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Tito e i suoi gruppi dirigenti

Intervento alla Tavola Rotonda sul tema "Tito dagli anni Cinquanta ai giorni nostri", organizzata dall'Amministrazione comunale, nella Sala "Don Domenico Scavone", il 23 ottobre 2010

Tito - 1978 - Manifestazione per lo sviluppo e per il lavoro indetta dalle organizzazioni sociali e dagli enti locali  Il corteo attraversa Via Roma

Tito – 1978 – Manifestazione per lo sviluppo e per il lavoro indetta dalle organizzazioni sociali e dagli enti locali
Il corteo attraversa Via Roma

Vorrei rilevare in premessa tre cose:

 1) sessanta anni sono un arco di tempo abbastanza ampio per cogliere punti cruciali della vicenda storica della nostra comunità e riflettere su di essi con profondità;

 2) la nostra vicenda locale ha avuto in tale periodo un’evoluzione tutta dentro i grandi processi storici che hanno investito la Basilicata, il Mezzogiorno e il Paese;

 3) le fasi decisive di questo sessantennio a me sembrano due:

 a)      l’avvio della democrazia repubblicana e la ricostruzione, che daranno vita, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, alla “grande trasformazione” da un assetto prevalentemente agricolo ad uno prevalentemente extra-agricolo (servizi e industria);

b)      l’avvio della crisi politica, tra gli anni Settanta e Ottanta, quando si manifesta una diffusa incapacità, da parte della classe dirigente, di governare la modernizzazione.

 a) L’avvio della democrazia repubblicana e la ricostruzione (anni Cinquanta e Sessanta)

In tale periodo, emerge la presenza di una nuova classe dirigente locale, non più legata alla borghesia terriera parassitaria, formatasi nei primi decenni dell’Ottocento ed egemone fino al fascismo, ma espressione di una borghesia produttiva o che comunque guarda con fiducia alla modernità, senza più le paure del passato.

Fortemente motivata sul piano ideologico e in collegamento stretto coi gruppi dirigenti regionali e nazionali, essa promuove i grandi partiti di massa e i sindacati e partecipa, con un’intensa attività amministrativa e politica, alla ricostruzione.

La democrazia repubblicana e l’opera di ricostruzione danno esiti positivi in termini di modernizzazione sia se si guarda alla Basilicata, sia se si guarda a Tito.

A livello regionale:

– la malaria viene debellata;

– la pianura metapontina è bonificata e dotata di impianti irrigui che permettono di moltiplicare la produzione agricola e la popolazione;

– le terre migliori della collina raggiungono notevoli livelli di progresso, grazie alla meccanizzazione, alle innovazioni varietali, alla migliore tecnica colturale;

– si avvia la costruzione delle fondovalli a scorrimento veloce che rivoluziona il sistema dei trasporti;

– si dà vita ad una politica di industrializzazione per “poli di sviluppo” benché gli investimenti siano del tutto scollegati dall’economia locale;

– tra tutti gli strati della popolazione si generalizza il sistema assistenziale e previdenziale;

– l’analfabetismo scompare e incomincia a crescere in modo esponenziale il numero dei diplomati e laureati;

– arrivano le rimesse dei 250 mila emigranti che si erano spostati prevalentemente nel “triangolo industriale” (il cui sviluppo era stato indotto anche dalla domanda di macchine agricole, concimi e mangimi conseguente allo sviluppo agricolo).

I benefici di quella grande trasformazione si distribuiscono in modo certamente difforme sul territorio regionale: le zone più interne ne sono soltanto lambite. Ma è indubitabile che, dappertutto, pur in presenza di uno sviluppo ritardato, le condizioni che si registrano negli anni Sessanta non si possono paragonare a quelle che vi erano alla fine della guerra. Gli effetti della grande trasformazione si avvertono ovunque.

