educativi e di inserimento socio-lavorativo e di rendere pubblici i nominativi degli operatori riconosciuti. Deve essere chiaro che non si tratta di accreditamento ma di riconoscimento. I due termini non sono sinonimi e il legislatore ha utilizzato il secondo a ragion veduta. Basta leggere i resoconti dei lavori parlamentari per verificare che, ad un certo punto, il termine “riconoscimento” ha sostituito la parola “accreditamento” a seguito di una puntuale richiesta delle reti di AS. E questo per un motivo molto semplice: le attività di AS sono esercitate da decenni senza che alcuna normativa le abbia regolamentate. Sono espressione della capacità della società civile di realizzare da sé risposte ai bisogni sociali. Non si tratta dunque di esternalizzare servizi e prestazioni già svolte da enti pubblici e che questi affidano a strutture private da accreditare. Le istituzioni non devono accreditare ma riconoscere le attività che gli operatori dell’AS già svolgono per proprio conto, valutandone l’effettivo interesse generale. L’articolo 118 della Costituzione prevede che “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. L’oggetto della valutazione e del monitoraggio deve riguardare essenzialmente un aspetto fondamentale: se le attività svolte dagli operatori dell’AS sono effettivamente di interesse generale o meno. Occorre, infatti, passare da una sussidiarietà ottriata o concessa ad una sussidiarietà fondata sul riconoscimento della società civile. La mancanza di questa visione corretta della sussidiarietà crea forme dirigistiche nei rapporti tra istituzioni e cittadini che frenano la capacità della società civile di formare reti di economie civili e di cittadinanza attiva.
Tutte le attività di AS possono essere svolte da operatori riconosciuti in associazione con imprese sociali, associazioni di promozione sociale, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati. Naturalmente restano ferme la disciplina e le agevolazioni applicabili a ciascuno dei soggetti richiamati in base alla normativa vigente.
Le medesime attività sono realizzate, nei casi in cui ciò è previsto dalla normativa di settore, in collaborazione con i servizi sociosanitari e con gli enti pubblici competenti per territorio. Quest’ultimi, nel quadro della programmazione delle proprie funzioni inerenti alle attività agricole e sociali, promuovono politiche integrate tra imprese, produttori agricoli e istituzioni locali al fine di sviluppare l’AS.
In conclusione si può affermare che le prospettive dell’AS risiedono: a) nella capacità di sviluppare il terziario civile innovativo che, da tempo, si è messo in movimento; b) nella qualità delle connessioni, cioè delle collaborazioni e delle partnership che si stabiliranno tra competenze diverse; c) nel modo in cui queste connessioni alimenteranno e renderanno efficaci i percorsi partecipativi dal basso, integrando – nella fase attuativa della Programmazione dei Fondi Strutturali e d’Investimento Europei 2014-2020 – sviluppo rurale (PSR) e pianificazione sociale (POR FSE e Piano Sociale regionale).