A livello locale:

– decine e decine di affittuari e mezzadri acquistano le masserie coi benefici fiscali e creditizi della piccola proprietà contadina (si irrobustisce il ceto medio produttivo delle campagne);

– si costruiscono strade, acquedotti, scuole, strutture per servizi sociali;

– con le rimesse degli emigranti molte abitazioni sono adeguate ai nuovi standard civili;

– il raccordo della Basentana con la Salerno-Reggio Calabria rende più facili i collegamenti con la vicina Campania;

– nel 1959 a Potenza viene individuata un’area di 150 ettari per insediarvi una serie di fabbriche in cui sono occupate persone che provengono da tutti i Comuni vicini, compresa la nostra comunità.

Questo è un punto importante su cui occorre insistere se vogliamo che i giovani abbiano una percezione più precisa della nostra storia recente.

Le fratture ideologiche accentuate dalla guerra fredda hanno, infatti, prodotto interpretazioni e giudizi divaricati sull’esito della grande trasformazione.

I risultati della riforma agraria sono stati, in realtà, da una parte enfatizzati dalla Dc, che controllava gli enti che gestivano gli interventi previsti da questa legge, e dall’altra sminuiti dalle sinistre. Le quali, pur avendo rivendicato la riforma con le lotte per la terra, la hanno poi snobbata nella fase attuativa, anche per i limiti culturali derivanti dalle visioni operaiste all’epoca imperanti tra i comunisti e i socialisti.

La stessa cosa si può dire per la scelta di investire in grandi opere pubbliche le risorse  della Cassa per il Mezzogiorno: per la Dc si è trattato di un apporto decisivo allo sviluppo, mentre per i comunisti è stato un atto di subordinazione alle regioni settentrionali interessate ad accrescere la domanda di beni e la capacità di acquisto del Mezzogiorno perché quegli investimenti pubblici non erano direttamente collegati ad un parallelo sviluppo produttivo.

E siffatte divisioni si sono riprodotte anche in sede storiografica. Non a caso, in altri Paesi, i processi di modernizzazione, come quelli che hanno riguardato l’agricoltura e le campagne, sono stati conservati nella memoria storica e nelle immaginazioni letterarie e cinematografiche, mentre da noi i grandi romanzi e il grande cinema ambientati in contesti rurali, riguardano periodi storici precedenti alla seconda guerra mondiale.

Tutto questo ha contribuito a far sì che quella fase “eroica” della nostra storia non abbia avuto alcun effetto in termini di crescita dell’identità nazionale, regionale e locale. Un’identità che sembra smarrirsi perché non si fonda su grandi narrazioni condivise.

Ora che sono cadute le grandi ideologie del Novecento, possiamo guardare tutti con oggettività e senza paraocchi a quanto è avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta e convenire che, in quella fase della nostra storia recente, si è dato vita ad un grande processo di trasformazione economica e sociale del Paese, che non riguardò solo il Nord e le grandi città, ma ha avuto riflessi profondi anche nel Mezzogiorno, nella nostra regione e nella nostra comunità.

Le più importanti politiche pubbliche avviate  agli inizi degli anni Cinquanta (riforma agraria, Piano Marshall e interventi della Cassa per il Mezzogiorno) sono partite da una condivisione degli obiettivi di sviluppo del Paese da parte dei grandi partiti di massa.

La riforma agraria è stata realizzata da governi a guida Dc, ma era una conquista delle lotte per la terra condotte dalle sinistre; gli interventi infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno sono stati effettuati da un apparato tecnico che faceva riferimento all’area dei cattolici democratici o del Partito d’Azione, ma erano contenuti nel Piano del Lavoro proposto dalla Cgil nel 1949. Non a caso Di Vittorio in Parlamento, in disaccordo con il suo partito, votò a favore dell’istituzione della Casmez. Il Piano Marshall è stato messo a punto dagli americani per sostenere la ricostruzione dell’Europa uscita dalle macerie della guerra, ma gli elementi riguardanti il Mezzogiorno d’Italia e, in particolare, le campagne furono concordati con Manlio Rossi Doria, un tecnico di area socialista prestato alla politica.

La nostra comunità ha partecipato in modo attivo a quei movimenti e si è preparata a gestire la fase di avvio delle politiche di sviluppo con una forte presenza dei partiti di massa e di  amministratori pubblici capaci e orientati politicamente.

Alla fine del 1949 sono stati occupati, in contrada Colacerchiara, 140 ettari di terreni incolti di proprietà degli Spera; in contrada Maccarò, 30 ettari di pascolo appartenenti a Maria Capaldo; a Piano di Finocchio e a La Mangosa 20 ettari di demanio comunale; a S. Vito 6 tomoli di seminativo di Alfredo Postiglione. Le occupazioni si sono concluse il 10 dicembre con l’intervento dei carabinieri che arrestarono 8 persone e ne denunciarono 155. Un gruppo di intellettuali, professionisti e artigiani dirigeva quelle lotte a stretto contatto con il gruppo dirigente comunista di Potenza che faceva riferimento a Giorgio Amendola, all’epoca segretario della Campania e della Basilicata. A Tito il terreno era politicamente fertile perché vi erano stati episodi significativi di una presenza comunista già nel ventennio fascista e nella Resistenza (la vicenda di Rocco Viggiani arruolatosi nelle Brigate Garibaldine e caduto nella guerra di Spagna; la presenza di confinati politici; il coinvolgimento di un giovane militare, Giuseppe Meliante, nelle deportazioni naziste a seguito del suo rifiuto ad arruolarsi nell’esercito repubblichino; la partecipazione di Giuseppe Marmorosa alla lotta di Liberazione nelle fila titoiste).

Nei primi anni Cinquanta si sono verificate altre azioni di lotta per il lavoro. Anche i titesi hanno preso parte a tali iniziative: viene occupato l’ufficio di collocamento per contestare l’arbitrio del dirigente Luigi Oddone nell’avviare al lavoro i braccianti agricoli. Si sono distinte nelle azioni di lotta soprattutto le donne comuniste. Alcune sono state arrestate. Maria Carbone è fermata per alcuni giorni in carcere a Potenza.

Questi avvenimenti spiegano un costante consenso elettorale verso il Pci, che mantiene tra i 500 e i 600 voti dal dopoguerra fino agli anni Ottanta.

Nel frattempo, quel gruppo di professionisti e artigiani che aveva diretto le lotte per la terra, nel 1956 prende le distanze dal Pci su posizioni antisovietiche e si identifica nel movimento di Adriano Olivetti “La Campana”, una posizione politica e culturale visionaria, ma moderna della società, che pone al centro l’uomo nelle politiche di programmazione e pianificazione del territorio. Negli anni Sessanta, gli olivettiani confluiscono nel Psi, il cui radicamento a Tito aveva origini nel periodo prefascista e si è mantenuto costantemente vivido fino agli anni Ottanta.

Anche dal versante della Dc, la presenza di leader carismatici lucani di rilevanza nazionale, come Emilio Colombo, e la capacità dell’associazionismo cattolico (Acli, Azione Cattolica) di coprire in modo capillare il territorio regionale hanno fatto sì che anche a Tito nascesse un forte nucleo di quel partito che amministrerà il Comune per quasi 30 anni. A livello locale si distinguono figure come quella di Alfredo Laurenzana e Giovanni Sorrentino, che sono stati sindaci. Si dovrebbe indagare con maggiore dettaglio l’apporto concreto di quelle amministrazioni, le opere pubbliche realizzate per rendere più civili le condizioni di vita della nostra comunità, le azioni concrete per farla crescere sul piano sociale e culturale.

E’ inoltre indispensabile raccogliere documenti e testimonianze che riguardano l’attività politica di figure legate alla nostra comunità e impegnate nei movimenti delle sinistre come Giuseppe Marmorosa, Gaetano Laurenzana, Antonio Vazza, Domenico Gallerano, Luigi Salvia, che è stato il primo sindaco di Tito in età repubblicana, ed altri che qui non si citano per brevità.

All’opera di rinascita concretizzata in quella fase va collegato anche l’impegno, su piani diversi, di uomini di chiesa (don Domenico Scavone e don Nicola Laurenzana) e di esponenti del mondo della scuola e delle professioni e del ceto medio produttivo (coltivatori diretti e artigiani), di cui non si è ancora fatta una ricognizione delle opere realizzate e delle attività svolte.

Pur partendo da idealità diverse e appartenenze politiche separate, tutti hanno concorso al benessere e alla crescita della nostra comunità  nei primi decenni di democrazia repubblicana. E delle loro realizzazioni noi dobbiamo serbare gelosamente la memoria perché qui si ritrovano le nostre radici.

b) L’avvio della crisi politica, tra gli anni Settanta e Ottanta, quando si manifesta una diffusa incapacità, da parte della classe dirigente, di governare la modernizzazione

Si tratta di limiti dovuti ai ritardi nell’adeguamento delle culture politiche che hanno innanzitutto impedito una lettura corretta delle trasformazioni avvenute e che hanno avviato di fatto la crisi del sistema politico, poi esplosa negli anni Novanta e non ancora risolta.

Si sottovalutano, ad esempio, i bisogni dell’individuo che vanno oltre le condizioni di lavoro e sono in conflitto sia con visioni di stampo collettivistico che con quelle di tipo statalista. Non si dà inoltre peso alla creatività e allo spirito imprenditoriale di gruppi sociali emergenti.

Costituisce un altro esempio concreto del ritardo culturale l’incapacità di cogliere le opportunità derivanti dal nesso che si stabilisce, a seguito della grande trasformazione, tra il futuro di Tito e le sorti della città di Potenza. Un ritardo naturalmente condiviso con l’intera classe dirigente regionale, che non ha mai sciolto per un lungo periodo i nodi del ruolo di Potenza.

Già nei documenti nei primi schemi di programmazione regionale elaborati negli anni Sessanta, era stato posto il problema se la Basilicata avesse potuto aspirare ad una identità regionale senza essere disegnata sul fulcro di una “metropoli”, come era invece il caso della Campania e della Puglia.

Da allora la città di Potenza era coinvolta in un duplice dibattito, uno di livello regionale e l’altro di livello locale, come due facce della stessa medaglia. Per quanto riguarda la dimensione regionale, il tema  era l’assenza di un’area urbana centrale che sapesse coagulare la politica di riequilibrio territoriale tra le diverse aree della Basilicata. Ed era riassunto come “questione urbana”. Per quanto concerne invece la dimensione locale, il tema riguardava la ricerca di un nuovo e diverso ruolo di città per il capoluogo, non più come una sorta di “capitale nel deserto” ma di una città al servizio dell’intero spazio regionale. Ed era racchiuso nello slogan “Potenza città-regione”. Il confronto su questi due temi non è mai decollato. La Regione non lo aveva mai fatto proprio, preferendo dar corpo ad una politica basata sulle cosiddette “direttrici di sviluppo” di fondovalle. E le comunità montane sono state disegnate separando Tito e Picerno dagli altri comuni della cintura potentina; talché è stato impossibile l’approfondimento del duplice tema in un unico programma territoriale di sviluppo. Pertanto, la crescita di Potenza è avvenuta in modo spontaneo, più come effetto della costruzione della Basentana, che come esito di una scelta più generale, capace di sciogliere il nodo sia della “questione urbana”, che di “Potenza città-regione”. Sicché, il suo insediamento residenziale ha interessato quasi tutto il territorio cittadino e poi quello dei comuni contermini con processi di espansione per infittimento dei nuclei esistenti. Se guardiamo ai servizi e alle infrastrutture sociali, si può notare che a Potenza si sono concentrati sia i servizi alle imprese, dal credito alla consulenza, dalla comunicazione all’informatica; sia i servizi alle famiglie, dal commercio al dettaglio alle strutture ricettive, dalla ristorazione all’istruzione, dalla sanità ai servizi alla persona. Mentre Tito è stato dotato prevalentemente di strutture commerciali e bancarie e per giunta quasi tutte concentrate allo Scalo. Il territorio di Tito Scalo ha subito tutti gli effetti perversi di questa carenza pianificatoria. E al centro di Tito è stata sottratta qualsiasi funzione.

Bisognerà attendere la fine del 2004 quando per la prima volta in un documento di pianificazione territoriale – “Prime indicazioni per la formazione del Piano Strategico Metropolitano” – della Città di Potenza e dei Comuni di Avigliano, Brindisi di Montagna, Picerno, Pietragalla, Pignola, Ruoti, Tito e Vaglio, volontariamente associati tra di loro, il tema verrà posto ufficialmente  nel dibattito pubblico. In esso verrà indicato con chiarezza l’obiettivo di creare una polarità regionale più forte, al fine di garantire, da un lato, alla nuova organizzazione urbana una reale prospettiva di crescita e di sviluppo, e, dall’altro, un assetto territoriale regionale più equilibrato e sostenibile.

Ci sono voluti trenta anni per ottenere qualcosa che si sarebbe dovuto conseguire già negli anni Settanta. Un traguardo raggiunto a freddo dalla classe politica, quasi sospinta per forza di inerzia da una società che è andata spontaneamente muovendosi in tale direzione. Ma il prezzo di questo ritardo è stato enorme: una comunità non può restare per così lungo tempo priva di una identità, che è sempre il frutto non solo delle proprie radici ma anche degli obiettivi strategici del proprio sviluppo e delle ambizioni degli abitanti del territorio di riferimento.

Eppure già negli anni Settanta vi erano tutte le condizioni per produrre un rinnovamento di cultura politica per governare i processi di modernizzazione perché i nuovi bisogni sociali si erano espressi in modo esplicito in diverse occasioni.

Per comprendere meglio questa fase occorre considerare la rapidità con cui era avvenuta la grande trasformazione, che aveva riguardato sia gli aspetti socio-economici, sia quelli ideali e culturali. In meno di un decennio, tra la metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, si erano infatti verificati cambiamenti profondi nei rapporti di lavoro, nei consumi, nelle forme dell’abitare, negli assetti civili, nei livelli di istruzione, nei modi di pensare. Nelle campagne erano rimaste meno persone e si era potuto distribuire meglio il carico di lavoro in agricoltura, utilizzando le macchine e altri mezzi tecnici. Chi aveva inventiva aveva incominciato ad ingegnarsi in nuove attività artigianali. Chi non trovava lavoro qui, aveva una speranza di trovarlo altrove. Si avvertiva un grande disagio per i cambiamenti repentini che avvenivano, ma anche una grande euforia per le opportunità che si creavano e che permettevano di uscire dall’immobilismo.

Erano così emersi soggetti sociali nuovi: imprenditori agricoli professionali e a tempo parziale, tecnici, studenti, professionisti, operai specializzati, artigiani, piccoli imprenditori in varie attività produttive. Essi avevano incominciato a chiedere a gran voce nuove forme di partecipazione e di rappresentanza politica e sociale per affrontare i nuovi termini dello sviluppo perché né la politica, né il sindacato erano capaci di leggere quello che era effettivamente avvenuto.

I gruppi dirigenti che si erano formati agli albori della democrazia repubblicana erano stati, infatti, capaci di promuovere la grande trasformazione; ma quando poi questa era avvenuta, non erano più apparsi in grado di governare i nuovi processi sociali: mancavano analisi aggiornate delle modificazioni intervenute, non c’era la cultura politica adeguata alla nuova fase.

Con l’avvento del centrosinistra, erano stati fatti dei tentativi di programmazione ma senza successo. Anche in Basilicata si erano avviati studi e ricerche: nel 1961 la Camera di Commercio di Potenza aveva costituito un comitato di studi sui temi dello sviluppo delle due province lucane e nel 1967 era stato pubblicato il primo “Schema di sviluppo regionale”, elaborato dal Comitato regionale per la programmazione economica. Ma si trattava di tentativi che poggiavano gli obiettivi di sviluppo su risorse e investimenti esterni e ad alta intensità di capitale e non invece sulla mobilitazione delle energie e dell’inventiva dei nuovi soggetti sociali locali.

Ed è per tutti questi motivi che, a differenza di quanto era avvenuto in altre parti del mondo, il moto di contestazione, che nella seconda metà degli anni Sessanta aveva fatto la sua eclatante apparizione, non aveva interessato solo le università e le fabbriche, ma si era esteso in tutte le pieghe della società: nel Mezzogiorno, nelle campagne, nei piccoli comuni. Tale moto aveva segnalato un disagio profondo per la profondità e repentinità dei cambiamenti avvenuti negli anni immediatamente precedenti e avevano denunciato l’incapacità delle classi dirigenti di inquadrare i nuovi termini dello sviluppo in una visione strategica.

Anche la Basilicata ha avuto il suo Sessantotto che si è protratto fino al “febbraio lucano” nel 1970, quando uno sciopero generale bloccò la regione per tre giorni consecutivi.

Le iniziative di lotta coinvolgevano intere popolazioni e ceti sociali differenziati: studenti, tecnici, operai, coltivatori, artigiani.

A Monticchio, nel 1969, trenta sacerdoti e laici militanti delle Acli rendono pubblico il loro dissenso dalla Dc e dalla stessa Chiesa. Contestano il modo come sono state fino a quel momento affrontate dalla classe dirigente le questioni dello sviluppo.

Dal 1972 l’Area di sviluppo industriale di Potenza viene ampliata fino a contenere il Piano di Sant’Aloja e La Matina, ricadenti nel territorio di Tito. Centinaia di titesi sono impiegati nei lavori di costruzione delle fabbriche e delle infrastrutture industriali e poi assunti dalle aziende che si insediano coi finanziamenti pubblici. E la nostra comunità diventa uno degli epicentri dello scontro sociale.

Nel frattempo, al Pci si iscrivono impiegati, insegnanti e studenti. Un punto di riferimento della sezione diventa Michele Tucci, un dirigente della Ragioneria  provinciale del Tesoro, che porta qui la sua esperienza di militante comunista dalla vicina Puglia.

Ma accanto ai partiti, vivacizza per qualche anno la nostra comunità un circolo culturale denominato “Il messaggio”, animato da Nino Vazza che porta da Napoli le novità maturate nei movimenti studenteschi. Un centinaio di giovani frequentano assiduamente il circolo nelle iniziative culturali, teatrali e ricreative. Per un certo periodo esso dà vita anche ad un periodico ciclostilato che va a ruba. Memorabile è, inoltre, la rappresentazione di una commedia a soggetto nel periodo di Carnevale. I ritratti gustosi dei personaggi, riprodotti, con forte senso dell’ironia, da una realtà in forte trasformazione, attira tanta gente da riempire piazza del Seggio come nelle feste patronali. Il circolo organizza, peraltro, manifestazioni per la gratuità del trasporto pubblico a favore degli studenti pendolari e partecipa alle lotte degli operai chimici in cassa integrazione. In quegli anni, il disagio sociale è enorme perché il processo di industrializzazione si era bloccato a causa delle conseguenze della grande crisi petrolifera, che aveva modificato in maniera improvvisa e irreversibile le ragioni di scambio tra materie prime e prodotti finiti.

Quella del circolo “il messaggio” è stata la mia prima esperienza politica. Eravamo guardati con qualche sospetto sia dai democristiani che dai comunisti, che ci vedevano come degli insidiosi concorrenti. Noi riuscivamo a incanalare la domanda di partecipazione che veniva soprattutto dai giovani, mentre le sezioni dei partiti languivano. La nostra connotazione politica era di sinistra ma in piena autonomia dai partiti e dal sindacato. Una scelta coraggiosa in un periodo caratterizzato da appartenenze politiche e ideologiche molto forti. Poi come tutte le cose che si vivono con tale intensità da prenderti l’anima, ad un certo punto quell’esperienza straordinaria si interruppe. E molti di noi entrammo nella Federazione giovanile comunista, facendo una netta scelta di campo a livello locale. Iniziò allora anche il mio impegno sui temi dell’agricoltura e delle campagne nella Confcoltivatori di Potenza. Fu Pasquale Moscarelli, un contadino comunista che aveva fatto le battaglie per la riforma dei contratti agrari con Gennaro Laus, a presentarmi ai dirigenti dell’organizzazione contadina provinciale.

Nel 1974 la battaglia per il referendum abrogativo del divorzio fu molto vivace anche a Tito con schieramenti che andavano oltre i partiti e che vedevano i cattolici divisi tra i due fronti a dimostrazione dei cambiamenti profondi sul piano ideale che erano avvenuti precedentemente.

Nello stesso anno, per la prima volta si elessero anche gli organismi scolastici con liste che non rispecchiavano la geografia dei partiti politici. Don Nicola Laurenzana capeggiò una lista in cui vi erano genitori di sinistra in competizione con una lista ispirata dalla Dc. Aldilà delle motivazioni contingenti, quella scelta segnalava un malessere nella nostra comunità che si allargava a macchia d’olio.

Arrivammo così alle elezioni amministrative del 1975 con due liste contrapposte: quella della Dc capeggiata da Gerardo Scavone e una lista civica guidata da Nino Laurenzana e Domenico Gallerano e formata da comunisti, socialisti e democristiani dissidenti. La decidemmo in lunghe riunioni al Convento sotto la guida di don Nicola, che era il più convinto assertore di quella scelta e che avrebbe partecipato direttamente alla battaglia elettorale se solo avesse potuto.

Tuttavia, vinse di nuovo la Dc. Ma lo strappo lasciò il segno in quel partito; e quell’alleanza anomala produsse fratture anche tra i comunisti, le cui frange più settarie non votarono la lista unitaria. A rappresentare la minoranza, entrammo in Consiglio comunale Nino Laurenzana, Salvatore Gatta, Pasquale Moscarelli ed io

Nel frattempo, la Dc lucana vedeva rompersi al proprio interno il monolitismo di Emilio Colombo e in essa si rafforzava la Sinistra di Base, nel tentativo di catalizzare le spinte al rinnovamento che provenivano dalla società. Questa corrente aveva un seguito anche nella Dc di Tito, dove era diventato un punto di riferimento Tommaso Sorrentino, che era entrato a far parte del gruppo dirigente della Dc potentina.

Erano tutti segnali di una crisi che avrebbe dovuto portare ad un rinnovamento profondo. Ma non si seppe uscire dalle secche di impostazioni culturali che facevano riferimento al collettivismo o allo statalismo.

Cosa frenò quel passaggio? Dove si annidavano le resistenze? La mia risposta è che durante la grande trasformazione si era aggregato un nuovo blocco sociale, trasversale dal punto di vista politico e più virulento del vecchio blocco agrario improduttivo dei “rentier”, che era stato rotto nell’immediato dopoguerra.

Questo nuovo blocco sociale è ora fatto di pubblica amministrazione, cresciuta a dismisura con l’istituzione della Regione, di fruitori di trasferimenti sociali di tipo assistenzialistico e di settori imprenditoriali, nell’edilizia e nell’industria, che vivono di risorse pubbliche e scambiano con la politica incentivi e assunzioni.

E’ questo blocco che non permette il rinnovamento nei partiti e nelle istituzioni. Un blocco parassitario che difende le proprie rendite di posizione e i propri privilegi e non fa emergere energie produttive, creative, che amano il rischio e vogliono intraprendere.

È forse questa lotta sorda, che dura da due secoli, tra forze parassitarie, da una parte, che non vogliono fare i conti con la modernizzazione, e forze creative e produttive, dall’altra, che vogliono invece sfidare la paura del nuovo, la nostra identità più profonda?

Ma se è questo conflitto la nostra identità, andiamolo a ricostruire per capire meglio dove dobbiamo andare e soprattutto da dove derivano la disaffezione dei giovani dalla politica e il senso di rassegnazione che si respira nella nostra terra.

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